Le confessioni di Nat Turner
eBook - ePub

Le confessioni di Nat Turner

  1. 462 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

Le confessioni di Nat Turner

Informazioni su questo libro

«Forse il lettore sarà spinto a trarre una morale da questo racconto, ma la mia unica intenzione è stata di ricreare un uomo e la sua epoca, e di produrre non tanto un "romanzo storico" quanto una meditazione sulla storia.» Siamo nella Virginia del 1831, lo schiavo nero Nat Turner, in carcere, attende l'esecuzione capitale. A ritroso, con un linguaggio efficacissimo in cui si mescolano toni apocalittici e nostalgia di affetti perduti, Nat ripercorre le vicende che da schiavo benvoluto dai padroni lo hanno portato, fanatico angelo vendicatore, a guidare una cruenta rivolta di schiavi. Premiato col Pulitzer nel 1968, il romanzo fu però ostracizzato dagli intellettuali neri perché «scandalosamente razzista». Sulle critiche e sui violenti attacchi di cui fu oggetto riflette lo stesso Styron nella Postfazione, ribadendo che - come nel successivo La scelta di Sophie - il suo intento era attingere a storia e immaginazione per porsi e porre al lettore fondamentali quesiti sul rapporto tra bene e male, tra passato e presente, tra responsabilità individuale e necessità sociale.

Domande frequenti

Sì, puoi annullare l'abbonamento in qualsiasi momento dalla sezione Abbonamento nelle impostazioni del tuo account sul sito web di Perlego. L'abbonamento rimarrà attivo fino alla fine del periodo di fatturazione in corso. Scopri come annullare l'abbonamento.
Al momento è possibile scaricare tramite l'app tutti i nostri libri ePub mobile-friendly. Anche la maggior parte dei nostri PDF è scaricabile e stiamo lavorando per rendere disponibile quanto prima il download di tutti gli altri file. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Perlego offre due piani: Base e Completo
  • Base è ideale per studenti e professionisti che amano esplorare un’ampia varietà di argomenti. Accedi alla Biblioteca Base con oltre 800.000 titoli affidabili e best-seller in business, crescita personale e discipline umanistiche. Include tempo di lettura illimitato e voce Read Aloud standard.
  • Completo: Perfetto per studenti avanzati e ricercatori che necessitano di accesso completo e senza restrizioni. Sblocca oltre 1,4 milioni di libri in centinaia di argomenti, inclusi titoli accademici e specializzati. Il piano Completo include anche funzionalità avanzate come Premium Read Aloud e Research Assistant.
Entrambi i piani sono disponibili con cicli di fatturazione mensili, ogni 4 mesi o annuali.
Perlego è un servizio di abbonamento a testi accademici, che ti permette di accedere a un'intera libreria online a un prezzo inferiore rispetto a quello che pagheresti per acquistare un singolo libro al mese. Con oltre 1 milione di testi suddivisi in più di 1.000 categorie, troverai sicuramente ciò che fa per te! Per maggiori informazioni, clicca qui.
Cerca l'icona Sintesi vocale nel prossimo libro che leggerai per verificare se è possibile riprodurre l'audio. Questo strumento permette di leggere il testo a voce alta, evidenziandolo man mano che la lettura procede. Puoi aumentare o diminuire la velocità della sintesi vocale, oppure sospendere la riproduzione. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Sì! Puoi usare l’app Perlego sia su dispositivi iOS che Android per leggere in qualsiasi momento, in qualsiasi luogo — anche offline. Perfetta per i tragitti o quando sei in movimento.
Nota che non possiamo supportare dispositivi con iOS 13 o Android 7 o versioni precedenti. Scopri di più sull’utilizzo dell’app.
Sì, puoi accedere a Le confessioni di Nat Turner di William Styron in formato PDF e/o ePub. Scopri oltre 1 milione di libri disponibili nel nostro catalogo.

Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2014
Print ISBN
9788804640608
eBook ISBN
9788852052989

Parte terza

PREPARA LA GUERRA

Un odio squisitamente affilato per il bianco non è certo un sentimento raro tra i negri. Pure, in verità, un odio cosiffatto non abbonda in ogni anima negra; esso nasce da troppe, misteriose e nascoste circostanze per fiorire e lussureggiare dovunque. Il vero odio del tipo di cui parlo – un odio così puro e assoluto che nessuna simpatia, nessun calore umano, nessuna scintilla di compassione può minimamente scalfirne la superficie marmorea – non è comune a tutti i negri. Come un fiore di granito dalle foglie crudeli, esso cresce, quando cresce, anche da un fragile seme gettato su un terreno incerto. Molte condizioni sono necessarie affinché questo odio maturi e raggiunga il pieno rigoglio, ma la più importante è che il negro abbia vissuto in un certo grado di intimità col bianco. È necessario ch’egli conosca l’oggetto del suo odio, e che sia informato della sua malizia, della sua doppiezza, della sua avidità, della sua totale depravazione.
Poiché, senza conoscere da vicino il bianco, senza aver subito la sua superbia, la sua arrogante gentilezza, senz’aver annusato l’odore delle sue lenzuola, della sua sporca biancheria, del suo cesso, se uno non ha sentito il casuale e tuttavia insolente contatto delle dita delle sue donne sul suo braccio nero, se non l’ha visto nel riposo e nel divertimento, nella sua ipocrita religiosità, nell’abiezione dell’ubriachezza e nei suoi lussuriosi e adulteri accoppiamenti in un campo di fieno, senz’averlo conosciuto in questi intimi e familiari aspetti, dico, un negro può soltanto fingere di odiare un bianco, ma il suo è un odio astratto e illusorio. Per esempio: un povero negro di campagna, una volta ogni tanto, può prendersi una frustata da un sorvegliante che monta un alto cavallo bianco; può essere messo per un mese a razioni ridotte, e sentirsi lo stomaco dilaniato dai crampi della fame; questo stesso negro può essere gettato in un carro e venduto all’asta come un mulo sotto una pioggia scrosciante; pure, se questo negro – circondato fin dalla nascita da un mare di gente nera, occupato a zappare e a sarchiare nei campi dall’alba al tramonto, senza mai conoscere nessun altro bianco all’infuori di quel sorvegliante, la cui presenza non è altro che una voce remota e una frusta, la cui faccia non è che un’imprecisata bolla bianca contro il cielo – se questo negro si trova a odiare i bianchi, finirà per capire che il suo è un odio imperfetto, privo di quella calma, intelligente, incorruttibile purezza che ho descritto, e che è così necessaria per uccidere. Un simile negro ignaro dei bianchi e del loro odore, della loro slavata ed esangue natura, della loro malvagità, magari odierà, ma di un odio che è fatto semplicemente di cupo e impotente risentimento, come l’inerme, rassegnato furore che si prova verso la natura indifferente nelle giornate di caldo implacabile o in certi periodi di pioggia incessante.
Nei quattro o cinque anni che precedettero il 1831, quando cominciai a essere ossessionato dalla divina missione di uccidere tutti i bianchi del Southampton e quanti altri il destino avrebbe voluto, una delle mie principali preoccupazioni fu proprio la questione dell’odio: dovevo scoprire quei negri il cui odio per i bianchi fosse già incandescente; coltivarlo in coloro ch’erano suscettibili di svilupparlo, mettendoli continuamente alla prova, e scartare quelli in cui quest’odio in forma pura e assoluta non si sarebbe mai sviluppato, e dei quali pertanto non avrei potuto fidarmi. Ma prima di raccontare degli anni che trascorsi presso Moore e delle circostanze che mi portarono ai grandi eventi del 1831, vorrei soffermarmi un momento su questa misteriosa qualità di odio che un negro può nutrire per la gente bianca, e descrivere uno dei momenti in cui lo provai a un grado dei più appassionati e violenti.
La cosa accadde, credo, nell’estate del 1825, quando ero proprietà di Moore da poco più di tre anni. Era per me un periodo di grande confusione intima poiché mi trovavo, per così dire, al confine, mi baloccavo con l’idea di compiere lo sterminio, già avevo il presentimento di una grande missione, ma ero ancora timoroso, oppresso dall’ansia, restio a formulare dei piani definiti e a seguire una precisa linea d’azione.
