
- 160 pagine
- Italian
- ePUB (disponibile sull'app)
- Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub
Informazioni su questo libro
Una raccolta di tre brevi racconti, Lappin e Lapinova, Il diario di Joan Martyn e La signora Dalloway in Bond Street, nei quali il lettore può sperimentare la varietà e la ricchezza di linguaggio della scrittrice inglese. Volume con testo a fronte in lingua originale.
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Informazioni
Print ISBN
9788804480440eBook ISBN
9788852056321Il diario
di Joan Martyn
I miei lettori potrebbero forse non sapere chi sono. Di conseguenza, sebbene tale abitudine sia inconsueta e innaturale – giacché sappiamo quanto siano modesti gli scrittori – non esiterò a spiegare di essere la signorina Rosamond Merridew, di quarantacinque anni – la mia franchezza non viene mai meno! – e di essermi conquistata fama notevole tra i colleghi per le ricerche compiute sul sistema di proprietà terriera nell’Inghilterra medioevale. A Berlino conoscono il mio nome; a Francoforte darebbero una serata in mio onore; e non sono del tutto ignota in una o due remote aule di Oxford e Cambridge. Forse mi spiegherò in modo più convincente, poiché l’umana natura è quella che è, affermando che ho rinunciato a un marito, una famiglia e una casa in cui invecchiare per alcuni frammenti di pergamena ingiallita; che soltanto poche persone sono in grado di leggere e che un numero ancora inferiore desidererebbe leggere se potesse. Ma, come una madre, a quanto leggo a volte con una certa curiosità nella letteratura del mio sesso, ama di più il più brutto e più stupido dei suoi figli, così una sorta di passione materna è scaturita nel mio seno per quei piccoli gnomi accartocciati e scoloriti; nella vita reale li vedo come storpi dal viso ansioso, ma, ciò nondimeno, con il fuoco del genio negli occhi. Non spiegherò questa frase; non riuscirei a farlo come non vi riuscirebbe quella madre a cui mi paragono se cercasse di spiegare che il figlio storpio è in realtà un bel ragazzo, più bello di tutti i suoi fratelli.
In ogni caso, le mie ricerche hanno fatto di me una sorta di merciaio ambulante; con la differenza che è mia consuetudine comprare e non vendere. Mi presento in vecchie fattorie, antiche dimore cadenti, parrocchie, sacrestie, sempre con la stessa richiesta. Avete vecchie carte da mostrarmi? Come potrete immaginare i giorni felici di questo particolare passatempo sono finiti; l’antichità è diventata la caratteristica più vendibile; inoltre lo stato con i suoi comitati ha posto fine in larga misura alle iniziative individuali. Mi viene spesso detto che qualche funzionario ha annunciato che verrà a ispezionare i loro documenti; e il peso dello “Stato” che tale promessa porta con sé toglie alla mia povera voce privata ogni forza persuasiva.
Tuttavia, non ho davvero motivo di lamentarmi, potendo, come posso, vantare alcune ottime scoperte che saranno di autentico interesse per gli storici, e altre che, per offrire rivelazioni di tale inattesa precisione, mi soddisfano ancora di più. Una luce improvvisa sulle gambe di Monna Elizabeth Partridge illumina con i suoi raggi tutta l’Inghilterra, il re stesso sul suo trono; aveva bisogno di calze! e nessun’altra necessità riesce a farvi sentire allo stesso modo la realtà delle gambe medioevali; e di conseguenza la realtà dei corpi medioevali, e così, risalendo passo passo, la realtà dei cervelli medioevali; e a questo punto vi trovate al centro di tutte le età: linea divisoria o fine. E questo mi spinge a un’ulteriore confessione delle mie virtù. Le mie ricerche sul sistema della propria terriera nei secoli XIII, XIV e XV acquistano, a quanto mi si dice, un doppio valore grazie al dono che io possiedo di presentarle in rapporto alla vita dell’epoca. Non ho mai dimenticato che le complessità della proprietà terriera non erano sempre gli eventi più importanti nella vita degli uomini, delle donne e dei bambini; mi sono arrischiata a ipotizzare che le complessità che ci entusiasmano tanto erano una prova della negligenza dei nostri antenati ben più che della loro stupefacente pignoleria. Infatti, quale uomo sano di mente, ho avuto l’audacia di osservare, avrebbe potuto trascorrere la vita rendendo più complesse le leggi soltanto a vantaggio di una mezza dozzina di studiosi che sarebbero nati cinque secoli dopo la sua sepoltura?
Non parleremo ora di questo argomento che mi è valso molte astute frecciate lanciate e ricevute; lo introduco soltanto per spiegare perché ho fatto tante ricerche in appoggio a alcune descrizioni della vita di famiglia introdotte nel mio testo; come il fiore di tutte quelle intricate radici; la luce improvvisa scaturita da tanto strofinare la pietra focaia.
