Una volta alla settimana ricevevamo la visita di Ciriaco, il vecchio farmacista di Nuba, pensionato da anni nonostante avesse l’età di don Lorenzo, il quale, al contrario, continuava a lavorare con lo stesso ritmo di sempre.
«La differenza è che io faccio quello che mi piace e Ciriaco per tutta la vita ha fatto quello che piaceva agli altri. Sua madre voleva che diventasse farmacista, in modo che non si allontanasse troppo dalle sue sottane, e Ciriaco andò a Santiago a studiare Farmacia. Poi tornò qui, aprì l’attività, e ha visto la vita passare tra antibiotici e aspirine. Così ha una faccia da eterno raffreddato. Non si è sposato perché a sua madre nessuna candidata sembrò abbastanza adatta al suo bambino» mi spiegò un giorno don Lorenzo, «e così, anche se avrebbe potuto farsi una famiglia e avere figli, non l’ha fatto.»
«Neppure lei» suggerii io, sibillina, mentre scuotevo via la polvere da un libro e mi sentivo come una madre severa che sculaccia il suo irrequieto bambino.
«Il mio caso è diverso, giovane impicciona.»
«Sì, il nostro caso è sempre diverso da quello degli altri» sospirai.
«Ciriaco e io abbiamo la stessa età. Lui è di un paio di mesi più vecchio di me. Siamo andati a scuola insieme, e al militare. E io, almeno, ho conosciuto l’amore. Di lui, non ne sono tanto sicuro.»
«Ha avuto qualche fidanzata degna di memoria?»
«Sì, credo, ma non molto. È successo mille anni fa, eravamo tutti giovani, allora. Lei era una bella trapezista che era arrivata in paese. Accompagnata da un intero circo, come puoi immaginare.»
«E che disse la madre di Ciriaco?»
«Doña Elena, ah, sì... Mi ricordo bene quei giorni.» La faccia di don Lorenzo arrossì di soddisfazione via via che i pensieri incalzavano la sua memoria. «Divenne una furia. Le sue urla arrivavano fino in Francia. “Una saltimbanco!” diceva la donna gridando con quanta voce aveva in gola, niente meno che una giramondo che cercava di impadronirsi del cuore, e soprattutto dei beni, del suo amato e insipido figlio. Ah, ah, ah...! Se avessi visto la sua faccia, ti saresti sbellicata. Ma, ovviamente, all’epoca tu non eri neppure nata.»
Smisi di fare quel che stavo facendo e mi sedetti a guardare don Lorenzo che si accingeva a rilegare e disponeva con cura i suoi attrezzi sul grande tavolo di legno di guaiaco.
Girai uno sguardo ammirato nella libreria ed ebbi un moto di felicità pensando a quanto ero fortunata a essere lì. Mi sentivo come Hansel e Gretel dopo che sono scappati dalla gabbia in seguito alla morte della strega cattiva, e trovano perle e pietre preziose dappertutto.
«E perché poi?» continuò il libraio. «Non lo so. Immagino che le persone si aggrappino al mondo, anche se sospettano che ci passeranno pochissimo tempo. I beni materiali fanno più volume di quelli spirituali, e c’è gente che non ci vede bene. O che, semplicemente, è malvagia. O ottusa.»
«Vuole che l’aiuti a sistemarlo?»
«No, lascia stare. Magari un giorno, quando ti insegnerò a rilegare...» Don Lorenzo alzò lo sguardo. «Ehi, parli del diavolo...»
Il profilo del suo amico, don Ciriaco, si stagliò sulla porta d’ingresso, spalancata. L’uomo oltrepassò la soglia ed entrò nella sala dov’eravamo noi due con il suo passo affaticato, producendo un rumore irritante ogni volta che appoggiava a terra il bastone.
«Buon giorno» salutò.
Era uno di quegli uomini che danno l’impressione di portare un’armatura, nonostante indossasse una camicia di cotone, ampi pantaloni di serge, scarpe di corda e un cappello di paglia.
