
- 476 pagine
- Italian
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eBook - ePub
Gorky Park
Informazioni su questo libro
Quando tre corpi mutilati vengono scoperti sotto una profonda coltre di neve al Gorky Park di Mosca, Arkady Renko, capo della squadra omicidi, giunto sul posto dopo un agente del Kgb, si rende subito conto che non si tratta di un delitto comune. Portando avanti le indagini sul caso, ben presto Arkady scoprirà che queste tre vittime sconosciute sono in realtà al centro di un delitto singolare e spietato, solo apparentemente senza motivo, che potrebbe sconvolgere le basi stesse della società sovietica. Thriller internazionale di rara tensione, insolita storia d'amore, romanzo che svela una Mosca finora sconosciuta, Gorky Park è un libro ormai leggendario che è stato anche un film di grande successo.
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Informazioni
Print ISBN
9788804620778eBook ISBN
9788852056031MOSCA
I
Ogni notte dovrebbe essere così buia, ogni inverno così mite, tutti i fari così abbaglianti.
Il furgone slittò, rallentando, e andò a fermarsi contro un banco di neve. Ne scese la Squadra Omicidi: agenti ricavati da uno stesso stampino – braccia corte e fronte bassa – in pastrano foderato di pecora. L’unico in borghese era un uomo alto e pallido: l’investigatore-capo. Questi ascoltò con attenzione il racconto della guardia che aveva trovato i cadaveri fra la neve, allorché si era un po’ allontanato dal sentiero – nel cuore della notte – per un’urgenza corporale. Li aveva visti, allora, e a momenti gli prendeva un accidente. Era mezzo gelato dal freddo, dopo. Gli agenti si fecero avanti, alla luce del faro del furgone.
L’investigatore pensò, lì per lì, che quei tre disgraziati non fossero altro che un terzetto di compagni di sbronze, allegramente morti assiderati. La vodka era una tassa; il suo prezzo non faceva che aumentare; tre è il numero perfetto: quindi ci si metteva in tre (una vodka-troika) per risparmiare e divertirsi meglio. Ecco un esempio eccellente di primordiale comunismo.
Delle luci brillarono sull’altro lato della radura; si stagliarono sulla neve lunghe ombre di alberi; poi comparvero due auto: due Volga nere. Ne scese un drappello di agenti in borghese, del KGB. Li guidava un uomo tozzo e vigoroso, il maggiore Pribluda. Tutt’insieme, gli uomini della Milizia e del KGB battevano i piedi per scaldarli. Il fiato si condensava in nuvolette. Su baveri e berretti scintillavano cristalli di ghiaccio.
La Polizia, o Milizia, dipendente dall’MVD – il Ministero degli Affari Interni – dirigeva il traffico, dava la caccia agli ubriachi molesti e raccattava i cadaveri d’ordinaria amministrazione. Il KGB – Comitato per la Sicurezza dello Stato – aveva invece incarichi più importanti e responsabilità più misteriose: se la vedevano con spioni e intriganti, nostrani e forestieri, con contrabbandieri, dissidenti e malcontenti. I poliziotti andavano in giro in divisa, quelli del KGB invece preferivano l’anonimato degli abiti borghesi. Il maggiore Pribluda era pieno di rude buonumore mattutino, disposto ad attenuare, per l’occasione, quella rivalità professionale che rendeva difficili e tesi i rapporti fra Milizia e KGB. Insomma, era tutto sorrisi… finché non riconobbe l’investigatore.
«Renko!» esclamò.
«Perlappunto.» E Arkady Renko gli voltò le spalle, dirigendosi verso le tre salme. A Pribluda non restò che seguirlo.
Le orme della guardia che aveva scoperto i cadaveri portavano al centro della radura; e qui, sotto la neve, si profilavano delle sagome. Un investigatore-capo avrebbe dovuto fumare sigarette di gran marca: invece Arkady Renko si accese una scadente Prima e si riempì la bocca del suo acre sapore. Il bisogno di fumo si faceva più acuto, quando aveva a che fare coi morti. Lì i morti erano tre, come aveva detto la guardia. Giacevano pacificamente, persino aggraziati, sotto la coltre di ghiaccio in disgelo. Quello al centro, supino, teneva le mani congiunte sul petto, come se l’avessero composto per il funerale; gli altri due, bocconi, con le braccia allargate, sembravano le figure laterali di uno stemma. Ai piedi avevano, tutti e tre, pattini da ghiaccio.
