Cronache terrestri
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Cronache terrestri

  1. 592 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Cronache terrestri

Informazioni su questo libro

Corrispondenze, interviste, reportages, critiche ed elzeviri apparsi sul "Corriere della Sera" a firma di Buzzati durante l'intero arco della sua lunga carriera. Un eccezionale connubio tra giornalismo e letteratura.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2014
Print ISBN
9788804480334
eBook ISBN
9788852054242

NOTIZIE QUASI INCREDIBILI SUI MIRACOLI SUI MAGHI SULLA FEDE IN DIO E SULL’ALDILÀ

Un affascinante enigma matematico

16 giugno 1953
Il signor Luigi Poletti, di 47 anni, da Pontremoli, impiegato di banca, va a trovare un vecchio amico di famiglia, il professor Gino Loria, insegnante di storia della matematica. Siamo a Genova, nel 1911.
Seduto nello studio, mentre parla di cose indifferenti, distrattamente Poletti tira a sé un libro rilegato, largo e basso, una specie di atlante. Lo apre a caso: le pagine sono tutte piene di numeri, disposti in caselle regolari. Lo apre ancora più avanti: ancora numeri.
«Che cos’è?» chiede Poletti tanto per dire qualche cosa.
«Mi è arrivato proprio oggi» dice Loria. «È un lavoro americano. Immagina: l’elenco di tutti i numeri primi compresi nei primi dieci milioni.»
«Numeri primi?»
«Eh, se non sbaglio, tu hai fatto due anni di matematica alla Università, dovresti pur saperne qualche cosa.»
Numeri primi: se ne ricorda adesso Poletti, mentre sfoglia il volumone. I numeri che si possono dividere soltanto per se stessi o per l’unità, i numeri per dire così tutti di un pezzo insolubili.
L’1, il 3, il 7, l’11, il 13, il 17, il 19, il 23 e così via. Paragonabili a quello che nel campo della chimica sono i corpi semplici.
Prendete per esempio il 29: provate un po’ a scomporlo, a dividerlo. Niente, rimane duro come un blocco di granito. Sì, potete dividerlo per 1, scomporlo in unità. Ma l’unità non è veramente un divisore, è la particella elementare di cui sono fatti tutti i numeri, primi e non primi, così come di elettroni, protoni, neutroni, eccetera, sono fatti tutti i corpi che esistono in natura, semplici e non semplici.
Considerate invece il numero successivo: il 30, apparentemente più bello e sodo. Ahimè, basta toccarlo che si sfalda in tanti pezzi. Lo si può dividere per 2, lo si può dividere per 3, e poi per 5, per 6, per 10, per 15. Insomma un numero fatto di tanti altri numeri più piccoli, un numero senza personalità. Poletti è incuriosito. Come mai agli americani è venuta in mente una impresa simile? E, personalmente, chi l’ha realizzata? In realtà gli americani non hanno fatto che raccogliere, controllare, codificare ciò che da tre secoli matematici di tutta Europa avevano compiuto, ciascuno portando una pietra alla immensa costruzione. Al principio del secolo, col patrocinio dell’Istituto Carnegie, una commissione di scienziati, con a capo D. N. Lehmer, era partita alla volta dell’Europa per raccogliere la «materia prima», sistemarla e pubblicare finalmente una tabella definitiva dei numeri primi compresi entro i dieci milioni: appunto la Factor Table che è arrivata al professore Loria.
«Ma perché tanto lavoro?» chiede Poletti con una curiosità sempre maggiore. Non c’è una formula che possa dirci se un dato numero è primo o no? No, una formula di questa fatta non esiste. Non solo: i numeri primi sono una famiglia strana. Più si sale, più si rarefanno, ma tra l’uno e l’altro gli intervalli sono irregolari e imprevedibili. Possono essercene tre vicinissimi e poi per scovarne un altro bisogna magari percorrere delle distanze immense.
E lo scopo? A che cosa serve sapere se un numero è primo o no?
Ebbene, per certi calcoli è un dato indispensabile. Ma questo non succede tutti i giorni. Il motivo vero è un altro; ed è quel disinteressato desiderio di capire e di conoscere che sta alla base di ogni scienza. Si proponeva forse un uso pratico Einstein quando fondava la dottrina della relatività? Gli studiosi della struttura atomica pensavano forse alla bomba di Hiroscima? Come escludere che un giorno i numeri primi si riveleranno importantissimi anche agli effetti pratici? La loro natura misteriosa, apparentata in certo modo ai corpi semplici, non lascia confusamente presagire una futura rivelazione clamorosa quale oggi non possiamo sospettare?
Ma intanto una specie di rivelazione avviene nell’animo di lui, Poletti, ignoto impiegato di banca di Pontremoli. Lehmer e soci hanno smaltito i primi dieci milioni. Ma al di là di questo limite? Una vertiginosa prospettiva si spalanca.