«Buon giorno» rispondemmo all’unisono il mio capo e io.
«Fa caldo, Lorenzo, un caldo che arriva direttamente dall’inferno. In mio onore, ma forse anche nel tuo.»
«Non molto tempo fa ti lamentavi che faceva freddo.»
«Sì, però era in inverno. Ora mi lamento del caldo.»
«Ti piacerebbe se facesse freddo d’estate e caldo d’inverno?»
«Ebbene, sì. Mi piacerebbe molto.»
«Io credo che se facesse freddo d’estate, l’estate la chiameremmo inverno. E viceversa. Ma fai tu.»
Nel vedere insieme i due uomini, ero sempre colpita da quanto sembravano diversi. Uno invecchiato e curvo come l’anziano che ancora non era, l’altro ritto e orgoglioso come il giovane che non era più.
Nella vita si possono fare scelte differenti, seguire percorsi molto diversi l’uno dall’altro, e la strada prescelta conduce a porti diversi.
Mi dissi che, potendo scegliere, preferivo seguire il percorso del mio capo piuttosto che quello di don Ciriaco. I due uomini erano come sentieri che si separavano in un bosco giallo, se dobbiamo credere a Robert Frost, e a me non dispiaceva non poterli percorrere entrambi. Preferivo anche scegliere il meno affollato.
Volevo fare della mia vita un’opera d’arte, non desideravo che la mia vita avesse quella mancanza di definizione degli schizzi a olio, che rafforzano l’effetto spettrale del quadro.
Sorrisi con tenerezza a don Ciriaco, invasa da un’ondata di compassione. Un’ondata, bisogna ammetterlo, superba e arrogante, la commiserazione di chi si crede al sicuro dagli errori che vede negli altri e non capisce che può commetterne di molto peggiori.
«Diventiamo vecchi, Lorenzo» disse il farmacista in pensione.
«Vecchio sarai tu.»
«E anche tu!»
Il mio capo scrollò le spalle.
«Va bene, allora anch’io. Però meno di te.»
«Ma se non ci dividono neppure due mesi!»
«Invecchiare è l’unico modo finora conosciuto per vivere a lungo, come ben sapeva il compositore francese Daniel Auber, autore di Fra’ Diavolo e altre opere che adesso non c’entrano.»
«Ma con tutto quello che inventano, ormai potrebbero aver scoperto qualcosa per evitare questa penosa situazione che tu e io patiamo. E tanti altri qui, lì, dovunque.»
«Ciriaco, sai cosa raccontavano una volta di Clemenceau? Lo chiamavano “la Tigre”, e senza dubbio lo chiamavano così per qualche ragione. A ottantatré anni passeggiava tutto elegante, e solo, senza l’aiuto di nessuno, lungo i boulevard di Parigi, lanciando occhiatine compiaciute alle midinettes che incrociava» spiegò don Lorenzo mentre il suo amico si sedeva pesantemente sotto uno scaffale zeppo di libri con i dorsi di un colore che io avevo battezzato “colore del tempo”, e che era ciò che restava del colore, di qualsiasi colore, dopo molto tempo.
Anche la faccia di don Ciriaco, pensai in quell’istante, aveva il “colore del tempo”. Il suo viso somigliava a una maschera dipinta con la stessa tonalità dei libri, la perfetta mimetizzazione per il posto dove si era seduto.
«Certo che aveva voglia di passeggiare. Un boulevard invoglia. Io conosco Parigi, Lorenzo. Meglio di te. Bell’esempio che mi hai fatto. Clemenceau! Per tutti i santi. Non vorrei essere come lui neanche se vivessi un milione di vite. Tanta veemenza. Troppo severo. I suoi contemporanei lo conoscevano bene. E anch’io.»