Quel giorno Moore e io avevamo portato due carichi di legna da ardere a Jerusalem. Dopo averla scaricata (una parte considerevole delle entrate di Moore derivava dalla fornitura di legna da ardere, sia a privati, sia a edifici pubblici, come il tribunale e la prigione), il mio padrone se n’era andato a far commissioni, com’era suo costume il sabato, lasciandomi a me stesso per diverse ore. In quel periodo mi dedicavo molto alla lettura dei profeti, in particolare Ezechiele, Daniele, Isaia e Geremia; di recente avevo cominciato a intuire l’importanza ch’essi avevano per me e per il mio avvenire. Perciò, era mia abitudine di non perdere il tempo con gli altri negri che se ne stavano lì attorno a chiacchierare o a far la lotta sul polveroso piazzale dietro il mercato, o a litigarsi per qualche ragazza nera della città, che uno di loro, magari, riusciva a portarsi dietro una tettoia (il che dava spesso occasione a fornicazioni collettive, ma grazie a Dio io non ne fui mai tentato). Me ne andavo invece con la mia Bibbia in qualche angolo assolato della loggia di fronte al mercato, e là, un po’ discosto dal rumore e dalla confusione, me ne rimanevo accovacciato per ore, la schiena appoggiata al muro, immerso nei grandi insegnamenti dei profeti.
Ma quella mattina fui distratto da una donna bianca che emerse da un angolo della loggia e si fermò d’un tratto, una mano alzata sulla fronte come a farsi schermo contro il sole abbagliante. Era una donna bellissima, sulla quarantina, slanciata ma imponente, con un vestito di seta verde azzurro, del colore di una bottiglia di brandy, con piccole spirali rosa pallido che sparivano e riapparivano a ogni suo movimento; se ne stava lì, con un’aria perplessa sul pallido volto ovale. Portava un grazioso ombrellino e una borsa riccamente ricamata, e subito mi resi conto che tanta lussuosa eleganza, una così delicata e insolita bellezza potevano soltanto appartenere alla donna il cui arrivo aveva fatto tanto chiasso in città – il che, naturalmente, non era passato inosservato ai negri – e le chiacchiere che si facevano a suo riguardo erano tali da suscitare un timoroso rispetto. Si trattava infatti della fidanzata del maggiore Thomas Ridley, uno dei più ricchi proprietari del Southampton, ancora tanto ricco da possedere una quindicina di negri; la donna veniva dal Nord, da un posto chiamato New Haven, e si diceva fosse erede di una fortuna al cui confronto tutte le ricchezze e le proprietà del Southampton messe insieme erano niente. La sua straordinaria bellezza, i suoi vestiti, la sua aria forestiera: tutto questo era una tale rarità che non è da stupirsi che la sua apparizione in mezzo a quella lurida marmaglia negra causasse un improvviso, totale, reverente silenzio.
La vidi scendere dalla loggia sulla strada polverosa, batteva in terra, agitata, il puntale d’ottone del suo ombrellino, e continuava a guardarsi attorno, come per orientarsi. E proprio in quel momento lo sguardo le cadde su un negro che stava oziando proprio sotto di me. Lo conoscevo, questo negro, almeno per fama, un caso davvero pietoso. Era un negro libero di nome Arnold – uno dei pochi negri liberi di Jerusalem –, un vecchio semplicione allampanato, nero come la pece, dall’andatura sbalestrata, conseguenza di una qualche paralisi. Anni prima era stato emancipato, per atto testamentario, dalla sua proprietaria, una ricca vedova della contea, una devota episcopaliana, oppressa da sensi di colpa e avida di eterna beatitudine. Un nobile gesto, magari lodevole, ma nel caso di Arnold gravemente sconsiderato.
Infatti, che cosa poteva significare la libertà, per Arnold? Ignorante, incapace a qualsiasi lavoro, inetto per natura, infantile e credulone, lo spirito ottenebrato dai quarant’anni e più vissuti come un capo di bestiame, certo aveva trovato la vita nient’altro che un’afflizione, durante la sua schiavitù. Ora, liberato per la pietà e la benevolenza della sua defunta padrona (che gli aveva lasciato cento dollari – da lui scialacquati in brandy durante il suo primo anno di libertà –, ma che non aveva pensato a fargli imparare un mestiere), lo sciagurato viveva agli estremi margini della vita, più disgraziato e insignificante di quanto lo fosse mai stato in schiavitù; abitava in una cadente baracca, incredibilmente sudicia, alla periferia della città, lavorava qualche volta come bracciante giornaliero, ma più che altro campava raccogliendo