A questo strano fascino si aggiunge lo stupore che fra tanti matematici dedicatisi al problema non ci sia stato neppure un italiano. Possibile che il nostro Paese, illustre in ogni ramo della scienza, sia qui rimasto assente? D’improvviso si fa in lui una decisione che può apparire ingenua, assurda, temeraria: «Mi metterò al lavoro io, sarò io l’esploratore dei numeri primi al di là del decimo milione». Siamo, dobbiamo ripeterlo, nel lontano 1911. Poletti ha già 47 anni. E da questo giorno comincia la sua vita.
Solo soletto, senza mezzi, senza preparazione si gettò a capofitto in un lavoro del quale ancora non poteva misurare la portata. E da principio ci furono giorni neri, in cui dubitò che le sue forze non bastassero. Per fortuna, studiando e ristudiando, ebbe una idea geniale che gli permise di semplificare immensamente la ricerca: un sistema per cui si identificano a colpo d’occhio tutti i numeri divisibili per 2, 3, 5, 7, 11 e 13. Era il neocribrum (nuovo crivello) oggi conosciuto in tutto il mondo matematico.
Passano gli anni, scoppia la prima guerra mondiale, Luigi Poletti è già partito per la grande impresa. Dalla riva dei 10 milioni si avventura nell’oceano dei successivi numeri, sempre più grossi e preoccupanti. Viene la pace, si parla di fascismo, Mussolini va al potere. Impassibile, Luigi Poletti allinea sui suoi registri numeri su numeri. Si firma il concordato con la Chiesa, Hitler diventa cancelliere, Poletti lavora perfino dieci, dodici ore al giorno.
Anche la seconda guerra mondiale si scatena. Poletti non per questo rallenta il ritmo di lavoro. Era un ignoto dilettante, ora è un autorevole maestro. La sua nobile ambizione, che l’Italia si facesse onore, è realizzata. Nel 1946 l’«Association française pour l’avancement des Sciences», nominando un triumvirato che getti le basi per estendere le tavole dei numeri primi oltre i dieci milioni, sceglie un olandese, un francese e lui, Poletti. Finché nel 1951 ad Amsterdam esce la Liste des Nombres Premiers du onzième million d’après les manuscrits de J. Ph. Kulik, L. Poletti, R. J. Porter. Era il sogno di quarant’anni prima.
Siamo ora al giugno 1953, un bel pezzo di secolo è passato dal giorno che Poletti, nello studio del professore Loria, aprì il fatale volumone. La giovinezza è un ricordo ormai lontano, i capelli hanno il colore della neve, eppure non c’è uno che gli creda quando Luigi Poletti – un garbato, sorridente, vivacissimo signore vestito in modo inappuntabile, che ricorda un magro Lewis Stone – garantisce di aver compiuto 89 anni.
Se gli è restato un cruccio è che la sua lunghissima fatica, pur tornando a onore dell’Italia, non trovi in Italia il meritato appoggio. Egli ha già pronte due nuove poderose opere: la tavola dei numeri primi del 12º e del 13º milione e, massimo suo titolo d’orgoglio, un atlante di 100.000 numeri primi di ordine quadratico oltre i 10 milioni, entro il limite di 5 miliardi, che rappresenta il più grande repertorio di numeri primi al di là dei 10 milioni. Ma chi se ne assumerà la stampa? E tanti sforzi non meriterebbero un premio che non consista in soli complimenti?
A 89 anni, il commendatore Luigi Poletti infatti non è stanco.
A passi intrepidi prosegue sempre più avanti nell’allucinante ignota selva dei numeri che si ergono ormai come giganti, tanto alti che non si riesce a scorgerne la vetta. Immaginate un intrico di ciclopiche colonne serrate l’una addosso all’altra, e una formica coraggiosa che vi si insinua in mezzo. La formica è Poletti: col suo neocribrum egli le saggia ad una ad una ed ecco i paurosi picchi sgretolarsi, crollare silenziosamente in polvere. Ma ogni tanto, al tocco sapiente, la pietra dà un suono metallico, non trema, non si sfalda: è un numero di razza buona, è un NP, un monolite, un K 2, un Everest, che intatto durerà in eterno.
«Tempo fa» ci dice «era in questione il numero 2 al quadrato elevato alla settantatreesima potenza più 1: si voleva sapere se era un numero primo per risolvere un certo problema di geometria. Bene, se si volesse scrivere questo numero per disteso su una striscia di carta con caratteri di un millimetro, tutta la carta che si è fabbricata dagli antichi tempi ad oggi non basterebbe, e neppure basterebbe quella che si fabbricherà in cento secoli. Pensi: se a una estremità della striscia fosse acceso un faro, la luce arriverebbe all’altro capo soltanto dopo 75 anni. E la luce vola a 300.000 chilometri al secondo. Faccia lei il conto... Bene, alla fine si è riusciti a smascherarlo: non era un numero primo! E sorride con compatimento come per dire: con tutte le arie che si dava, sembrava un re, un imperatore, ed era un miserabile briccone.

