Il tempo di una canzone
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Il tempo di una canzone

  1. 848 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Il tempo di una canzone

Informazioni su questo libro

Washington DC, giorno di Pasqua del 1939. David Strom, fisico ebreo tedesco emigrato di recente negli Stati Uniti, e Delia Daley, cantante di colore, si incontrano allo storico concerto che Marion Anderson tiene fuori dal Lincoln Memorial alla presenza di 75.000 persone, dopo essersi vista rifiutare la Constitutional Hall per motivi razziali. I due si innamorano di un amore destinato a scuotere le fondamenta stesse della civiltà americana e a segnare tragicamente non solo le loro vite, ma anche quelle dei loro tre figli. Mentre Jonah, Joey e Ruth crescono in un mondo troppo immaturo per capire il loro dramma, l'umanità e l'intelligenza, a David e a Delia capiterà spesso di sentire il soffio della Storia, più bruciante per chi come loro ha deciso coscientemente di deviarne il cammino: dalla Seconda guerra mondiale alle rivolte razziali di Harlem e Philadelphia, dall'assassinio di Kennedy e di Martin Luther King agli scontri razziali di Los Angeles del 2000.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2014
Print ISBN
9788804595625
eBook ISBN
9788852054914

IL TEMPO DI UNA CANZONE

DICEMBRE 1961
In una grande sala vuota, mio fratello sta cantando. La sua voce non si è ancora smorzata, non del tutto. Nelle stanze in cui ha fatto risuonare le sue note, sui muri marezzati di suono, indugia un’impronta, come in attesa di un fonografo che torni un domani a diffonderle.
Mio fratello Jonah è ritto in piedi, una mano appoggiata al pianoforte. Ha solo vent’anni. Gli anni Sessanta sono appena cominciati. Il paese è assopito in un suo ultimo sogno di simulata innocenza. Nessuno ha mai sentito parlare di Jonah Strom al di fuori della mia famiglia, o di quello che ne resta. Siamo a Durham, North Carolina, al vecchio auditorium della Duke University. È riuscito ad arrivare alle finali di una gara canora nazionale a cui, di qui a qualche tempo, negherà di avere mai preso parte. Jonah è da solo, in piedi, al centro del palco. Torreggia, appena chino in avanti, le spalle alla curvatura del pianoforte a coda, sua unica sicurezza. Si protende come la cassa armonica di un elusivo violoncello, la sinistra sul pianoforte, la destra levata davanti a sé, come se serrasse tra le dita una lettera all’improvviso e misteriosamente svanita. Sorride come alla temerarietà di trovarsi lì, poi inspira e comincia a cantare.
Per un momento il Re degli Elfi si posa sulla spalla di mio fratello e gli parla, sottovoce, di una morte liberatoria. L’istante dopo una botola si spalanca nell’aria e mio fratello è altrove, a prendersi gioco di Dowland, in un guizzo di incantevole impertinenza per l’attonito pubblico da lieder in sala, che inutilmente cerca di afferrare l’impalpabile rete che gli vola sopra la testa.
Il tempo si ferma con lo sguardo sul suo viso,
fermatevi e guardatela per minuti ore e anni, lasciatele il passo.
Tutto cambierà ma lei uguale rimarrà,
finché il cielo avrà cambiato il corso e il tempo avrà perso il suo nome.
Due strofe e il pezzo è concluso. Il silenzio incombe sulla sala, corre lungo le poltrone come un palloncino sul filo dell’orizzonte. Per lo spazio di due battute, anche solo respirare sembra un crimine. Poi, non c’è altro modo per sopravvivere a una simile sorpresa se non applaudendo. La sonora gratitudine delle mani dà nuovamente il via allo scorrere del tempo, lanciando il suo strale verso il bersaglio e mio fratello verso tutto ciò che rappresenterà la sua fine.
