
- 364 pagine
- Italian
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Tutti gli uomini di Smiley
Informazioni su questo libro
Un vecchio esule baltico viene ucciso a Londra. Il suo vero ed unico torto: essere stato, fino all'ultimo, un uomo di Smiley. Anche se ormai è in pensione, George Smiley non può ignorare la morte di Vladimir. Così, partendo da un bastone da passeggio impugnato con la mano sbagliata e da un pacchetto di sigarette che non si trova, incomincia a seguire il filo che riannoda il passato al presente. Da Londra, da Amburgo, da Parigi, tutte le tracce portano a Mosca. A Karla, il nemico di sempre. Smiley capisce di essere all'ultima mano di una partita mortale iniziata tanti anni prima e sa di poter giocare la carta che gli darà la vittoria. Ma sarà una vittoria senza gioia e senza trionfo.
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Informazioni
Print ISBN
9788804500087eBook ISBN
97888520547921
Due avvenimenti, senza un nesso apparente fra loro, provocarono il richiamo di George Smiley dopo la sua messa a (improbabile) riposo. Il primo di questi due eventi ha Parigi come sfondo e si svolge nel torrido mese di agosto, allorché i parigini per tradizione abbandonano la loro città alla canicola e ai turisti.
Un giorno d’agosto – il quattro, a mezzogiorno in punto: l’orologio della torre stava battendo i dodici rintocchi e da poco era suonata la sirena d’una fabbrica – in un quartiere popolato (un tempo) da numerosi esuli russi poveri, una donna di taglia robusta, sulla cinquantina, uscì dal buio androne di un vecchio magazzino e si diresse (a passi come al solito decisi) verso la fermata dell’autobus. La strada, stretta e grigia, serrata, con tanti gatti e un paio di hôtels de passe, era particolarmente tranquilla. Quel magazzino, per cui passavano merci deperibili, restava aperto anche durante le vacanze. Il caldo – inquinato dai gas di scarico e non alleviato dalla minima brezza – l’avvolse come una vampa di fuoco, ma la fisionomia slava di quella donna non tradì alcuna lagnanza. Non era né conformata né abbigliata per potersi scalmanare in un giorno così caldo: era piuttosto bassa di statura, e tanto grassa che le toccava dimenarsi sulle anche per procedere. Il suo vestito nero, di severità monacale, stretto in vita, non aveva alcuna guarnizione tranne una lista di merletto bianco al collo e una grossa croce di metallo, consunta, di nessun valore, sul petto. Aveva scarpe scalcagnate e, camminando, volgeva in fuori la punta dei piedi. I suoi passi echeggiarono severi, fra le case serrate. La sporta che aveva con sé, piena fin dal mattino, la faceva pencolare un po’ a babordo: si vedeva d’acchito che era abituata a portar pesi. C’era anche un non so che di buffo in lei, però. Portava i capelli raccolti in uno chignon sulla nuca, ma una ciocca ribelle le danzava sulla fronte al ritmo dell’arrancante camminata. Un barlume di allegria le illuminava le pupille castane. La sua bocca – collocata sopra una mascella da pugile – sembrava pronta a sorridere alla minima occasione.
Giunta alla fermata, depose la sporta e si massaggiò il fondo della schiena: gesto che ripeteva spesso in quei giorni benché le desse scarso sollievo. L’alto sgabello sul quale sedeva nelle ore di lavoro al magazzino non aveva schienale; e le reni le dolevano sempre più. «Accidentaccio» borbottò fra sé, tornando a massaggiarsi i lombi. Poi mosse le braccia, coi gomiti volti all’indietro, come un vecchio corvo che si accinge a volare. «Accidentaccio» ripeté. Poi, accorgendosi d’un tratto che qualcuno la stava guardando, si volse. Sbirciò dal basso in alto l’uomo corpulento che le incombeva quasi addosso.
Era l’unica persona lì in attesa: anzi, in quel momento, l’unica persona in tutta la strada. La sua faccia le era in certo modo familiare – così larga, così incerta, sudaticcia – poiché già l’aveva visto il giorno avanti, e magari anche quello precedente (non teneva mica il diario delle facce!). Insomma, erano ormai tre o quattro giorni che quel gigante flaccido era là, alla fermata, oppure sostava nei pressi del magazzino, tanto che ormai era diventato, per lei, una figura abituale. Una figura, inoltre, d’un tipo a lei noto, quantunque non sapesse dire quale. L’uomo aveva (le parve) un’aria traqué – da persona inseguita – come del resto tanti parigini, in quel periodo. C’era la paura nei loro volti, nel modo in cui camminavano, in cui si sfuggivano a vicenda. Forse era lo stesso dovunque: che ne sapeva, lei?
