Russka
  1. 966 pagine
  2. Italian
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eBook - ePub

Informazioni su questo libro

Dal 180 al 1990, nella grande Russia dove non c'è confine per le pianure e le foreste, dove le paludi come i laghi e i fiumi si perdono oltre l'orizzonte, si intrecciano le sorti di sei famiglie. Nel bene e nel male. Sotto il giogo di crudeli invasori e nell'orgoglio di inebrianti conquiste. Dai mongoli agli zar, dalle rivoluzioni al crollo del comunismo: i riverberi della storia raggiungono il piccolo villaggio di Russka, coinvolgono i Bobrov e i Suvorin, i Romanov e gli Ivanov, i Karpenco e i Popov, generazione dopo generazione. Un romanzo epico, romantico, avventuroso.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2014
Print ISBN
9788804386216
eBook ISBN
9788852056970

Rivoluzione

Settembre 1881

Lo zar era morto: assassinato. Anche ora, a mesi di distanza, la bambina di dieci anni non riusciva a crederlo.
Perché al mondo esiste gente tanto cattiva? Negli ultimi tre anni c’erano state tante uccisioni: poliziotti, funzionari, perfino un governatore. E ora, con una terribile bomba, avevano ucciso quell’uomo buono, lo zar Alessandro II, il riformatore. Rosa non riusciva a capirlo.
Chi poteva fare una cosa simile? Un gruppo terribile, a quanto sembrava; si definivano la Volontà del Popolo. Nessuno sapeva chi fossero e quanti fossero: forse venti, forse diecimila. Che cosa volevano? La rivoluzione: la distruzione dell’intero apparato dello stato russo che governava il popolo dall’alto. Un mese dopo l’altro la Volontà del Popolo aveva dato la caccia allo zar; ora lo avevano eliminato, come a voler dire: “Vedete, il vostro stato potente è una menzogna. Contro di noi anche lo zar è impotente, possiamo annientarlo quando vogliamo”. E ora, morto il povero zar, pensavano che il popolo si sarebbe sollevato.
«Il che dimostra quanto poco capiscono questi rivoluzionari» aveva detto suo padre.
Infatti non era accaduto nulla. Non si era sollevato un solo villaggio, non una fabbrica. Quel terribile avvenimento era stato accolto da un immenso silenzio russo. Il figlio dello zar – il terzo Alessandro – era salito al trono al suo posto e aveva subito imposto l’ordine. C’era stata una grande repressione; molti rivoluzionari erano stati arrestati e in quasi tutto l’impero russo vigeva ora la legge marziale. La Volontà del Popolo aveva fallito, grazie a Dio. La Russia era calma e in pace.
O così sembrava. Sinché non era cominciata quella cosa nuova e orribile, inspiegabile per lei, terrificante. E ancora una volta, come aveva fatto tante volte negli ultimi mesi, Rosa si chiedeva perché ci fosse gente tanto cattiva al mondo.
«Non verranno qui» le aveva promesso il padre. Ma se si fosse ingannato?
Era il primo pomeriggio, un’ora di quiete nel pacifico villaggio meridionale ai confini tra la foresta e la steppa. C’era poca gente in giro; i genitori di Rosa riposavano al piano superiore della solida casa dal tetto di paglia. Sebbene fosse autunno, in Ucraina il tempo era ancora caldo. Attraverso la finestra aperta, Rosa vedeva l’albero di mele in cortile e sentiva il profumo dolce di un vicino cespuglio di caprifoglio.
Rosa era una bella ragazzina. Un viso pallido, ovale, il collo lungo e una certa lenta grazia nei suoi movimenti le avevano valso da parte di alcuni abitanti il nome di “fanciulla cigno”. Portava i capelli corvini legati in una grossa treccia lungo la schiena. Aveva il naso lungo e le labbra piene. Ma quello che soprattutto colpiva in lei erano gli occhi. Incorniciati dalle ciglia scure sotto la linea decisa delle sopracciglia nere, grandi, grigio azzurri, luminosi, guardavano con serenità il mondo come gli occhi di un antico mosaico.