La lettura della mia opera intitolata «Gli archivi delle dimore di campagna» vi provocherà piacere o noia in base al vostro carattere grazie a certe digressioni che vi troverete.
Non ho esitato a dedicare numerose pagine in corpo grande al tentativo di descrivere, con la vivacità di un quadro, alcune scene della vita dell’epoca; ora busso alla porta del servo e lo trovo mentre fa arrostire dei conigli cacciati di frodo; vi mostro il signore del maniero che si prepara a partire in viaggio, o chiama i cani per una passeggiata nei campi, o siede in una sedia dall’alto schienale tracciando faticosamente cifre su un lucente foglio di pergamena. In un’altra stanza vi mostro Monna Elinor che lavora con l’ago; su uno sgabello più basso le siede accanto la figlia anche lei intenta a cucire ma con minor impegno. «Figlia, il tuo sposo sarà qui prima che la biancheria di casa sia pronta» la rimprovera la madre.
Ah, ma per leggere davvero queste cose dovete studiare il mio libro! I critici mi hanno sempre minacciato con due fruste; innanzi tutto, affermano, digressioni di questo tipo vanno benissimo in una storia dell’epoca, ma non hanno alcun rapporto con il sistema della proprietà terriera medioevale; in secondo luogo lamentano che io non abbia documenti per dare a quelle parole la corposità del vero. È noto che il periodo che io ho scelto è povero più di ogni altro di documenti privati; se non decidete di trarre tutta la vostra ispirazione dalle Lettere dei Paston, dovete contentarvi di immaginare come ogni altro narratore. E questa, mi viene detto, è un’arte molto utile a tempo e luogo; ma non dovrebbe rivendicare alcun rapporto con la più rigorosa arte dello Storico. Ma a questo punto sono nuovamente vicina a quella celebre polemica che ho già condotto con tanto zelo nella «Historian’s Quarterly». È necessario proseguire con l’introduzione, altrimenti qualche lettore ostinato potrebbe gettare via il libro e affermare di essersi già impadronito del suo contenuto: Sempre la stessa storia! Le polemiche tra studiosi! Mi sia dunque concesso tracciare una linea precisa, così——e lasciarmi alle spalle tutto il problema del lecito e dell’illecito, della verità e dell’invenzione.
Una mattina di giugno di due anni fa mi trovavo per caso a percorrere la strada di Thetford da Norwich a East Harling. Avevo appena fatto una ricerca, che si era rivelata inutile, per trovare alcuni documenti che ritenevo sepolti nelle rovine dell’abbazia di Caister. Se spendessimo un decimo delle somme che mandiamo ogni anno per gli scavi nelle città greche a scavare le nostre rovine, lo Storico potrebbe dire cose molto diverse!
Questo era l’argomento dei miei pensieri; tuttavia, uno dei miei occhi, l’occhio archeologico, rimaneva bene aperto per osservare il paesaggio che attraversavamo. E proprio obbedendo a un telegramma inviatomi da quell’occhio balzai in piedi nella carrozza, a un certo punto e chiesi al cocchiere di voltare bruscamente a sinistra. Percorremmo un elegante viale di antichi olmi; ma l’esca che mi aveva attratto era un piccolo quadro, delicatamente incorniciato da rami verdi in fondo al viale, in cui in bianca pietra scolpita era disegnato con chiarezza un antico portone.
Quando ci avvicinammo, il portone si rivelò circondato da lunghe basse mura di stucco rossastro; e in cima alle mura, non molto distante si trovava il tetto di tegole rosse, e infine vidi di fronte a me, nella sua interezza, l’armoniosa dimora, costruita come la lettera E con il trattino centrale cancellato.
Mi trovavo dunque di fronte a uno di quegli umili, antichi piccoli manieri, che sopravvivono quasi intatti e praticamente sconosciuti per secoli e secoli, poiché sono troppo insignificanti per venir distrutti o ricostruiti; e i loro proprietari sono troppo poveri per essere ambiziosi. E i discendenti del costruttore continuano a viverci, con quella curiosa inconsapevolezza di una qualsiasi importanza della casa, che li rende parte integrante del maniero come l’alto camino diventato ormai nero per generazioni di fumo di cucina. Senza dubbio una casa più grande sarebbe preferibile, e non dubito che esiterebbero a vendere la vecchia casa se ne ricevessero una buona offerta. Ma proprio questo spirito spontaneo e inconsapevole sta in qualche modo a dimostrare come tutto sia genuino. Non è possibile essere sentimentali nei confronti di una casa in cui si è vissuti per cinquecento anni. È il genere di casa, pensai mentre tenevo la mano sul campanello, i cui proprietari probabilmente possiedono manoscritti incantevoli, e li vendono senza pensarci al primo robivecchi di passaggio, come venderebbero la brodaglia del maiale o il legno del parco. Dopo tutto, il mio punto di vista è quello di una donna morbosamente eccentrica, e questa è la gente davvero sana e normale. Ma non sanno scrivere? mi chiedono; e a cosa servono delle vecchie lettere? Io le mie le brucio sempre, o le adopero per chiudere i vasetti della marmellata.