Quanto a costui, la donna aveva – più di una volta – avvertito un suo interesse verso di lei. Chissà che non fosse un poliziotto, si era chiesta. Le era venuta voglia di domandarglielo (la faccia tosta non le mancava certo). Quell’aria lugubre poteva far pensare alla polizia, idem il vestito chiazzato di sudore, idem l’inutile impermeabile che portava appeso al braccio, quasi facesse parte della divisa. Se era davvero un poliziotto… ah, era ora che facessero qualcosa quegli idioti! Da tempo avvenivano furti, al magazzino, dove lei era addetta ai controlli.
Era un pezzo, ormai, che lo sconosciuto la stava guardando. Non le aveva staccato mai gli occhi di dosso.
«Purtroppo ho un tremendo mal di schiena, monsieur» si decise alla fine a confidargli. Il suo francese era lento e ben scandito. «Un dolore addirittura sproporzionato alla mia schiena, che non è poi tanto lunga. Lei è medico, forse? Un osteopata?»
Poi si chiese – guardandolo meglio – se non fosse malato, e il suo scherzo fuori luogo. Una patina oleosa gli rendeva lustre le guance, il collo, e c’era un’ansietà cieca nei suoi occhi acquosi, sfuggenti. Sembrava guardare, al di là di lei, una qualche ossessiva presenza a lui solo nota. Stava per chiedergli cos’avesse – Lei è forse innamorato, monsieur? Sua moglie le mette le corna? – e magari per offrirgli una tisana, lì al caffè, quand’ecco che l’uomo fece un brusco movimento: si scansò, si guardò alle spalle, poi esplorò la strada nell’opposta direzione. Ha realmente paura, pensò lei, non soltanto l’aria traqué, è spaventato sul serio. Allora poteva darsi che non fosse un poliziotto, ma un ladro. Anche se la differenza – lo sapeva bene, lei – è spesso lieve.
«Si chiama Maria Andrejevna Ostrakova?» lui le chiese d’un tratto, come se la domanda gli bruciasse.
Parlava francese, ma lei capì subito che non era la sua lingua madre; e inoltre, la corretta pronuncia del nome e l’uso del patronimico le fecero capire quale fosse la sua origine. Riconobbe la parlata e l’inflessione e, allora, sia pure in ritardo (e con un sussulto interiore) capì che tipo di individuo fosse.
«Se anche mi chiamo così, lei chi diavolo è?» gli domandò a sua volta, accigliandosi e sporgendo la mascella.
Lui si avvicinò d’un passo. La loro differenza di statura apparve d’un tratto assurda. E assurdo era il modo in cui i tratti dell’uomo tradivano il suo sgradevole carattere. Dal basso in alto, la Ostrakova gli lesse sul viso debolezza e paura, chiaramente. Egli aveva atteggiato la bocca a una smorfia, che voleva denotare energia; ma lei sapeva bene che cercava soltanto di nascondere la sua incurabile codardia. È uno che cerca di farsi coraggio, pensò, per compiere un atto eroico. O un atto criminale. È uno comunque incapace di compiere alcun atto spontaneo, pensò anche.
«È nata a Leningrado l’8 maggio 1927?» domandò lo sconosciuto.
Probabilmente lei rispose di sì. In seguito non ne sarà proprio sicura. Lo vide leccarsi le labbra di nuovo. Poi vide il suo pallido sguardo spaurito sollevarsi e fissare l’autobus che stava arrivando. Vide un’indecisione affine al panico impadronirsi di lui e temette (fu quasi un atto di chiaroveggenza) che intendesse spingerla sotto le ruote. Non le diede uno spintone, ma le pose la domanda seguente in russo – e col tono brutale dell’ufficialità moscovita.
«Nel 1956 le fu accordato il permesso di espatriare dall’Unione Sovietica onde assistere suo marito ammalato, il traditore Ostrakov? Nonché per certi altri fini?»
«Ostrakov non era un traditore» ella rispose, interrompendolo. «Era un patriota.» E, per istinto, raccattò la sporta e ne strinse forte il manico.
Lo straniero passò sopra questa confutazione e, a voce alta, per sovrastare il rumore dell’autobus, disse: «Ostrakova, le porto i saluti di sua figlia Alexandra da Mosca, nonché quelli di certi ambienti ufficiali. Desidero parlarle di sua figlia. Non salga su questo autobus!».
L’autobus si era fermato. Il bigliettaio, che la conosceva, allungò una mano per aiutarla con la sporta.
A voce bassa, lo sconosciuto profferì queste terribili parole: «Alexandra ha gravissimi problemi, che richiedono la sua immediata assistenza di madre».
Il bigliettaio la sollecitava a sbrigarsi. Parlava con finta strafottenza, ch’era un modo come un altro di scherzare: «Andiamo, maman! Fa troppo caldo per far l’amore! Qua la sporta e sali su, ché partiamo!».