Sedeva vicino al pianoforte. Non suonava, ma la musica in cui si era esercitata tutta la mattina, un brano di Čajkovskij – le risuonava nella mente. Mentre guardava il cielo azzurro ne ripercorreva ogni frase, ogni struggente melodia, provandola ora in un modo ora in un altro finché non si sentì soddisfatta.
Il suo era l’unico pianoforte del villaggio. Non avrebbe mai dimenticato quel magico giorno in cui era arrivato sulla piccola chiatta che risaliva il fiume. Suo padre aveva risparmiato un anno intero per comprarlo e lo aveva fatto venire da Kiev. Tutti i vicini erano usciti a guardare mentre lui e i suoi due figli scortavano orgogliosamente a casa quella meraviglia. Rosa aveva soltanto sette anni quando un cugino in visita, un musicista, l’aveva definita un prodigio. L’anno successivo era andata a vivere con quella famiglia, per il tempo degli studi, nella grande città di Odessa, sulla costa del Mar Nero, dove vi erano bravi insegnanti di musica. Si era già esibita una volta in pubblico e la gente diceva che sarebbe diventata musicista di professione.
«Purché la salute non la abbandoni» diceva sua madre con voce cupa. Era vero: spesso c’era un male al petto che la tormentava. A volte doveva riposarsi per giorni di seguito, quando avrebbe tanto voluto tornare a scuola. «Col tempo guarirai» le aveva promesso il padre; e lei pregava tanto che avesse ragione. Voleva profondamente vivere per la musica.
Una volta entrata in quel regno, niente altro aveva avuto importanza per Rosa. A volte le sembrava che la musica fosse in ogni cosa: assoluta come la matematica, infinita come l’universo stesso. La musica era negli alberi, nei fiori, nella steppa sconfinata; la musica riempiva il cielo. Lei voleva soltanto pregare e imparare.
E le si presentava lo strano enigma che l’aveva tormentata per parecchi mesi e che oggi la rendeva pensosa e malinconica.
Se Dio aveva creato questo mondo così bello e gli aveva fatto dono della musica, e se lei, a quanto sembrava, era forse stata scelta per servire i Suoi scopi musicali e suonare per Lui, allora perché c’erano uomini cattivi che volevano ucciderla?
Situate sulla riva orientale del piccolo fiume, le comode case del villaggio, con il tetto di paglia e i muri bianchi, si susseguivano per quasi due chilometri su entrambi i lati della larga strada sporca. Molte, come la casa dove vivevano i suoi genitori, avevano sul retro un piccolo orto. Vicino al fiume c’era la piazza del mercato; e più a valle la distilleria. In verità, nella più povera Russia settentrionale, dove gli insediamenti erano più piccoli che in Ucraina, un centro come quello sarebbe stato definito una cittadina.
Era anche piuttosto ricco. Ai grandi campi di grano sulla ricca terra nera della steppa erano state aggiunte di recente tre nuove e proficue colture: canna da zucchero, barbabietola e tabacco. Venivano vendute ai mercanti che le esportavano attraverso i porti del Mar Nero, e grazie a questo commercio e alla ricchezza naturale della zona i contadini vivevano bene.
Il nonno di Rosa era giunto in quella regione come agricoltore. Era morto cinque anni prima, e suo padre ne aveva preso il posto. Uomo intraprendente, commerciava anche in grano ed era il rappresentante locale di una fabbrica di attrezzi agricoli a Odessa, e così la loro era una delle famiglie più ricche del villaggio.
Lei non sapeva che un tempo, in epoche passate, quel villaggio meridionale si era chiamato Russka.