È così che lo vedo, anche se vivrà ancora un terzo di secolo. Questo è il momento in cui il mondo ne fa la scoperta, la sera in cui comprendo a cosa mira la sua voce. Anch’io sono sul palco, seduto allo Steinway malconcio con i suoi meccanismi caramellosi. Lo accompagno, cercando di stargli dietro e di non dare ascolto alla voce di sirena che dice: Ferma quelle dita, lascia che la tua barca si infranga contro la scogliera delle note e muori in pace.
Anche se non commetto errori madornali, non è una serata di cui andare particolarmente fieri. Dopo il concerto chiedo a mio fratello per l’ennesima volta di lasciarmi in pace, di trovarsi un altro accompagnatore che gli renda giustizia. E lui per l’ennesima volta si rifiuta: «Ce l’ho già, Joey».
Sono lassù sul palco, insieme a lui, eppure allo stesso tempo sono in platea, nel posto che da sempre occupo ai concerti: ottava fila, inizio del settore di sinistra. Mi siedo dove posso vedere le mie dita muoversi, dove riesco a studiare il viso di mio fratello – sufficientemente vicino da osservare ogni cosa, ma abbastanza distante da sopravvivere alla visione.
Il panico da palcoscenico dovrebbe paralizzarci. L’attesa dietro le quinte è un’unica, sanguinante ulcera. Musicisti che hanno trascorso l’intera loro giovane esistenza in preparazione a questo momento si apprestano ora a trascorrere la vecchiaia alla ricerca della ragione per cui non è andata come doveva. La sala trabocca di veleno e invidia, di intere famiglie che hanno viaggiato per centinaia di chilometri per vedere l’orgoglio delle loro vite ridotto a brandelli. Solo mio fratello non ha paura. Ha già pagato. Questa competizione non ha nulla a che vedere con la musica. Musica significa anni e anni di armonia tutti insieme, racchiusi nel guscio della nostra famiglia, prima che quel guscio si rompa e vada in cenere. Jonah scivola lungo il panico e i camerini ricolmi di aristocratica nausea posato su una nuvola, come in una prova costume di una recita che non si terrà. Sul palco, contro il mare di paura che lo circonda, la sua tranquillità elettrizza l’uditorio. Il drappo della sua mano posata sullo smalto nero del pianoforte, essenza stessa della sua voce prima ancora che ne sia giunto il suono, rapisce gli ascoltatori.
Lo vedo in quella sera del suo primo, dichiarato trionfo, a distanza di quarant’anni. Ha ancora quella curva morbida intorno agli occhi che la vita più tardi gli incrinerà, accentuandola. La mascella, a differenza delle note, gli trema leggermente sulla spinta delle semiminime di Dowland. Inclina la testa sulla spalla destra salendo al Do, quasi ritraendosi dal suo attonito uditorio. Il volto ha un sussulto, negli occhi uno sguardo che io solo vedo dal mio trespolo dietro il pianoforte. La linea spezzata del suo naso, le labbra scure, gli zigomi sporgenti: quasi il mio volto, ma più intento, di un anno più maturo e di un tono più chiaro. Un colore che lo salva e che al tempo stesso è il documento ufficiale del crimine privato della mia famiglia.
Mio fratello canta per salvare i buoni e fare in modo che i malvagi si tolgano la vita. A soli vent’anni, conosce bene gli uni e gli altri. È questa la fonte della sua risonanza, di quel suono che tiene gli ascoltatori sospesi per pochi istanti prima che riescano a risolversi ad applaudire, come sentendo, nel librarsi della sua voce, uno squarcio aprirsi sopra di loro.
Quell’anno è uno sfarfallante segnale televisivo in bianco e nero proveniente da un televisore portatile. Il mondo della nostra infanzia – le razioni A, un mondo nutrito dalla radio, tutto proteso alla guerra finale contro il male – si congela in un’istantanea. Un uomo è volato nello spazio. Gli astronomi captano pulsazioni di oggetti celesti. Rispetto al globo gli Stati Uniti prendono una loro propria direzione. La polveriera di Berlino è sul punto di esplodere. Il Sudest asiatico sfrigola, ridotto a nient’altro che un ricciolo di fumo che si leva dalle piantagioni di banane. A casa, un’epidemia di bambini si ammonticchia dietro le vetrate dei reparti di maternità da Bar Harbor a San Diego. Il nostro presidente senza cappello con la faccia da ragazzo gioca a football nel giardino della Casa Bianca. Il continente è sommerso da spie, beat e grandi elettrodomestici. Montgomery coglie il quinto anno di un’impasse di cui non mi accorgerò per altri cinque anni. E settecento ignari individui a Durham, North Carolina, scompaiono serenamente nel fianco di granito della montagna aperto dal canto di Jonah.
