L'uomo in bilico
eBook - ePub

L'uomo in bilico

  1. 92 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Informazioni su questo libro

Joseph, il protagonista de L'uomo in bilico, dopo aver dato le dimissioni dal suo impiego vive isolato ed estraneo agli amici di un tempo, ai parenti e alla stessa moglie. Il caso gli ha fatto dono dell'intelligenza e della libertà, ma a prezzo della solitudine e dell'insoddisfazione esistenziale. Un giorno, con una decisione sconcertante e radicale, decide di dare un definitivo addio alla vita borghese e si avvia tranquillo verso la costrizione fisica e morale del duro servizio militare. In quell'organizzazione dove tutto è predisposto dall'alto, dove il rapporto umano è necessariamente sostituito da quello gerarchico, Joseph infatti non avrà più problemi di comunicabilità e responsabilità sociale. A partire da questa svolta, quello che si apre di fronte agli occhi del lettore è un viaggio allucinato e tagliente nell'alienazione del mondo contemporaneo alla ricerca dei fondamenti di una nuova vita. Anche al prezzo della negazione di ogni principio di libertà.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2014
Print ISBN
9788804482543
eBook ISBN
9788852056499

Uomo in bilico

Ad Anita

15 dicembre 1942

C’è stato un tempo in cui la gente aveva l’abitudine di rivolgersi di frequente a se stessa e non si vergognava di registrare le proprie transazioni interiori, mentre oggi tenere un diario è considerato una forma di autocompiacimento, una debolezza, e una cosa di cattivo gusto. Perché la nostra è un’epoca di duri. Oggi è più forte che mai il codice dell’atleta, dell’uomo tutto d’un pezzo – retaggio americano del gentiluomo inglese, credo –, una curiosa mescolanza di eroico ascetismo e rigore, le cui origini qualcuno fa risalire ad Alessandro Magno. Avete dei sentimenti? Ci sono maniere corrette e maniere scorrette di mostrarli. Avete una vita interiore? Sono fatti vostri. Avete delle emozioni? Soffocatele. Fino a un certo punto tutti obbediscono a questo codice. Permette un notevole grado di sincerità, di riservata franchezza. Ma sulla sincerità più autentica ha un effetto inibitorio. Le questioni davvero serie non sono alla portata del duro. I duri sono inesperti quanto a introspezione, e quindi non sono adatti a confrontarsi con rivali contro i quali non possono sparare come fossero selvaggina o che non possono superare in audacia.
Se avete delle difficoltà affrontatele in silenzio, recita uno dei loro comandamenti. Al diavolo! Io ho intenzione di parlare delle mie e, se avessi tante bocche quante braccia ha Shiva e le tenessi aperte tutto il tempo, non riuscirei neanche così a rendermi giustizia. Nel mio presente stato di sconforto mi è diventato necessario tenere un diario – ossia parlare con me stesso – e non mi sento affatto colpevole di autocompiacimento. I duri trovano ricompensa per il loro silenzio: guidano aeroplani, affrontano tori, pescano tarponi, mentre io di rado lascio la mia stanza.
È raro ritrovarsi soli nella città dove si è vissuti quasi tutta la vita; eppure per me è letteralmente così. Sto da solo in una stanza per dieci ore al giorno. Rispetto alla media non è male, anche se ci sono le tipiche seccature di una pensione: l’odore del cibo, gli scarafaggi, e i vicini eccentrici. Ma con il passare degli anni mi sono abituato a tutti e tre.
Sono ben rifornito di libri. Mia moglie me ne porta continuamente di nuovi sperando che li guardi. Magari potessi. In passato, quando avevamo un appartamento nostro, leggevo tutto il tempo. Compravo in continuazione libri nuovi, più di quanti, lo ammetto, riuscissi a leggerne. Ma fintanto che li avevo intorno mi davano garanzia di una vita più grande, assai più preziosa e necessaria di quella che ero costretto quotidianamente a vivere. Se mi era impossibile sostenere sempre questa vita superiore, perlomeno ne conservavo nelle vicinanze delle tracce che potevo vedere e toccare quando questa diventava inconsistente. Ora, però, ora che ho tempo libero e dovrei potermi dedicare agli studi che avevo iniziato tempo fa, non riesco più a leggere. I libri non mi prendono. Dopo due o tre pagine o, come talvolta accade, dopo qualche paragrafo, semplicemente non ce la faccio più a continuare.
