Il letto di Alice
eBook - ePub

Il letto di Alice

  1. 224 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Informazioni su questo libro

Alice non è più una bambina, ha abbandonato il Paese delle Meraviglie ed è diventata seducente, irresistibile, irriverente verso il mondo dei maschi. Nella sua camera d'ospedale - dove è costretta all'immobilità da una malattia misteriosa - entrano ed escono genitori stravaganti, innamorati respinti, spasimanti bizzarri, e poi medici sedotti e seduttori, infermiere impertinenti, scocciatori di varia natura. Il suo letto diventa così un folle volano, un osservatorio da cui il lettore può intuire gli spazi smisurati dei desideri non detti, i sentimenti intatti che durano lo spazio di un minuto, le fantasie amorose rese più trasgressive dall'insolita condizione. Il letto di Alice è una storia di grande intensità e straordinaria forza satirica, che dalla piccola camera della protagonista ci avverte che la vita deve essere giocata, ora e subito.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2014
Print ISBN
9788804594963
eBook ISBN
9788852056055

I

Per quattro settimane era rimasta nel letto dei genitori: un lettone gigantesco, più lungo del normale perché suo padre era alto e aveva piedi grandi. Fissando il soffitto, ricordava quando vi si coricava da bambina, borbottando spazientita mentre sua madre si metteva il rossetto o parlava al telefono. Ogni mattina, prima che facesse completamente giorno, pedinava il padre intorno al letto, posando i piedi sulle enormi impronte di talco che lui lasciava sulla moquette. Lo seguiva nel ripostiglio dove lui teneva le scarpe, nel bagno dove ascoltava il ronzio del suo rasoio elettrico, nel guardaroba da dove provenivano i cartoni delle confezioni delle camicie che lui le dava per disegnarci sopra. «Pack up your troubles in your old kit ba-a-a-ag» cantavano all’unisono con la radio.
«Sto delirando?» domandò Alice.
«Hai la febbre» rispose sua madre, immergendo la pezzuola in un bicchiere di carta pieno d’acqua di lavanda.
«Mi sembrava di delirare.» Il delirio, se non altro, aveva un che di romantico. «Sicura che non sto delirando?»
Sua madre rispose che credeva di no e le passò la pezzuola bagnata sulla fronte. L’acqua di lavanda profumava di pulito, come il cassetto delle camicie da notte di una zitella.
«Bere molti liquidi!» si raccomandò sua madre un minuto dopo, porgendole uno dei bicchieri di carta traboccanti d’acqua che erano posati sul comodino.
Alice se lo avvicinò alle labbra. “Ho riportato danni cerebrali” pensò con languore. “L’acqua ha uno strano sapore. Sa di…”
«Mamma! Mi hai dato l’acqua di lavanda! È disgustosa.»
«Ti ho avvelenata! Oh mio Dio, ti ho avvelenata!» gridò sua madre baciandole le mani.
Il dolore giungeva a ondate roventi, come un vivo imbarazzo. Partiva dai fianchi e scorreva con raffiche quasi cadenzate fino alle ginocchia, ai piedi e al resto del corpo. Alice gemeva con violenza e avrebbe voluto pestare i piedi per la rabbia, ma a volte non riusciva nemmeno a muoverli.
La notte, il caldo umido dell’estate e lo strano dolore aleggiavano su di lei per poi intensificarsi all’improvviso. “Sto delirando, ne sono sicura” diceva fra sé Alice. Le notti erano i momenti peggiori, e sua madre la consolava accarezzandole la fronte. Accanto al letto stazionava un deambulatore, nuovo di zecca ma apparentemente male in arnese; era scalcagnato come può esserlo soltanto l’alluminio. Quando Alice lo guardava, capiva che non stava delirando. La stanza da bagno incombeva a poco più di un metro di distanza.
Cara Katie,
mia madre mi ha detto che sei stata finalmente ricoverata. È terribile? Lo so, non ti ho più rivolto la parola dal giorno in cui mi hai tirato addosso quel piatto, ma ti ho pensata. E comunque, da quel giorno – e sai bene che tutto quello che dissi fu “Ciao”: non capisco che cosa ti abbia fatta infuriare a quel modo – a quanto pare mi sono ammalata anch’io.