«Va bene, va bene, ma non stiamo parlando di questo, piuttosto del modo in cui affrontava il tempo. All’epoca c’era a Parigi un medico molto famoso, chiamato Voronoff, il quale doveva la sua fama all’invenzione di un trattamento per ringiovanire le persone. Il suo segreto consisteva nel fare iniezioni nel viso a base di alcuni sieri ottenuti dalle ghiandole delle scimmie.»
«Che orrore.» Deglutii.
Scimmie?
Don Lorenzo annuì, stringendosi nelle spalle.
«È più o meno la stessa cosa che si fa oggi. Forse non con le scimmie, non lo so. Bene, il fatto è che il dottor Voronoff andò a far visita a Clemenceau nella sua residenza. Si intrattennero a parlare del più e del meno. Quando la conversazione giunse alla fine, il famoso dottore si alzò e offrì gentilmente i suoi servigi a Clemenceau. L’indomita Tigre si mise in piedi, diede una pacca sulla spalla al medico e gli rispose con un grande sorriso: “Senta, la ringrazio moltissimo, ma aspetti che sia vecchio, non le pare?”.»
L’aneddoto mi divertì molto, ma non don Ciriaco.
«Tu e le tue storie. E i tuoi libri» si limitò a commentare.
«Sì, è quel che ho qui. Storie. Libri. E non mi lamento. Perché sono un uomo ricco, possiedo un tesoro, non è vero, Brianda? Certamente sono più ricco di te. Sai, Ciriaco, ho letto e...»
«Tu leggi sempre. Non so com’è che hai ancora gli occhi. In realtà, non so neppure com’è che hai ancora gli occhiali.»
«Hai letto Senilità, di Italo Svevo?»
«Sì, certo, quel che mi mancava...» gemette il farmacista. «Mettermi a leggere roba sui vecchi.»
«Non fare lo stronzo, non è una storia di vecchi. A essere precisi, i protagonisti sono giovani.»
«Allora?»
«Essere vecchi non ha niente a che fare con l’essere vecchi.»
«Senti senti!» Don Ciriaco si lasciò scappare una risata fragorosa che somigliava più a un urlo. «Ma che dici, Lorenzo!»
«A volte la vita ci si ingarbuglia intorno al collo» spiegò il mio capo mentre si accingeva a iniziare il suo lavoro, «e ci invecchia perché comincia a ucciderci più velocemente del dovuto. E quando lo capisci, pur essendo ancora giovane, ormai sei vecchio. Sei vecchio perché ti ha vinto l’abulia, lo scoramento e il dolore. E, la maggior parte delle volte, il dolore senza ferita, che è il peggiore di tutti. Tu sei vecchio da quando eri giovane, perché non sei stato consapevole della tua stessa felicità, della tua giovinezza, della semplice gioia di vivere, dello splendore che ha oggi la tua pelle e che non avrà domani, né mai più. Guarda, Ciriaco, non sarai mai tanto giovane quanto lo sei oggi, non lo capisci?»
«La mia pelle è da tempo che non ha più splendore, amico mio. Se mai l’ha avuto» brontolò don Ciriaco, e si chiuse un bottone della camicia mentre guardava i libri che lo circondavano, strizzando gli occhi dietro gli occhiali, come se cercasse di leggere i titoli. «A volte penso che sia meglio così. Che essere vecchi significa dimenticare a poco a poco. E quando uno dimentica, ormai non ricorda i motivi che lo facevano aggrappare alla vita. Così diventa più facile andarsene, sapere che te ne puoi andare da un momento all’altro, e che non è il caso di scandalizzarsi. Nonostante tutto però, se vuoi la mia opinione, umilissima, ti dirò che a me sembra che il tempo sia una porcheria.»
Il mio principale rivolse al suo amico un sorriso radioso.
«No, Ciriaco, ti sbagli. Il tempo è necessario affinché il tuo spirito dia i suoi frutti. Quanti frutti ci sono sull’albero del tuo spirito, Ciriaco? E, dimmi, come potresti fare della tua anima una riserva di luce se non fosse per le ombre del tempo?»