Sono passati quasi sette mesi da quando mi sono licenziato dall’Agenzia di Viaggi Inter-Americana per rispondere alla chiamata alle armi. Sto ancora aspettando. Sembra una cosa banale, una sorta di commedia burocratica molto elaborata. Al principio io stesso la consideravo tale. È cominciata come una vacanza, una breve tregua, quando il maggio scorso mi hanno rimandato a casa perché i miei documenti non erano in ordine. Vivo qui da diciotto anni ma sono ancora canadese, suddito britannico, e sebbene “straniero proveniente da paese alleato” non potevo essere arruolato senza un’ulteriore indagine. Ho aspettato per cinque settimane e poi ho chiesto al signor Mallander all’Inter-Americana di riassumermi temporaneamente, ma gli affari erano peggiorati a tal punto, mi ha detto, che era stato obbligato a licenziare il signor Trager e il signor Bishop, malgrado lavorassero lì da anni, e non poteva proprio aiutarmi in alcun modo. Alla fine di settembre una lettera mi informava che le indagini si erano concluse, ero stato accettato e, in conformità al regolamento, mi veniva ordinato di presentarmi per un secondo esame del sangue. Un mese dopo mi è giunta la notifica che ero stato assegnato alla categoria 1A e che dovevo tenermi pronto. Di nuovo, ho aspettato. Infine, a novembre, ho cominciato a chiedere informazioni e ho scoperto che, per via di una nuova clausola relativa agli uomini sposati, il mio arruolamento era stato rimandato. Ho chiesto una differente collocazione, adducendo a giustificazione che così mi veniva impedito di lavorare. Dopo tre settimane di spiegazioni mi hanno trasferito alla categoria 3A. Ma prima che il mio trasferimento diventasse effettivo (una settimana prima, per essere preciso), sono stato chiamato per un nuovo esame del sangue (hanno una validità di soli sessanta giorni). E così sono stato rimandato indietro. E sono certo che questa faccenda piuttosto seccante non sia ancora finita. Si trascinerà per altri due, tre, o quattro mesi.
Nel frattempo mi sta mantenendo Iva, mia moglie. La quale sostiene che non le pesa affatto e vuole che mi goda la libertà, che legga e faccia tutte quelle cose piacevoli che non sarò in condizione di fare una volta sotto le armi. Più o meno un anno fa ho ambiziosamente cominciato a scrivere vari saggi, per la maggior parte biografici, sui filosofi dell’Illuminismo. Ne stavo scrivendo uno su Diderot quando di punto in bianco ho smesso. Ma si dava vagamente per inteso, quando ho iniziato a sentirmi in bilico, che avrei continuato. Iva non voleva che cercassi lavoro. In quanto già assegnato all’1A non avrei comunque trovato nulla di adatto a me.
Iva è una ragazza tranquilla. C’è qualcosa in lei che non invita a parlare. Non ci facciamo più le confidenze; anzi, ci sono molte cose che non le posso proprio dire. Abbiamo degli amici, ma non li vediamo più. Alcuni abitano in zone distanti della città. Alcuni sono a Washington, altri sono nell’esercito; uno è all’estero. Io e i miei amici di Chicago ci siamo man mano allontanati. Non smaniavo di incontrarli. Forse avremmo potuto superare qualche divergenza. Ma a mio parere si è allentato il legame che ci teneva uniti, e finora nulla mi ha spinto a cercare di ricostruirlo. E così sono molto solo. Me ne sto pigramente seduto nella mia camera, in attesa dei piccoli eventi cruciali della giornata, la domestica che bussa, l’arrivo del postino, certi programmi alla radio, e la sicura, ciclica angoscia di certi pensieri.
Ho pensato di andare a lavorare, ma non mi va di ammettere che non so come usare la mia libertà e che sono costretto a tuffarmi nella schiavitù del lavoro semplicemente perché non ho risorse – in altre parole, non ho carattere. Ho fatto un tentativo di arruolarmi in Marina quella volta che sono stato riclassificato, ma sembrerebbe che la chiamata alle armi sia l’unica opzione per gli stranieri. Non posso fare nient’altro che aspettare, o rimanere in bilico, e sentirmi sempre più scoraggiato. Mi è del tutto chiaro che mi sto guastando, sto accumulando un’acredine e un rancore che come acidi divorano le mie doti di generosità e di buona volontà. Ma il ritardo di sette mesi è solo uno dei motivi del mio tormento. Di nuovo, talvolta lo considero lo sfondo contro cui mi si vede appeso a ciondolare. C’è di più. Perché io possa correttamente valutare il danno che mi ha fatto, dovranno tagliare la corda a cui sono appeso.