È successo circa due settimane dopo che ci siamo viste, al mio rientro al Sarah Lawrence. Stavo facendo la baby-sitter; mi sono alzata per prendere un bicchiere d’acqua per il moccioso e sono caduta! Sono crollata a terra. Dolore, dolore e ancora dolore alle gambe. Il padre del ragazzino mi ha accompagnata a casa, malgrado dovessi soltanto attraversare la strada. Ho letteralmente strisciato – come uno scarafaggio – in bagno, a letto, al telefono quando il giorno dopo si è messo a squillare. Fortunatamente era un’amica di mia madre, e mi chiedeva se volevo un passaggio per Westport. È venuta a prendermi, mi ha aiutata a salire in macchina e mi ha accompagnata a casa, dove sono rimasta a letto un mese intero.
I dottori non avevano idea di che cosa mi fosse successo. Dapprima hanno creduto che si trattasse di un’infezione, e mi hanno infilato una siringa nel fianco per estrarne il pus. Ci hanno provato due volte, ma niente pus. Allora mi hanno messa in trazione, con questo congegno antidiluviano. Sembrava uno di quegli elettrodomestici pubblicizzati alle ore piccole in tivù: “Affetta! Taglia! Pesta! Monta!”. L’hanno sistemato sul mio letto. Sul letto dei miei, a dire il vero; la mia camera è troppo umida, e una delle pareti sta perdendo l’intonaco (problemi idraulici, credo). Comunque sia, i miei poveri genitori si sono dati il cambio, dormendo uno nella camera degli ospiti e uno sul pavimento accanto a me. È stato molto strano, perché circa tre settimane prima si erano separati. Per questa ragione, mio padre pensa che l’intera faccenda sia psicologica. Si sente molto in colpa. Chiaro, si sente comunque in colpa per aver lasciato mia madre. Ma io sono felice che si siano finalmente separati. Erano dieci anni che litigavano, perché farne una tragedia? A loro, però, non posso dirlo. Non a mio padre, perlomeno: è talmente serio.
E così ho dormito per un mese in quel letto fradicio. C’era una tale umidità. E io sudavo molto perché avevo la febbre. Un tempo le scarpe che tenevo nell’armadio si ammuffivano, al punto che ho temuto di vedermi crescere il muschio sulle gambe, ma non è successo. Credo di avere una specie di artrite – è quello che ti dicono quando non trovano il pus e non hanno idea di che cosa si tratti – ed è probabile che l’umidità me l’abbia addirittura peggiorata.
Il bagno era a quattro passi dal letto – lo so perché li ho contati – ma per arrivarci dovevo usare il deambulatore. A volte mi posavo dei termofori sui fianchi, e quando non funzionavano mi facevo impacchi di ghiaccio, e quando anche questi non funzionavano mi rimettevo i termofori. Mi aiutava a passare il tempo e a sviluppare la coordinazione mano-occhio.
Mio padre russava per terra e saltava su gridando “Che? Chi?” al minimo rumore, e ogni volta che gemevo mia madre si precipitava dalla parte opposta della casa. Non so come facessero a sentirmi.
Prenderò “non classificabile” in tutte le materie, e quest’estate dovrò ovviamente rinunciare al viaggio a Firenze con Cindy. Anche lei si sentiva in colpa, visto che ci va in ogni caso, e allora è venuta qui per un fine settimana. Ha cercato di intrattenermi ballando intorno al letto vestita soltanto di borse per il ghiaccio e cantando canzoni di Carmen Miranda. Ha avuto un discreto successo.
Avevo sempre la febbre – circa 39 – e così i dottori hanno deciso che fosse meglio ricoverarmi in ospedale. L’ambulanza sembrava una giardinetta. Tragitto in barella fino all’auto molto doloroso. Caricata sul retro, mi sono sentita come la spesa al supermercato. Ho urlato parecchio.
Mi credono tutti un’isterica. Tranne i miei, naturalmente. Suppongo che nessuno riesca a immaginare una simile sensibilità al dolore. In effetti sembra eccessiva: tanto per darti un’idea, soffro quando la barella passa sopra le crepe del pavimento di linoleum.
Eccomi qui in ospedale, dunque. A New York, perché pare che il dottore sia bravo. In un angolo della stanza c’erano dei mozziconi di sigaretta, e ancora non si è capito quale sia il mio problema. Non vogliono darmi sedativi perché sono ancora troppo giovane.
Ti scriverò di nuovo, quando avrò notizie più allegre. E tu mi scriverai? So che questa è una lettera molto egocentrica, e che al momento è centrata su un ego non particolarmente interessante – più che altro piango, urlo e cerco di trattenere la pipì, perché camminare fino al bagno fa troppo male –, ma è pur sempre una lettera.
Con amore,
Alice