Pribluda spinse da parte Arkady.
«Una volta accertato che non c’è di mezzo la sicurezza dello Stato, solo allora potrà occuparsene lei.»
«Spionaggio? Maggiore, si tratta di tre ubriaconi in un parco pubblico…»
Il maggiore stava già facendo segno a uno dei suoi agenti, munito di macchina fotografica. A ogni flash la neve si tingeva d’azzurrastro e le salme sembravano lievitare. La macchina, straniera, era di quelle che sviluppano e stampano all’istante. Orgogliosamente, il fotografo mostrò una foto ad Arkady. Si vedevano soltanto i riflessi del flash sulla neve; dei tre morti, neanche l’ombra.
«Che gliene pare?»
«Molto rapida.» E Arkady gli restituì la foto. La neve, intorno ai cadaveri, era ormai tutta calpestata. Lui seguitò a fumare, esasperato. Si passò le lunghe dita fra i capelli neri, lisci. Notò che né il maggiore né il fotografo calzavano scarponi da neve. Magari, con i piedi bagnati, il KGB se n’andrà prima. Quanto ai morti, s’aspettava di trovare un paio di bottiglie vuote, nei paraggi, sotto la neve. La notte volgeva al termine e, dietro il monastero Donskoy, baluginava un primo albore. Arkady vide Levin, il patologo della Polizia, che stava a guardare – con aria di disprezzo – dal bordo della radura.
«Sembra che i cadaveri si trovino qui da tempo» disse Arkady. «Fra una mezz’ora, i nostri specialisti potranno metterli a nudo ed esaminarli alla luce.»
«Un giorno o l’altro, toccherà a lei» disse Pribluda, indicando uno dei morti.
Arkady non era sicuro di aver udito bene. Il ghiaccio sfavillava ai fari. No – decise – non può aver detto una cosa del genere. Pribluda volse intorno lo sguardo, nel bagliore. I suoi occhi erano piccoli e neri come semi di mela. D’un tratto, si sfilò i guanti.
«Non siamo mica qui per imparare da voialtri» disse. E, a gambe larghe, chinatosi sui morti, cominciò a raspare la neve, come un cane, per denudarne i volti.
Uno crede di averci fatto il callo, alla morte; è un esperto, in materia; gli è capitato di vedere stanze imbrattate di sangue dappertutto, fin sul soffitto; sa che, specie d’estate, il sangue schizza e sgorga a profusione; sicché, quasi quasi, preferisce cadaveri invernali. Poi, ecco una nuova maschera di morte affiorare da sotto la neve. Arkady non aveva mai visto niente di simile. Pensò che non l’avrebbe mai dimenticata, quella faccia. E non sapeva, allora, che quello era il momento cruciale di tutta la sua vita.
«Omicidio» disse Arkady.
Pribluda restò impassibile. Si diede a raspare via la neve anche dalle altre due teste. Erano nelle stesse condizioni della prima. Poi si mise a cavalcioni sul cadavere di mezzo, dando strattoni al cappotto gelato, finché non riuscì ad aprirlo; quindi lacerò e aprì anche il vestito.
«Non importa.» Rise. «Si capisce lo stesso ch’è una donna.»
«Le hanno sparato» disse Arkady. Fra i seni, marmorei nella morte, c’era il foro d’entrata d’un proiettile, un buco nero. «Maggiore, lei sta distruggendo delle prove.»
Pribluda squarciò gli indumenti degli altri due cadaveri. «Hanno sparato a tutti.» Esultò, come un profanatore di tombe.
Il fotografo, intanto, era venuto documentando la sua opera, un flash dietro l’altro: Pribluda che solleva una testa per i capelli irrigiditi; Pribluda che estrae una pallottola dalla bocca di uno dei tre… Arkady notò che non solo erano state sfigurate le tre facce, ma alle vittime avevano anche amputato i polpastrelli: niente impronte digitali.
«Ai due uomini, hanno sparato anche al cranio.» Pribluda si lavò le mani, con una manciata di neve. «Tre cadaveri… tre è il numero perfetto, caro investigatore. Ora che ho fatto il lavoro sporco io, per lei, siamo pari. Basta così» ordinò al fotografo. «Andiamo via.»