rifiuti o vuotando cessi o, alla peggio, di semplici elemosine, il palmo biancastro della sua mano nera teso per un penny o un farthing inglese, muovendo le labbra nell’automatica frase: «Grazie, padrone», rivolta a quei cittadini non più suoi padroni, ma in spirito più tirannici padroni che mai. Naturalmente, erano ben pochi i cittadini che s’impietosivano di Arnold e dei suoi confratelli, anzi, in maggior parte, erano risentiti della sua libertà, non tanto perché egli rappresentasse una minaccia, ma perché in realtà era un simbolo: il simbolo di qualcosa che esulava dall’istituzione, anzi, un esempio ambulante della libertà, e di certi minacciosi concetti di cui raramente si parlava ad alta voce, come emancipazione e abolizione, e pertanto lo disprezzavano come non avrebbero mai disprezzato un negro tenuto in schiavitù. Quanto agli schiavi, in loro compagnia non si trovava granché meglio, poiché, se in realtà essi non avevano alcuna ragione di disdegnarlo, egli rimaneva pur sempre l’incarnazione della libertà, e questa libertà, come qualunque scemo poteva vedere, era nient’altro che degradazione e miseria. E così non facevano che prenderlo in giro, giocargli scherzi crudeli e trattarlo con ironico disprezzo.
Di certo, perfino i poveri lebbrosi della Galilea, e tutti i derelitti e i disgraziati che Gesù Cristo soccorreva in quei tempi terribili, non vivevano peggio dei negri liberi in Virginia negli anni di cui sto parlando.
La donna si avvicinò ad Arnold, che le fece una gran riverenza togliendosi un assurdo cappello nero di parecchie misure troppo largo per lui e in gran parte divorato dalle tarme. Quindi parlò, con voce chiara e sonante, urbana e aggraziata, in rapidi e cordiali accenti del Nord: «A quanto pare, ho perso la strada» disse con voce ora venata d’una vaga ansietà. «Il maggiore Ridley mi aveva detto che il tribunale era subito dopo il mercato. Ma qui vedo soltanto una stalla da una parte e una bettola dall’altra. Sapreste dirmi da che parte si trova il tribunale?»
«Sììì» rispose Arnold, la faccia tutta piena di ossequio, la bocca allargata in un ridicolo sorriso. «Magior Ribbly là sta. Giuppellà, giuppellà.» Fece un gesto elaborato col braccio, indicando la parte opposta del tribunale, in direzione della strada che portava verso ovest, fuori da Jerusalem. «Giààà, ti ci portare, Missy, ti ci portare.» Parlava proprio come un negro di campagna, un barbugliare quasi incomprensibile, pieno di suoni africani, umidi e gutturali. A volte nemmeno i negri della città riuscivano a capire tutto, in quella parlata, e non c’è da stupirsi che la signora del Nord rimanesse stupefatta a guardare Arnold con occhi smarriti, come si trovasse d’un tratto di fronte a un mentecatto. Non aveva capito nulla, mentre lo sciagurato Arnold, che aveva capito appena un poco più di lei, si era attaccato al nome di Ridley, e aveva immaginato che lei volesse farsi indicare la casa del maggiore. Continuò a farfugliare, abbassando fino a terra quel suo cencio di cappello, in atteggiamento servile. «Giààà, Missy, ti ci portare magior Ribbly!»
«Ma... ma...» cominciò a balbettare la signora. «Non credo di capire che cosa...» s’interruppe, e la sua espressione si fece piena di compassione, e di qualcosa di ancora più turbato, di qualcosa che stava tra la pietà e l’orrore. A ogni modo fu ciò che avvenne dopo – e che non dipese soltanto da Arnold e dalla signora del Nord, ma anche dall’improvviso stato d’animo che si era creato in me – a far sì che quest’episodio s’imprimesse nel mio cervello per non cancellarsi mai più. La signora non disse altro, rimase lì, semplicemente, il suo braccio parve perdere ogni forza e l’ombrellino le cadde a terra; poi alzò i pugni serrati contro il viso, come volesse colpirsi – un gesto iroso, tormentato – e scoppiò in lacrime. Tutta la sua persona – la spina dorsale, le spalle, la gabbia toracica –, tutte le ossa che fino a qualche momento prima l’avevano tenuta su in quell’atteggiamento così maestoso parvero crollare; accasciata, inerme, rimase lì, in mezzo alla strada, i pugni premuti contro gli occhi, squassata da violenti singhiozzi. Era come se qualcosa rimasto lungamente represso in lei fosse esploso d’un tratto. Sulla loggia del mercato, sulla strada, una ventina di negri stavano a guardarla sconcertati, a bocca aperta, gli occhi sbarrati.