Le tendine divisorie circondavano uno dei letti come lenzuola stese ad asciugare in un vicolo. Dall’interno di una tenda a ossigeno, una donna la guardava con sospetto. Un’altra si drizzò a sedere con improvvisa ritrosia, sistemando i fazzoletti di carta e i bicchieri sul comodino come se stesse facendo ordine per un ospite inatteso.
Alice temeva che qualcuno vomitasse o morisse. Cercò di sorridere educatamente. E se avessero russato, o tossito per tutta la notte? Si sentiva importuna. Detestava quelle donne.
«Non è una vista magnifica?» domandò la signora accanto a lei indicando la strada. Era intasata di traffico. Di tanto in tanto si udivano lontani colpi di clacson. «Ho appena subìto un intervento. Be’, non sono mai stata robusta.» Sospirò. Cominciò a descrivere il suo defunto marito – carnagione rosea, brillanti occhi azzurri, capelli bianchi – e infine prese a singhiozzare.
«Oh» gridò all’improvviso «le mie amiche hanno cercato di presentarmi qualche vecchio sporcaccione in Florida…» Il suo tono, che fino a quel momento era stato affettato come quello di un omosessuale lezioso, improvvisamente assunse una sfumatura lasciva, e Alice si chiese con orrore cos’altro avrebbe potuto rivelarle quella fragile vecchietta. «Ma nessuno di loro era all’altezza del mio amato» dichiarò lealmente la donna ritornando al tono di prima.
«Bene» commentò Alice con rispetto.
La donna sul lato opposto si era addormentata. La signora nella tenda a ossigeno era oscurata dal riflesso del sole al tramonto, ma Alice era sicura che la stesse ancora fissando con aria irriducibilmente sospettosa.
Suonò il campanello dell’infermiera. Quando un donnone gigantesco si avvicinò con passo pesante al suo letto, Alice chiese la sua iniezione. Attese nell’oscurità finché non si rese conto che era passato molto tempo da quando l’infermiera se n’era andata, quindi la richiamò.
«E va bene, va bene» disse il donnone di prima porgendole una minuscola pillola.
«Iniezione» protestò Alice gemendo e contorcendosi. «Il medico mi ha prescritto iniezioni.»
«Iniezione? Niente iniezione. Hai chiesto una pillola. Non avrai nessuna iniezione.»
«Puntura. Ho diritto a una puntura, voglio la mia puntura.»
«Vedi forse una siringa nei dintorni? Ho una pillola, non una puntura. E una pillola è quello che avrai.»
«Iniezione.»
«Non sarai tu a dirmelo» ribatté l’infermiera. Tutto ciò che Alice poteva distinguere nella penombra erano le sue mani carnose. Mani che reggevano una bustina e un bicchierino di carta. «Ho già aperto la confezione della pillola. Che cosa ne faccio se non la prendi?» domandò l’infermiera.
«La prenderò più tardi. Per il momento mi faccia la puntura. È la prima in tutto il giorno. Ne posso avere una ogni quattro ore.»
«Dovremo buttarla via» dichiarò risentita l’infermiera lasciando cadere la minuscola pallina nel cestino della cartastraccia. La pillola produsse un colpetto secco, e l’infermiera si allontanò. Ritornò e le fece l’iniezione con mossa energica.
La donna con il marito defunto vomitò tutta la notte. Alice ebbe l’impressione che esagerasse volutamente un po’, producendosi in sonori conati molto prima e molto dopo le crisi vere e proprie.
La donna nella tenda a ossigeno era morta, come scoprì l’infermiere venuto a misurare la temperatura alle cinque del mattino. Fredda come il marmo. Alice si chiese se avrebbero davvero portato via il cadavere con i piedi in avanti, ma gli inservienti tirarono le tendine attorno al letto e le impedirono di seguire la scena.
Il mattino successivo Alice fu trasferita in una camera singola.
«Sdraiata» le disse quel pomeriggio il dottor Witherspoons. Alice era seduta sul bordo del letto con le gambe ciondoloni, come le aveva raccomandato il suo medico nel Connecticut. Si stava preparando al lungo viaggio con il deambulatore fino al bagno, dove si sarebbe lavata i denti. Leggermente stordita dal dolore, non sapeva decidersi.
«Sdraiata» ripeté il dottor Witherspoons. Era alto e abbronzato, e aveva l’aria di essere freddo al tatto. Era il medico curante di famose squadre di football americano, ed era a propria volta famoso. «Giù, immediatamente.»
«Ma il mio dottore…»
«Sdraiata.» Il dottor Witherspoons viveva a Westport, e ...

Indice dei contenuti

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  2. Frontespizio
  3. I
  4. II
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