Il farmacista si tolse gli occhiali, si sfregò gli occhi con una mano tremante. E rispose flemmatico:
«Sei un vecchio noioso, Lorenzo.»
Ero convinta che non avrei rivisto presto Tomás, però mi imbattei di nuovo in lui. Non so fino a che punto l’incontro fu casuale.
Avevo l’abitudine di passeggiare quasi tutte le sere nei dintorni del castello di Nuba. Quando chiudevamo la libreria, con la scusa di sgranchirmi un po’ le gambe, mi lanciavo di corsa verso il lago come una scolara nell’ora di ricreazione. Il castello faceva parte delle difese della cittadina, che un tempo era cintata e si ergeva sulla penisola formata dal fiume. La zona dove le mura erano meglio conservate era collegata a un piccolo borgo che costituiva la parte più antica di Nuba, l’unica con le strade interamente lastricate e angoli con case talmente addossate che sembravano cucite le une alle altre loro malgrado, dal momento che lo stile del paese prevedeva ville indipendenti circondate da un ampio giardino e recintate con muretti in pietra. Le mura formavano angoli che dovevano servire per la difesa, erano fatte di concio, con merli e un camminamento di ronda, mentre il fiume faceva da fossato. Una posterla con un arco a tutto sesto, protetta dal muro, portava al ponte dal quale si lasciava a piedi il paese e si attraversava il fiume in direzione del valico più vicino verso nord.
Mi piaceva l’aspetto impenetrabile di quella che veniva chiamata Porta del Re, una grande torre pentagonale, più fortificata delle mura e perfino del castello. Mi sentivo bene quando passavo sotto l’alto arco appuntito fatto di conci, per poi incontrare subito dopo un arco gotico a volta e, andando avanti qualche metro, arrivare a un altro arco in mattoni a ferro di cavallo che aveva una scanalatura in modo da poter abbassare la grata, o la porta di ferro, in caso di attacco. Ogni volta che passavo di lì avevo la sensazione di attraversare un tunnel del tempo che mi trasportava nel passato, in un’epoca di anditi, scale in pietra, di freddo e di sentimenti scabri. Venivo sempre percorsa da un brivido. Un’emozione gratuita che mi procurava alcuni istanti di pura felicità.
Il castello, a cui si poteva accedere attraverso la Porta del Re, si ergeva a nordovest ed era sostanzialmente un rettangolo protetto da sette torri, quattro agli angoli e tre al centro delle mura, tranne sul lato ovest, che dava sul fiume. Quella grande ricchezza di torri mi pareva straordinaria e mi faceva pensare a quanto la storia determini l’importanza delle comunità umane. Quella che una volta era stata una cittadina importante e strategica, oggi era solo un paese con una certa attrattiva turistica; e dove prima non c’erano che campi incolti, ora sorgono capitali. E nessuno sa cosa sarà di esse domani, nessuno può prevederlo, come nessuno ha saputo anticipare quel che sarebbe accaduto nei gloriosi luoghi di un tempo.
Il castello di Nuba era stato costruito in pietra, mattoni e concio, in epoche diverse comprese tra il nono e il quattordicesimo secolo. Le sue origini erano sicuramente preromaniche, secondo quanto assicuravano i cronisti e gli storici di Nuba. Un re l’aveva fortificato a partire da un insediamento visigoto, perché non era mai stato sottomesso al dominio musulmano, e si diceva che qualche volta vi aveva fatto visita il marchese di Santillana.
Conservava una piazza d’armi che si apriva con delle arcate sulle sue quattro fiancate e aveva un pozzo, chiuso da una spessa grata di ferro, che doveva rifornire d’acqua l’insediamento. Una delle torri, quella del Tributo, si manteneva degnamente in piedi e aveva un camminamento con il parapetto in pietra, oltre a un tetto a quattro spioventi e un pinnacolo. Era lì che mi piaceva a...