Intanto mi ero alzato, la Bibbia stretta fra le mani, e avvicinatomi all’orlo della loggia fui preso da una violenta, convulsa emozione, di una forza così intensa quale non avevo mai provato, era come un tuono alle mie orecchie. Poiché la pietà che avevo visto sulla faccia di questa donna bianca – una pietà che sorgeva dai recessi più profondi della sua anima – e la visione di quella tenera persona ridotta a un simile stato di prostrazione, quei singhiozzi disperati, quei pugni stretti, quelle lacrime amare mi suscitarono all’improvviso un desiderio irresistibile. E fu, notate bene, la pietà soltanto, a suscitarmelo, non la donna in se stessa, indipendentemente dalla pietà, poiché per un negro è pericoloso anche il più pallido accenno di desiderio per una donna bianca, e inoltre, dato che per anni mi ero sforzato di reprimere ogni desiderio carnale – sentendo che era questa la volontà del Signore –, la tentazione di agognare una meta così rischiosa mi era pressoché sconosciuta: fornicare con una donna bianca è, per la maggior parte dei negri, una possibilità così remota e così mortalmente pericolosa da rimanere non più che un’ombra al margine della coscienza. Ma qui avevo sotto gli occhi qualcosa che non avevo mai visto. Era come se, spogliandosi di tutto il suo portamento e abbandonandosi a quel modo – manifestando il suo sentimento in maniera così nuda, come mai avevo visto fare a una donna bianca –, ella mi avesse invitato a guardarla nuda nella carne, e mi sentii ardere di desiderio per lei. Ardere!
E mentre me ne stavo lì, cercando di dominare questo violento trasporto, che sapevo abominevole agli occhi del Signore, sentii che i miei pensieri già sfuggivano galoppando al mio controllo, e in una rapida fantasia mi vidi giù sulla strada nell’atto di possederla, senza tenerezza, senza gratitudine per la sua pietà, ma anzi, con furia brutale, guardando la compassione svanire dalla sua faccia intrisa di lacrime, mentre la coricavo al suolo, le mie mani nere già lacerando quella lucida seta cangiante, e sollevandole il vestito fin su alla vita, le aprivo a forza le bianche morbide cosce esponendo la scura zona di lanosa peluria entro la quale spingevo la mia nera asta con rigidi urti spietati. L’immagine non mi dava tregua, né riuscivo a reprimerla. Stavo sull’orlo della loggia, guardando in giù, con la fronte sudata e il cuore che mi pulsava in gola. Lontano, dietro il mercato, udivo il suono di un banjo e fragorose risate negre. La donna continuava a piangere tra le mani, vedevo la sua nuca liscia, bianca come una ninfea, e altrettanto tenera e vulnerabile; ma ancora, con gli occhi della mente, continuavo a montarla, nella polvere della strada, fremente come una volpe in calore, tanto più eccitato perché non pensavo nemmeno al piacere che potevo procurare a lei o a me stesso, ma soltanto alla violenta immediatezza di un dolore ch’era in mio assoluto potere dispensare, ripagando la sua pietà col morderle le labbra a sangue, dimostrandole la mia gratitudine per quella sua compassione non già mormorandole tenere parole, ma afferrandole saldamente la soda carne delle natiche per stringerla contro il mio nero pube, fino a farla gridare d’angoscia e di smarrimento mentre mi scaricavo dentro di lei in caldi, impuri getti.
«Non capisco!» gridò la donna. «Oh, Dio, non capisco!» E alzò il capo dalle mani, e in quell’istante la mia rovente fantasia si dissolse e svanì. Scosse la testa con gesto rapido, curioso, senza più fare alcuna attenzione ad Arnold, il suo bel volto pallido rigato di lacrime non più contratto dalla pietà, ma orgoglioso, ora, con una sorta d’ira, e di trattenuta esultanza. Quando ripeté di nuovo: «Oh, no, non capisco proprio!», la sua voce era calma, con un pacato senso d’offesa; si abbassò, raccolse l’ombrellino e, voltandosi, si allontanò a passo svelto, ma col portamento eretto e imponente di prima; in un fruscio di seta, scomparve dietro l’angolo. Appresi in seguito che poco dopo aveva lasciato la città e non aveva più fatto ritorno. La guardai allontanarsi, ancora eccitato, anche se la violenza della mia emozione, il mio furioso batticuore avevano cominciato a calmarsi. Mi sentivo come svuotato, sconfitto; provavo una sensazione di soffocamento; se in quel momento avessi dovuto pronunciare anche una sola parola, me ne sarei trovato incapace.