«Lei lo fa sempre, il lavoro sporco, maggiore» disse Arkady, quando il fotografo si fu allontanato.
«Come sarebbe a dire?»
«Tre persone uccise e sfigurate, fra la neve. È lavoro per lei, questo, maggiore. Mica vorrà che indaghi io. Chissà dove si potrebbe arrivare!»
«Dove si potrebbe arrivare?»
«Le cose, maggiore, sfuggono di mano, a volte. Ricorda? Perché non se la prende lei, la briga di questa indagine, fin da ora, così noi ce n’andiamo a casa?»
«Non ci sono gli estremi di un crimine contro lo Stato, ch’io sappia. Si tratta di un caso, per lei, solo un po’ più complicato del solito, ecco tutto.»
«Complicato da qualcuno che ha manomesso le prove.»
«Le farò avere un rapporto, corredato da foto, in ufficio,» disse Pribluda, rinfilandosi i guanti «quindi si godrà il frutto del mio lavoro.» Alzò la voce, perché udissero tutti all’intorno. «S’intende che, se scoprisse qualcosa relativo a un reato che potrebbe interessare il Comitato per la Sicurezza dello Stato, mi farà immediatamente informare, tramite il procuratore. Intesi, compagno investigatore Renko? Ci impiegasse anche un anno, o dieci anni, non appena appura qualcosa, avverta.»
«Perfettamente intesi» rispose Arkady, a voce altrettanto alta. «Conti sulla nostra piena collaborazione.»
Iene, corvi, avvoltoi, vermi… pensò l’investigatore guardando le auto di Pribluda allontanarsi, a marcia indietro, dalla radura. Animali notturni. L’alba spuntava; e gli pareva quasi di sentire il moto della terra accelerarsi, all’imminente levar del sole. Si accese un’altra sigaretta per mandar via il sapore di Pribluda dalla bocca. Brutto vizio: come il bere – altra industria di Stato. Tutto quanto era industria di Stato, lui compreso. Persino i fiori di neve cominciavano a mostrarsi, al primo accenno del mattino. Sul bordo della radura, i militi apparivano ancora inebetiti. Anche loro avevano visto quelle maschere sbucare dalla neve.
«Il caso spetta a noi» disse Arkady ai suoi uomini. «Non pensate che dovremmo far qualcosa?»
Perlomeno, cominciassero a isolare la zona. Al sergente ordinò di chiedere, via radio, rinforzi alla Centrale – con badili e rilevatori di metalli. Un po’ di messinscena d’efficienza non manca mai di rianimare la truppa.
«E così…»
«Così indaghiamo noi, sergente. Fino a nuovo ordine.»
«Che bella mattina» commentò Levin con sarcasmo.
Il patologo era più anziano degli altri e sembrava la caricatura di un ebreo travestito da capitano della Milizia. Non aveva alcuna simpatia, lui, per Tanya, la specialista in situ della squadra. Tanya non riusciva a staccare gli occhi da quei tre volti scarnificati. Arkady la tirò in disparte e le suggerì, per cominciare, di tracciare una piantina della radura, e poi di cercare di disegnare la posizione dei cadaveri.
«Prima o dopo l’assalto del maggiore?» domandò Levin.
«Prima» rispose Arkady. «Come se qui il maggiore non ci fosse mai venuto.»
Il biologo cominciò a cercare campioni di sangue, fra la neve, intorno ai corpi. Sarà una gran bella giornata, pensò Arkady. Sulla riva opposta del fiume vide il primo chiarore del giorno stagliare i contorni del Ministero della Difesa: era l’unico momento in cui quelle tetre mura avevano un tocco di vita. Tutt’intorno alla radura, gli alberi sembravano, alla luce indecisa, guardinghi come daini. Apparivano i fiori di neve rossi e azzurri, lucenti come nastri. Un giorno in cui l’inverno sembra prossimo a disciogliersi.
«Al diavolo…» Arkady tornò a guardare i morti.
Il fotografo gli chiese se le foto non le avessero già fatte quelli del KGB.
«Sì, e andranno benissimo come ricordi, magari, ma non per il nostro lavoro.»
Il fotografo, lusingato, rise.
Bene – pensò Arkady – ridi più forte.
Un agente in borghese a nome Pasha Pavlovich arrivò, a bordo dell’auto in do...
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