Non c’era da stupirsi. Da allora il villaggio aveva avuto due nomi, e del suo passato rimanevano poche tracce. Del piccolo forte sulla riva occidentale non vi erano ormai che pochi segni sull’erba; della chiesa che i mongoli avevano bruciato non era rimasto nulla. Anche il paesaggio era cambiato: secoli di agricoltura avevano portato al taglio di molti alberi, e ora non vi erano più boschi sulla riva orientale del fiume. Lo stagno con i suoi spiriti non esisteva più, si era prosciugato. Era scomparsa anche la foresta del miele. Dall’ultima casa del villaggio la steppa aperta della Russia meridionale si stendeva fino all’orizzonte, e il solo modo per riconoscere il luogo quale era stato nei tempi antichi era il piccolo tumulo di un antico kurgan che si alzava dalla steppa a poca distanza.
Rosa camminò fino ai confini del villaggio, dove si fermò a contemplare la steppa. C’era un sole pallido e, alte nel cielo, lunghe nuvole bianche passavano da ovest verso est sui prati sconfinati, che si tingevano di ocra nella stagione autunnale, verso l’orizzonte violetto.
Era là da qualche tempo quando vide il carro, un carro solido, con sopra due persone. Lo guidava un uomo alto, robusto, dai grandi baffi neri; accanto a lui un bel ragazzo snello, anche lui bruno, di un anno maggiore di Rosa. Erano Taras Karpenko, agricoltore cosacco, e il suo figlio più giovane, Ivan.
Rosa sorrise vedendoli. Fino a dove risaliva il suo ricordo, aveva giocato ai cosacchi e ai banditi con i ragazzi Karpenko e gli altri bambini del villaggio; il giovane Ivan era il suo compagno più caro. E da quando, alcuni anni prima, il padre di Rosa aveva venduto a Taras attrezzi agricoli che si erano rivelati utili, il corpulento cosacco guardava con benevolenza alla famiglia.
Ma se il padre di Rosa godeva della simpatia di Taras c’era anche un altro motivo.
Era strano pensare che quel robusto contadino fosse il nipote dell’illustre poeta Karpenko, i cui delicati lineamenti risaltavano ancora da disegni o stampe appesi alle pareti delle case del luogo. Tuttavia, Taras ne era straordinariamente orgoglioso, e metteva il nome dello zio sullo stesso piano del più famoso poeta ucraino, il grande Ševčenko, pronunciandolo con la stessa riverenza. Di conseguenza, quando scoprì che il padre di Rosa non soltanto aveva una copia dei versi di Karpenko, ma li amava molto e ne conosceva parecchi a memoria, gli aveva battuto cordialmente la mano sulle spalle, e da quel momento, se qualcuno nominava la famiglia di Rosa, dichiarava sempre: «È un brav’uomo, quello». Questo li avvantaggiava al villaggio, e spesso la madre di Rosa le diceva: «Tuo padre è molto saggio».
Era davvero saggio – e molto diverso dagli altri – perché quelle conoscenze che costituivano un legame tra lui e il cosacco si facevano sempre più rare.
Il governo degli zar in Ucraina era diventato sempre più dispotico con il passare di ogni decennio. Agli zar piaceva l’uniformità. Naturalmente, nel loro immenso impero non sempre era possibile ottenerla. In Polonia e nelle zone più occidentali dell’Ucraina avevano dovuto tollerare i cattolici; quanto più l’impero si espandeva verso l’Asia, tanto più dovevano accettare un numero crescente di mussulmani. Ma tutto, nei limiti del possibile, doveva venire russificato: Autocrazia, Ortodossia, Nazionalità: erano questi i princìpi dominanti. Di conseguenza nel 1863, con quel particolare genio per la cecità burocratica che lo caratterizzava, il governo russo annunciò che la lingua ucraina, parlata da gran parte della popolazione meridionale, non esisteva! Negli anni successivi i libri, i giornali, i teatri e le scuole di lingua ucraina, e perfino la musica ucraina vennero banditi. Le opere di Ševčenko, Karpenko e altri eroi nazionali ucraini vennero messe da parte. Gli intellettuali parlavano e scrivevano in russo. Quanto al popolo, se al nord l’istruzione si diffondeva, al sud era in declino, e verso la fine del diciannovesimo secolo l’ottanta per cento degli ucraini erano analfabeti. Gli zar erano soddisfatti: l’Ucraina non era più turbata da voci discordi. Non era sorprendente che l’orgoglioso cosacco Karpenko dicesse a volte al padre di Rosa: «Ebbene, amico mio, quanto meno voi e io sembriamo in grado di capire le cose».