Vidi Arnold allontanarsi con passo strascicato, borbottando tra sé, agitando la testa, con aria trasecolata. Tra i negri lì attorno vi fu un mormorio, qualche risata perplessa, qua e là, e poi il mercato del sabato riprese il suo ritmo consueto, e tutto ritornò come prima. Io non mi mossi ancora per qualche attimo, fissando la strada nel punto in cui avevo posseduto la donna. Tutto mi era parso così reale che pensavo dovessero esservi delle tracce, sulla polvere, che ricordassero la nostra colluttazione. Nonostante la febbre dell’eccitazione mi si fosse calmata, sentii un ragazzo negro ridacchiare lì accanto, e mi accorsi di essere ancora in stato virile, e che ciò era visibile attraverso i miei calzoni; imbarazzato, mi ritirai sul fondo della loggia, dove nuovamente mi accovacciai entro una macchia di sole. Per un pezzo non riuscii a scacciare dalla mente quanto era appena avvenuto, provandone una profonda vergogna; chiusi gli occhi e sussurrai una preghiera, invocando il Signore di perdonarmi quel terribile momento di lascivia. I tuoi occhi guarderanno donne sconosciute e il tuo cuore dirà cose perverse... Colui che è sporco, sia sporco in silenzio.
Pregai per un poco, con appassionata contrizione; la mia preghiera sorgeva dall’anima, e sentii che il Signore mi aveva compreso e mi aveva concesso il suo perdono per quel momentaneo cedimento. Ciononostante, l’intensità della mia passione mi lasciò molto turbato; per tutto il resto della mattinata cercai nella mia Bibbia una qualche chiave che mi spiegasse quell’emozione così potente, e perché mai fossi stato assalito da quei selvaggi pensieri quando la donna, sopraffatta dalla pietà, aveva avuto quel patetico collasso. Ma la Bibbia non mi diede alcuna risposta, e ricordo che più tardi, quando Moore tornò a prendermi al mercato e ci rimettemmo in viaggio verso la fattoria, sul carro, attraversando i campi ormai secchi e giallastri nell’estate inoltrata, ero pieno di cupi pensieri, profondamente turbato dal fatto che non era soltanto la prepotenza, o il disprezzo, o anche la semplice indifferenza di un bianco, ad accendere in me quell’odio omicida, ma perfino la sua pietà, magari il suo più tenero gesto di carità.
La mia permanenza presso il signor Thomas Moore durò quasi un decennio, ma mi parve lunga il doppio, piena come fu di dure e monotone fatiche; pure, devo dire che quegli anni, per certi aspetti, furono i più fruttuosi che io abbia vissuto, sia perché mi offrirono molte occasioni di riflessione e di contemplazione spirituale, sia per le opportunità che mi diedero nel campo dell’evangelizzazione, quali non avevo mai avuto nemmeno nel pacifico mondo in cui avevo trascorso i primi anni della mia vita. Penso che ciò poteva accadere solo a un negro che aveva avuto la fortuna di rimanere nella Virginia. Poiché qui, in questo paese stremato, con le sue piccole, decrepite fattorie, tra schiavo e padrone v’era ancora una vena di simpatia umana, per quanto esile e stentata; perfino una certa, comprensiva (seppure a volte spinosa) intimità; in questo clima, un uomo di pelle nera non era ancora il semplice numero che sarebbe diventato nei ghetti soffocanti del profondo Sud, poteva andarsene nei boschi da solo, o con un amico, a grattarsi le palle, a riposarsi, ad arrostirsi un pollo rubato su un fuoco di sterpi, e a rimuginare sulle donne, sui piaceri dello stomaco, sulle possibilità di metter la mano su una brocca di brandy, o a baloccarsi con l’immaginazione su qualcuno degli innumerevoli aspetti tollerabili dell’umana esistenza.
Certo, era una vita ben lontana da quella, diciamo, dell’Elisio, ma non era nemmeno quella che si faceva in Alabama. Perfino il più arretrato, il più ignorante negro della Virginia aveva udito questo nome, e le sue liquide, piacevoli sillabe gli suscitavano un gelo mortale; così pure, tutti avevano sentito parlare del Mississippi e del Tennessee, della Louisiana e dell’Arkansas, e ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Le confessioni di Nat Turner
  3. William Styron: il romanziere, il tempo e la storia di Marisa Bulgheroni
  4. Nota biografica a cura di Gigliola Nocera
  5. Bibliografia a cura di Gigliola Nocera
  6. LE CONFESSIONI DI NAT TURNER
  7. Nota dell’autore
  8. Al pubblico
  9. Parte prima - Il giorno del giudizio
  10. Parte seconda - Il passato. Voci, sogni, ricordi
  11. Parte terza - Prepara la guerra
  12. Parte quarta - Ecco sono compiute
  13. Postfazione - Nat Turner rivisitato
  14. Copyright