All’interno dell’autobus ci furono risate, poi qualcuno imprecò contro la vecchia che «faceva aspettare tutto il mondo». Lei sentì la mano dello sconosciuto afferrarle il braccio, maldestramente, come un corteggiatore inesperto. Si svincolò. Voleva dir qualcosa al bigliettaio, ma non ci riuscì: aprì la bocca, senonché aveva scordato come si parla. Riuscì soltanto a scuotere la testa. Il bigliettaio gridò ancora di sbrigarsi, poi mosse le mani e si strinse nelle spalle. Le imprecazioni si moltiplicarono, contro la vecchia «sbronza come una puttana a mezzogiorno». Immobile, la Ostrakova guardò quindi l’autobus allontanarsi, finché non fu scomparso, aspettando che la vista le si schiarisse e il cuore smettesse di far capriole. Adesso son io che ho bisogno di una tisana, pensò. Dai forti mi so difendere da me, ma che Dio mi protegga dai deboli!
Seguì lo sconosciuto al caffè, zoppicando. In un campo di lavoro forzato, esattamente venticinque anni prima, si era fratturata una gamba in tre punti, cadendo da una catasta di carbone. Quel giorno (il 4 agosto: la data le rimarrà ben impressa) dopo l’estrema durezza del messaggio di quello sconosciuto, la vecchia sensazione d’esser zoppa le tornò.
Il caffè era l’unico del quartiere, se non di tutta Parigi, a non aver ancora né un juke-box né luci al neon – e a rimanere aperto in agosto – quantunque non mancassero dei flipper, a crepitare e lampeggiare dalla mattina alla sera. Per il resto c’era il solito brusio: gran parlare di alta politica e di cavalli e dei fatti del giorno; e c’era il solito trio di prostitute, che parlottavano fra loro. Un giovane cameriere, dall’aria cupa e la camicia sporca, li accompagnò a un tavolino d’angolo, sul quale spiccava il cartellino RISERVATO. Seguì un momento banalmente comico. Lo sconosciuto ordinò due caffè, ma il cameriere protestò che non potevano occupare il miglior tavolo del locale all’ora di punta per consumare un paio di caffè: «Le patron ha l’affitto da pagare, monsieur!». Siccome il forestiero non capiva il patois parlato svelto, la Ostrakova dovette fargli da interprete. L’uomo allora arrossì e ordinò due omelette al prosciutto, con frites, e due birre alsaziane, senza minimamente consultare la Ostrakova. Poi andò al gabinetto, a ritrovare il suo coraggio – convinto, evidentemente, che lei non sarebbe scappata – e, quando tornò, aveva il viso asciutto e i capelli rossicci pettinati, ma il puzzo che aveva indosso ricordò all’Ostrakova (ora che erano al chiuso) l’odore della metropolitana di Mosca, dei tram di Mosca e degli uffici di polizia di Mosca. Più eloquentemente di qualsiasi cosa ch’egli le avesse detto, quella breve camminata dal gabinetto al tavolo valse a convincerla di quanto già temeva. Era uno di loro, costui. La repressa tracotanza, la deliberata brutalità della fisionomia, il modo in cui ora appoggiava pesantemente i gomiti sul tavolo e, con finta svogliatezza, prendeva un pezzo di pane dal cestello, come se intingesse una penna nel calamaio: tutto ciò risvegliò in lei i peggiori ricordi del periodo in cui era una donna in disgrazia alle prese con la malvagia burocrazia moscovita.
«Dunque» egli disse, e addentò un pezzo di pane per darsi forza. Aveva scelto la croccante estremità di uno sfilatino. Con quelle manacce avrebbe potuto spezzarlo in un attimo; preferì invece staccarne delle scaglie di crosta, femminilmente, con i grassi polpastrelli, come fosse la maniera ufficiale di mangiare. Masticando, sollevava e abbassava le sopracciglia e sembrava tutto afflitto, a trovarsi straniero in terra straniera. «Lo sanno, qui, che lei conduceva una vita immorale, in Russia?» domandò alla fine. «Magari, in una città piena di puttane, non ci fanno caso.»
Lei aveva pronta la risposta, sulla punta della lingua: “La mia vita in Russia non era immorale. Immorale era il vostro sistema, piuttosto”.