16 dicembre

Ho iniziato a notare che, quanto più attivo diventa il resto del mondo, tanto più lentamente io mi muovo, e la mia solitudine aumenta in proporzione al crescere del baccano e della frenesia. Stamane mi arriva da Washington una lettera della moglie di Tad che mi dice che Tad è partito per il Nord Africa. In vita mia non sono mai rimasto così annichilito. Non riesco neppure ad andare dal tabaccaio, anche se fumerei volentieri una sigaretta. Aspetterò. E solo perché Tad sta ora atterrando ad Algeri o a Orano o sta già facendo la sua prima passeggiata per la Casbah – abbiamo visto assieme Pepé le Moko l’anno scorso. Sono sinceramente contento per lui, non invidioso. Ma la sensazione rimane, che, mentre lui sfreccia verso l’Africa e il nostro amico Stillman viaggia in Brasile, io metto sempre più radici nella mia sedia. È una sensazione reale, fisica. Non provo nemmeno ad alzarmi. Forse potrei anche farcela a muovere due passi per la stanza, a uscire e a spingermi fino al tabaccaio, ma lo sforzo mi metterebbe di pessimo umore. Passerà, se non ci faccio caso. Sono sempre stato soggetto a questo genere di allucinazioni. Nel bel mezzo dell’inverno, avendo individuato un muro illuminato dal sole, sono stato capace di convincermi, malgrado il ghiaccio circostante, che era luglio e non febbraio. Alla stessa maniera, ho invertito l’estate fino a tremare in mezzo al caldo. E lo stesso anche con l’ora del giorno. È un trucco banale, immagino, ma esagerando forse si può arrivare a danneggiare la percezione della realtà. Quando Marie verrà per fare il letto, mi alzerò in piedi, mi abbottonerò il cappotto, e andrò dal tabaccaio, e così metterò fine a questa sensazione.
Di solito sono fin troppo impaziente di trovare una ragione per lasciare la mia stanza. Non appena ci torno inizio a cercarne una. Quando esco, non vado lontano. In media mi muovo entro un raggio di tre isolati. Ho sempre il timore di imbattermi in un conoscente che si mostri stupito di vedermi e faccia domande. Evito di andare in centro e, quando devo, sto ben attento a tenermi lontano da certe strade. Credo di portarmi dietro dai giorni di scuola la sensazione che ci sia qualcosa di illecito nel gironzolare senza far niente in pieno giorno.
Tuttavia, non sono bravo a trovare ragioni. Raramente esco più di quattro volte al giorno, tre volte per mangiare e la quarta per qualche commissione inventata o per qualche impulso, senza un vero motivo. Di rado faccio passeggiate lunghe. Mi sto appesantendo per via della mancanza di esercizio. Quando Iva mi critica, ribatto che dimagrirò certo velocemente sotto le armi. In questo periodo dell’anno le strade sono in condizioni spaventose, e poi non ho calosce. Di tanto in tanto faccio delle escursioni più lunghe, alla lavanderia o dal barbiere, da Woolworth per comprare delle buste, o anche più in là, quando me lo chiede Iva, per pagare qualche bolletta; o, senza che lei lo sappia, per vedere Kitty Daumler. E poi ci sono le visite di dovere alla famiglia.
Ho preso l’abitudine di cambiare regolarmente ristorante. Non voglio diventare un habitué, né fare amicizia con i baristi, le cameriere e le cassiere, per poi essere costretto a inventare bugie a loro uso e consumo.
Alle otto e mezzo faccio colazione. Dopodiché torno a casa e mi metto a leggere il giornale sulla sedia a dondolo accanto alla finestra. Lo leggo dall’inizio alla fine, come fosse un rito, senza lasciarmi sfuggire neanche una parola. Prima di tutto ci sono le strisce di fumetti (le leggo perché le ho sempre lette sin da ragazzino, e mi sforzo di leggere anche le nuove, le meno godibili), poi leggo le notizie serie e le rubriche, e alla fine la cronaca rosa, quella mondana, le pagine sul costume, le ricette, i necrologi, la pubblicità, i rebus per bambini, tutto. Pur di non metterlo da parte, arrivo perfino a rileggere i fumetti per vedere se m’è sfuggito qualcosa.
Ritornando alla veglia dopo la rigenerazione (quando di questo si tratta) del sonno, passo nel corpo dalla nudità al vestito e, nella mente, da una relativa purezza alla contaminazione. Apro la finestra e controllo che tempo fa; apro il giornale e faccio entrare il mondo.
Ora sono del tutto sazio del mondo, e completamente sveglio. È quasi mezzogiorno, ora di pranzo. Dalle undici mi sono fatto più irrequieto, immaginando di avere di nuovo fame. Nel silenzio della casa si distinguono bene i rumori, la porta che sbatte in un’altra stanza, il rubinetto che goccia, il termosifone che gorgoglia, la macchina da cucire che tamburella al piano di sopra. Sul letto sfatto, sui muri, si disegnano strisce brillanti. La domestica bussa e apre la porta con una spinta. Ha una sigaretta in bocca. Credo di essere l’unico di fronte al quale osa fumare: sa che non sono importante.
Al ristorante scopro che non ho per niente fame, ma non c’è alternativa e così mangio. Le scale questa volta sono un po’ più faticose. Arrivo in camera con il fiatone e accendo la radio. Fumo. Ascolto musica sinfonica per mezz’ora, infastidito quando non riesco a sentire la voce dell’annunciatore prima che cominci a fare pubblicità all’abbigliamento a rate. Quand’è l’una la giornata è cambiata, ha assunto una diversa fo...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. UOMO IN BILICO
  4. Notizia sul testo. a cura di Alessandra Calanchi
  5. Copyright