Finalmente arrivò una cameriera che mi guardava con aria pensosa, come ritenesse di dover ricordare chi ero e che cosa volevo. «Chi vive qui?» le chiesi. «II signor Martyn» rispose stupefatta, come se avessi chiesto il nome del sovrano regnante. «C’è una signora Martyn, è in casa, potrei vederla?» La ragazza mi fece cenno di seguirla e mi condusse in silenzio da qualcuno che poteva, presumibilmente, assumersi la responsabilità di rispondere alle mie strane domande.
Passando attraverso una grande sala, a pannelli di quercia, venni introdotta in una stanza più piccola dove una donna rosea della mia età lavorava a macchina a un paio di pantaloni. Sembrava una governante; ma era, mi sussurrò la cameriera, la signora Martyn.
Si alzò con un gesto che rivelava in lei non proprio la signora abituata a ricevere visite mattutine, ma, ciò nondimeno, una persona autorevole, la padrona di casa; che aveva il diritto di sapere che cosa volessi andando lì.
Esistono alcune regole nel gioco condotto dagli studiosi di antichità: la prima e la più semplice è che non si deve mai dichiarare il proprio obiettivo al primo incontro. «Passavo davanti alla sua porta; e m sono presa la libertà – devo dirle che amo molto il pittoresco – di entrare, nella speranza che mi venisse permesso di visitare la casa. Mi sembra particolar mente bella.»
«Vuole forse affittarla, se posso chiederglielo» disse la signora Martyn, che parlava con una gradevole inflessione dialettale.
«Affittate delle stanze dunque?» chiesi.
«Oh no» ribatté recisamente la signora Martyn. «Non affittiamo mai stanze; pensavo che forse volesse affittare tutta la casa.»
«È un po’ grande per me; però, ho degli amici.»
«Tanto meglio, allora» mi interruppe allegramente la signora Martyn, accantonando l’idea del profitto e pensando soltanto a compiere un’azione caritatevole. «Certo, sarò molto lieta di mostrarle la casa – non mi intendo granché di antichità; e non ho mai sentito dire che la casa avesse niente di particolare. Però, è un posto simpatico, per chi viene da Londra.» Guardò con curiosità il mio vestito e la mia figura che, devo confessarlo, appariva più curva del consueto di fronte a quello sguardo fresco e in certo modo compassionevole; e le diedi l’informazione che voleva. In verità, mentre percorrevamo i lunghi corridoi, le cui pareti bianche erano gradevolmente percorse da strisce di quercia, e guardavamo piccole stanze immacolate con finestre verdi quadrate che davano sul giardino, in cui scorgevo un arredamento ridotto all’essenziale ma decoroso, ci scambiammo molte domande e risposte. Il marito aveva una fattoria di dimensioni piuttosto vaste; ma la terra aveva perso terribilmente valore; e ormai erano costretti a vivere nella Hall che non si riusciva a affittare; sebbene fosse troppo grande per loro e fosse infestata dai topi. La Hall apparteneva alla famiglia del marito da molti anni, osservò con un certo modesto orgoglio; non sapeva da quanto, ma la gente diceva che i Martyn un tempo erano stati persone importanti nella zona. Richiamò la mia attenzione sulla “y” nel loro cognome. Ma continuava a parlare con l’orgoglio umile e lucido di chi sa per la durezza della propria personale esperienza quanto poco valga la nobiltà della nascita confrontata a certi svantaggi materiali, alla povertà della terra, per esempio, ai buchi nel tetto, alla rapacità dei topi.
Ora, sebbene la casa fosse scrupolosamente pulita e ben tenuta, vi era in tutte le stanze una certa spartana semplicità, un prevalere di pesanti tavole di quercia e un’assenza di qualsiasi decorazione che non fossero lucenti boccali di peltro e piatti di porcellana che al mio sguardo curioso sembravano di ...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- Introduzione
- LA SIGNORA DALLOWAY IN BOND STREET
- Il diario di Joan Martyn
- La signora Dalloway in Bond Street
- Lappin e Lapinova
- MRS DALLOWAY IN BOND STREET
- The Journal of Mistress Joan Martyn
- Mrs Dalloway in Bond Street
- Lappin and Lapinova
- Copyright