Prima di stasera nessuno ha mai sentito mio fratello cantare al di fuori di noi. Adesso la voce si è sparsa. Nell’applauso che si leva, vedo il suo volto rosso ruggine esitare da dietro l’ostile barricata del sorriso. Si guarda intorno, come alla ricerca di un’ombra in cui rifugiarsi, ma è troppo tardi. Si profonde allora in larghi sorrisi sdolcinati e poi, con un inchino a lungo provato, accetta il proprio destino.
Dobbiamo uscire un paio di volte, e la seconda Jonah deve letteralmente trascinarmi con sé. Poi i giudici proclamano i vincitori di ogni categoria – terzo, secondo, primo – come se Duke fosse Cape Canaveral, questa gara un altro lancio del Mercury e la Nuova Voce d’America un altro Shepard o Grissom. Siamo in attesa nelle quinte e gli altri tenori si sono raccolti in cerchio intorno a mio fratello, già odiandolo e adulandolo. Combatto l’impulso di negoziare con il gruppo, di assicurare loro che mio fratello non è niente di speciale e che tutti quanti hanno cantato ugualmente bene. Quelli intanto studiano Jonah, il portamento per nulla affettato, come per carpire la sua strategia e usarla la prossima volta: la baldanza di Schubert e poi il gancio sinistro di Dowland, alla ricerca di quel sostenuto sospeso sopra il La alto. Ciò che non riescono a tenere abbastanza lontano da riuscire a distinguerlo intanto ha già inghiottito mio fratello tutto intero.
Jonah, appeso alle funi del backstage nel suo completo nero da concerto, ascolta i soprani. È fermo in piedi e osserva. Canta al loro indirizzo, lanciando silenziosi bis. Tutti sanno che il vincitore è lui e Jonah fa una gran fatica a non darvi importanza. I giudici chiamano il suo nome. Gente invisibile applaude e fischia. Jonah rappresenta la loro vittoria a favore della democrazia, e ancora peggio. Si gira verso di me, prolungando il momento. «Joey, fratello, ci deve essere un modo più onesto di guadagnarsi da vivere.» Dopo di che infrange l’ennesima regola trascinandomi con sé sul palco a ricevere il premio. E la sua prima competizione pubblica si affretta a entrare nel passato.
Dopo, ci muoviamo tutti in un mare di minuscole soddisfazioni ed epiche delusioni. Code di persone si formano per congratularsi con i vincitori. Nella nostra, una donna ingobbita dagli anni, gli occhi umidi, tocca la spalla di Jonah. Mio fratello mi stupisce protraendo la sua performance, come se fosse davvero la creatura celeste che quella donna pensa che sia. «Canta per sempre» gli sussurra lei, dopo di che i suoi accompagnatori la portano via. Dietro di lei un paio di beneauguranti e un impalato colonnello in pensione, il volto percorso da tic e da un’ostile confusione che mai e poi mai potrebbe riuscire a celare. Ne percepisco la protervia ben prima che ci raggiunga, come la rabbia che immancabilmente suscitiamo nella gente della sua risma solo apparendo in pubblico. Aspetta il suo turno, la miccia della sua rabbia che si accorcia nell’attesa. Nel momento in cui ci ha di fronte, parte alla carica. So che cosa sta per dire prima ancora che proferisca parola. Studia il volto di mio fratello come una specie di antropologo impazzito. «Ma che cosa siete esattamente, voi due ragazzini?»