Avvicinandosi, i due cosacchi salutarono amichevolmente Rosa: il giovane Ivan con una risata felice e il padre con un cenno e un sorriso; Rosa si sentì rassicurata.
Non verranno qui. Non c’era nulla da temere, si ricordò.
Poiché Rosa Abramovič era ebrea.
Fino a un secolo prima, quando la Grande Caterina aveva conquistato quasi l’intera Polonia, non c’erano praticamente stati ebrei nell’impero russo. Tuttavia, annettendosi quelle terre occidentali, la Russia si era procurata una vasta comunità ebrea.
Da dove venivano? La storia della diaspora è confusa e spesso oscura, ma gli ebrei di Russia provenivano indirettamente dalla Germania, dai porti del Mediterraneo e del Mar Nero; e anche, è difficile dubitarne, da quel che rimaneva della comunità turca dei kazari diffusa in molti punti dell’Europa sudorientale. Delle loro origini razziali si può dunque dire soltanto che erano miste.
Ma tutti credevano nel Dio di Israele.
Che cosa fare di loro? Alcuni giudicavano gli ebrei infidi come i cattolici; altri li definivano ostinati come i Vecchi Credenti. Ma due cose erano certe: né slavi né cristiani erano, di conseguenza, sospetti. Come molti altri elementi a sé dell’impero dello zar, dovevano prima venire controllati, poi russificati. Così, nel 1833, lo zar decretò che da allora gli ebrei dovessero vivere all’interno di una zona precisa: il Territorio Ebraico di Residenza.
In realtà il Territorio non era quel ghetto che poteva sembrare. Era una vastissima zona che comprendeva la Polonia, la Lituania, le province occidentali chiamate Russia Bianca e gran parte dell’Ucraina inclusi i porti del Mar Nero: in altre parole, le terre dove gli ebrei già vivevano e anche qualcuna in più. Lo scopo del Territorio era principalmente di limitare l’emigrazione degli ebrei nella Russia settentrionale, tradizionale e ortodossa, sebbene anche sotto questo aspetto le leggi non fossero applicate severamente e vi fossero numerose comunità di ebrei sia a Mosca che a San Pietroburgo.
Gli ebrei vivevano principalmente nelle città o nei loro villaggi, gli shtetl, comunità chiuse tradizionali. Di consueto parlavano yiddish tra di loro. Alcuni erano artigiani o commercianti; molti erano poveri e venivano mantenuti in parte dai loro compagni. Ma alcuni, come il nonno di Rosa, andavano a vivere in normali villaggi di campagna per coltivare la terra.
Tuttavia, restavano una comunità a sé stante: era necessario fare qualcosa. La soluzione dei diversi governi zaristi era sempre la stessa: “Devono convertirsi”.
Nel corso dei decenni il regime zarista aveva esercitato una pressione costante. Gli ebrei pagavano più tasse; il loro sistema di governo comunitario – il kahal – era stato dichiarato illegale; i loro rappresentanti nelle elezioni locali venivano ingiustamente limitati. In modo più sottile, venivano inseriti nel sistema scolastico, poi incoraggiati a convertirsi; in mo...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontispiece
  3. Russka
  4. Premessa
  5. Nota
  6. Foresta e steppa
  7. Il fiume
  8. Il tataro
  9. L’icona
  10. Ivan
  11. Il cosacco
  12. Pietro
  13. Caterina
  14. Il duello
  15. Padri e figli
  16. Rivoluzione
  17. Coda
  18. Epilogo
  19. Copyright