I cani stratosferici

20 febbraio 1957
Fra le righe si avverte un inconfessato senso di vergogna nella notizia giunta dalla Russia circa i riusciti esperimenti stratosferici: due cani lanciati con i razzi a un’altezza di centodiecimila metri e quindi paracadutati, hanno ritoccato terra «perfettamente incolumi». Notate bene: il comunicato dice soltanto «incolumi», non parla di florida salute, né di morale alto: ciò che lascia adito a supposizioni poco allegre. E più avanti accenna a «condizioni più che soddisfacenti». Ma soddisfacenti per chi?
La sopravvivenza dei quadrupedi dopo il tremendo volo chiude comunque la bocca agli zoofili; i quali si asterranno probabilmente da manifestazioni di protesta. Di fronte alle paurose incognite di viaggi così pericolosi è ben giustificabile che l’uomo, prima di cimentarsi personalmente, spedisca, a far la prova, qualcuno che egli ritiene, a torto o a ragione, meno importante di se stesso. Non si sacrificano centinaia di cani giornalmente nei laboratori e nelle cliniche per i progressi della medicina? Sarà dunque lecito buttarne qualcheduno allo sbaraglio, per fare un passo innanzi sulla via che ci porterà, a Dio piacendo, fino alla Luna e a Marte. Nessuna obiezione quindi al fatto in sé. Tanto più che, se la notizia è vera, le bestiole se la sono scapolata. Ammetterete però che l’impresa, da parte nostra, non è molto elegante. Vengono in mente quei sovrani antichi – o ce n’è forse ancora al mondo? – che non toccavan cibo se prima un assaggiatore non ne avesse mandato giù una buona dose senza restare fulminato secco. Con questa differenza: che se il cibo era buono – e a corte, un tempo, si mangiavano cose prelibate – l’assaggiatore, almeno fino a quando non gli arrivava sotto i denti lo sformato o la torta con l’arsenico, qualche gioia se la rimediava. Mentre quei poveri cani scaraventati in cielo senza neppur lontanamente supporre il perché e il percome, che gusto volete che ci trovino?
Si dirà: il cane è una bestia altruista; il cane non ci pensa su due volte a buttarsi nel fuoco per salvare la vita del padrone; se sapesse il beneficio che ci procura esperimentando i voli stratosferici, sarebbe lui stesso il primo a chiedere, con acconci mugolii, di essere catapultato alla galassia più lontana.
Può darsi. Se lo sapesse. Ma il fatto è che il cane non lo sa. Il cane, anche se di temperamento ottimista, non può neppure sperare che lassù, fra un pianeta e l’altro, pendano, che so io, ghirlande di salsicce. Il cane ignora che la sua involontaria prodezza servirà a estendere negli spazi l’orgoglioso dominio dell’uomo. Il cane, incappucciato in uno scafandro, costretto in un angusto abitacolo, sparato come una palla di cannone verso lo zenit, proiettato poi nel vuoto brutalmente al termine dell’ascesa, tratto giù a precipizio dalla forza di gravità, appeso solo soletto a un ombrello di seta con uno spaventoso abisso sotto di sé, il povero cane avrà soltanto paura, tutte quelle incomprensibili acrobazie avranno per lui un significato solo: fra poco, fra un istante sarai morto. Mentre giù in basso, i professori seguono sugli strumenti con un sorriso soddisfatto le successive fasi dell’esperimento, pregustando la citazione del proprio nome sul comunicato della «Tass» e magari la attribuzione di una adeguata onorificenza, all’infelice animale il cuore galoppa in una angoscia senza nome, tanto più orribile perché sprovvista, per un cervello canino, di qualsiasi senso comune.