La domanda con cui siamo cresciuti. La domanda che nessuno Strom ha mai capito come interpretare, tanto meno come rispondervi. Per quante volte io l’abbia sentita mi si rizzano i peli sul collo. Jonah e io non perdiamo nemmeno tempo a scambiarci un’occhiata. Siamo veterani dell’annichilimento. Io accenno a un gesto inteso ad appianare l’equivoco, ma l’uomo mi lancia uno sguardo che mi scaccia dall’adolescenza una volta per tutte.
Jonah ha la sua risposta, io ho la mia. Ma quello sotto i riflettori è lui. Prende fiato come se fossimo ancora sul palco, quel respiro lieve e aggraziato che mi guida alla nota d’attacco. Con una semicroma sembra sulle prime lanciarsi in Fremd bin ich eingezogen, ma poi dà la sua risposta in stile buffonesco e nei toni comici del falsetto:
Io sono il cocco della mia mamma
E con gli sconosciuti non ci parlo…
La sua prima serata da adulto, anche se ancora un bambino inebriato dalla nomina a Nuova Voce d’America. Il suo bis imprevisto fa girare parecchie teste verso di noi. Jonah li ignora. È il 1961. Siamo in un’importante città universitaria. Non si può mettere in croce qualcuno per una battuta di troppo. Da queste parti non lo fanno da almeno una dozzina d’anni.
Mio fratello alla fine del distico scoppia in una risata, nell’intento di ammansire il colonnello con una buona dose di ben intenzionato spirito. Ma l’anziano signore, visibilmente infuriato, si agita e sbuffa come se fosse lì lì per sbattere Jonah a terra e dargli una lezione. Fortunatamente però la coda degli ammiratori lo sospinge via dal palco, verso ciò che lo sguardo profetico sul volto di mio fratello sa che gli darà il colpo letale.
Alla fine della lunga coda, ci sono mio padre e mia sorella. È così che li vedo, dalla remota estremità di un’esistenza. Ancora nostri, ancora famiglia. Pa’ ha in volto il sorriso di quell’immigrato sperso che è – venticinque anni in questo paese e ancora l’aria di uno che si aspetta di essere arrestato da un momento all’altro. «Parla il tedesco come un bifolco polacco. Chi diavolo le ha insegnato a pronunciare le vocali? Che disastro! Eine Schande
Jonah gli chiude la bocca con una mano. «Ssh, Pa’, per l’amor di Dio. Ricordami di non portarti più in giro. “Bifolco polacco” è un insulto.»
«“Bifolco polacco”? Ma sei matto? È così che si chiamano, bello.»
«Sì, bello.» Ruth, il nostro mimo, lo inchioda. Anche se ha solo sedici anni, al telefono è stata presa più volte per l’uomo di casa. «Perché, come diavolo chiameresti chi viene dalla Polonia?»
La gente intorno, anche se fa finta di niente, ha un nuovo sussulto. Siamo un’infrazione vivente a tutto ciò in cui credono. Ma qui, in mezzo a questo uditorio raffinato, tutti mantengono un sorriso in do maggiore, per poi dirigersi verso gli altri vincitori, lasciandoci essere, per un ultimo istante, la nostra piccola e sicura nazione. Padre e figlio maggiore ragionano sulle ultime note di Schubert che ancora risuonano nella sala vuota, l’uno appoggiato alle spalle dell’altro. «Credimi» dice il più vecchio al più giovane. «Io di bifolchi polacchi ne ho conosciuti. Ne stavo quasi per sposare una.»
«Vuoi dire che potevo essere un bifolco polacco?»
«Un quasi bifolco polacco. Un bifolco polacco in potenza.»
E vanno avanti così a scambiarsi disinvoltamente battute in tono leggero, facendo i buffoni per l’unica persona che nessuno di noi oserà nominare, questa sera, e a cui dedichiamo ogni singola nota della nostra gara. Ruth se ne sta in piedi sotto le luci del palco, unica custode dei lineamenti di nostra madre se non fosse per la carnagione quasi ramata. Mia madre, la donna che mio padre è quasi arrivato a non sposare, una donna più americana, e da più tempo, di tutti quelli che sono in questa sala.
«Anche tu sei stato b...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Il tempo di una canzone
  4. Copyright