Ma non lo disse, restò rigidamente zitta. La Ostrakova aveva giurato a se stessa di tener a freno i nervi e la lingua e, ora, si costringeva fisicamente a osservare questo voto, stringendosi fra le dita un lembo di carne e torcendolo, con forza, sotto il tavolo, proprio come aveva fatto centinaia di volte ai vecchi tempi, quando siffatti interrogatori eran parte del suo quotidiano: Quand’è che hai avuto per l’ultima volta notizie di tuo marito, il traditore Ostrakov? Dacci i nomi di tutte le persone che hai frequentate negli ultimi tre mesi! Per dura esperienza, ella aveva appreso a sostenere interrogatori. E adesso andava mentalmente ripassando la lezione. E sebbene quelle norme appartenessero a una generazione anteriore, a lei ora apparivano valide, e vitali, come fossero storia di ieri: mai opporre rudezza a rudezza, mai lasciarsi provocare, mai segnare dei punti, mai mostrarsi spiritosi, o superiori, o intellettuali, mai lasciarsi piegare dalla furia, dalla disperazione, né da un inatteso raggio di speranza che una domanda occasionale faccia balenare. Opporre, invece, monotonia a monotonia, routine a routine. E solo nel più profondo di sé preservare i due segreti che rendevano sopportabili tutte quelle umiliazioni: l’odio per tutti loro e la speranza che un giorno, come la goccia scava la pietra, lei riuscisse a stancarli e, grazie a un qualche riluttante miracolo, fra le pieghe delle loro procedure elefantine, potesse ottenere da loro quella libertà che adesso le era negata.
L’uomo estrasse un taccuino. A Mosca avrebbe tirato fuori da un cassetto il suo dossier; invece lì, in quel caffè parigino, cacciò di tasca un quadernetto rilegato in pelle scura, oggetto che a Mosca sarebbe stato un lusso possedere, anche per un alto funzionario.
Dossier o taccuino, il preambolo era lo stesso. «È nata Maria Andrejevna Rogova, a Leningrado, l’8 maggio 1927» prese a recitare l’uomo. «Il 1° settembre 1948, all’età di anni ventuno, sposò il traditore Ostrakov Igor, capitano di fanteria nell’Armata Rossa, figlio di madre estone. Nel 1950, il nominato Ostrakov, a quell’epoca di stanza a Berlino Est, disertò per passare proditoriamente nella Germania fascista, grazie all’aiuto di emigrati estoni, reazionari, lasciando lei a Mosca. Egli prese residenza a Parigi, dove in seguito ottenne la cittadinanza francese. A Parigi seguitò a tenersi in contatto con elementi antisovietici. All’epoca della sua diserzione, lei non aveva figli. Né era incinta di suo marito. Esatto?»
«Esatto» disse lei.
A Mosca avrebbe detto: “Esatto, compagno Capitano”, oppure: “Esatto, compagno Ispettore”; ma in quel rumoroso caffè parigino tale formalità sarebbe stata fuori posto. Il lembo di carne che stringeva fra le dita era ormai diventato insensibile. Lo mollò, lasciò che il sangue vi riaffluisse, poi afferrò un altro lembo.
«Riconosciuta complice della diserzione di Ostrakov, lei fu condannata a cinque anni di detenzione in un campo di lavoro, ma venne rilasciata in seguito a un’amnistia, alla morte di Stalin nel marzo 1953. Esatto?»
«Esatto.»
«Di ritorno a Mosca, nonostante le scarse probabilità che la sua richiesta venisse accolta, fece domanda per un passaporto al fine di raggiungere suo marito in Francia. Esatto?»
«Era malato di cancro» ella disse. «Se non avessi tentato, sarei venuta meno ai miei doveri di moglie.»
Il cameriere portò le omelettes con patatine fritte e le due birre alsaziane. La Ostrakova gli chiese un tè al limone. Aveva sete e la birra non le andava. Nel formulare la sua richiesta, cercò invano di ingraziarsi il giovanotto, con lo sguardo e il sorriso. Ma era un tipo tutt’altro che affabile, quello. Lei si rese conto ch’era l’unica donna nel locale, a parte le tre prostitute. Reggendo il taccuino in una mano come un libro da messa, lo sconosciuto cominciò a mangiare. La Ostrakova strinse più forte il lembo di carne fra le dita. Il nome di Alexandra le pulsava nella mente, come una ferita aperta. E, intanto, si chiedeva quali “gravissimi problemi” potessero richiedere la sua “immediata assistenza di madre”.
Senza smettere di mangiare, lo sconosciuto seguitò a snocciolarle i suoi stessi precedenti. Mangia perché ha fame, lei si chiese, o per non dare nell’occhio? È una fame nervosa, decise.
«Frattanto» egli disse, a bocca piena.
«Frattanto» ripeté lei, involontariamente.
«Frattanto, nonostante gli asseriti doveri di moglie nei confronti del traditore Ostrakov, aveva intrecciato un rapporto di adulterio con tale Glikman Josef, studente di musica, ebreo, con quattro condanne al suo attivo per contegno antisociale. Aveva conosciuto Glikman durante la prigionia. Quindi era andata a coabitare con lui, nel suo appartamento. Esatto o inesatto?»
«Ero molto sola.»
«Dalla sua convivenza con Glikman nacque una fi...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- Tutti gli uomini di Smiley
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- DOSSIER GEORGE SMILEY. a cura di Paolo Bertinetti
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