Ancora una volta l’uomo quindi approfitta della superiorità toccatagli in sorte senza alcun suo merito, la superiorità di avere la scatola cranica mostruosamente sviluppata in confronto al resto del corpo; ed assoggetta ai suoi diabolici capricci altre creature di lui meno sagaci e furbe. Lo riconoscesse almeno. Ammettesse l’abuso. Confessasse la propria slealtà. Diramasse l’annuncio ufficiale: «Il cane Mir, di anni 2, di razza incerta fra il lupo e il bassotto, ha battuto ieri, a bordo di un razzo di tipo X, il record di altezza assoluto eccetera eccetera…». Ma no. Le povere bestie sono citate anonimamente come se fossero delle semplici cose. Non una parola di riconoscimento o di lode. Non un cenno a ricompense di zuppe speciali, o quanto meno, di qualche osso saporito.
E se gli uomini, una volta arrivati a Marte, per esempio, trovassero il pianeta abitato da una popolazione di cani intelligentissimi e civilissimi? E se questi cani tenessero in schiavitù una razza di uomini infinitamente meno capaci di loro? E se questi uomini venissero usati dai medesimi cani come corpora vilia per esperimenti stratosferici? E se il comando supremo canino annunciasse che, lanciati per mezzo di razzi ad altezze vertiginose e quindi fatti discendere con paracadute, «alcuni uomini» sono atterrati, o meglio ammarziati, in «condizioni soddisfacenti»? Non resteremmo piuttosto imbarazzati?
Ragione per cui ci guardiamo bene, per non farci ridere dietro – benché la tentazione sia forte – di fare ricorso all’ONU chiedendo che proibisca di utilizzare i cani come cavie per i viaggi spaziali. Un voto assai discreto e semplice esprimiamo: che quando verrà eretto il primo monumento al primo uomo che avrà messo i piedi sulla Luna, la statua del pioniere abbia ai suoi piedi, accucciato, un cane, o per lo meno – questo non ce lo negheranno, spero – che sui bassorilievi del piedestallo, fra le altre figure più o meno simboliche di circostanza, venga raffigurato anche un cagnolino che guardi in su, con occhi spaventati, come per dire: dopo tutto, se ci sei arrivato, grande eroe degli spazi, il merito è anche un poco mio.
Pia illusione: in quell’epoca futura la moda dei monumenti sarà probabilmente tramontata e, anche se ne sorgeranno ancora, di farli saranno incaricati scultori ultraastrattisti. E il conquistatore della Luna avrà quindi la forma di uno stecco e il cane, ammesso che se ne ricordino, sarà rappresentato con un altro stecco di mino...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Prefazione. Il mestiere di raccontare. di Lorenzo Viganò
  4. Cronache terrestri
  5. MERAVIGLIOSO MESTIERE
  6. CRONACHE DALL’INFERNO DELLA GUERRA
  7. RAPPORTI SUL MISTERIOSO FASCINO DELLE MONTAGNE
  8. DALLA BABELICA CITTÀ DOVE ABITA LA PAURA L’AMORE LA MALEDIZIONE LA SOLITUDINE LA MORTE
  9. NOTIZIE QUASI INCREDIBILI SUI MIRACOLI SUI MAGHI SULLA FEDE IN DIO E SULL’ALDILÀ
  10. RESOCONTI DI MEMORABILI VIAGGI IN PAESI DIVERSI
  11. COSÌ SI DIVERTONO E SOGNANO PER DIMENTICARE LA QUOTIDIANA MISERIA
  12. DI UN SEGRETO PER VINCERE IL TEMPO: L’ARTE E ALCUNI SUOI PROTAGONISTI
  13. DI ALCUNI UOMINI ESEMPLARI
  14. Prefazione alla prima edizione. di Domenico Porzio
  15. Copyright