
- 630 pagine
- Italian
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eBook - ePub
Cielo verde
Informazioni su questo libro
L'esaltante epopea di Mike the Angel, temerario pilota americano, pioniere dell'aviazione nei cieli dell'Amazzonia, alle prese con i cercatori d'oro, i missionari e gli indios dell'ultimo paradiso degli avventurieri. Un romanzo intenso e avvincente ispirato a una figura realmente esistita.
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Informazioni
Print ISBN
9788804455226eBook ISBN
97888520564131
JENNY, THE SURVIVOR
(1916-1919)

«Capisco il tuo desiderio d’avventura, io però non posso offrire consigli pratici; caso mai un suggerimento…»
«Per esempio?»
«Lascia questa città, cerca un paese dove sia possibile correre il massimo rischio, come rubare una mandria di vacche.…un luogo ove il furto di una mandria sia punito con il linciaggio…»
Fu abbattuto o cadde per disgrazia? O forse scelse la morte per non rinunciare a volare sulla foresta più grande del mondo?
Al destino di Mike e a come si sia compiuto, rifletto mentre volo su un piccolo aereo decollato da Ciudad Bolívar. Coperte duecento miglia di foresta, stiamo sfiorando la cascata “alta un miglio” che cade da rocce vicino al cielo. Da millecinquecento metri di quota godo la visione del salto d’acqua e allo stesso tempo di un vasto squarcio di paesaggio amazzonico.
I Tepuy, montagne dalle quali cade la cascata, emergono dalla piana fitta d’alberi come torri. Pilastri di roccia confusi nelle nubi.
Dal candore d’una di esse sbuca il nostro Cessna. Ne sento la fragilità e ricordo come fosse stato un aereo assai meno potente a portare sin qui il pilota dal quale ha preso il nome la cascata più alta del nostro pianeta: el Salto Angel.
Il mio volo è il riflesso del suo.
Imprevedibile contagio di situazioni all’origine del mio desiderio di conoscere la vicenda di un uomo divenuto famoso non solo per la scoperta della cascata, ma per le avventure come “pilota della giungla” vissute ai tempi della prima aviazione.
Da quando mi interesso alla vita di questo eroe del nostro tempo, ascolto su di lui opinioni contrastanti. Un ubriacone, un violento, un puttaniere, sostiene qualcuno; un difensore dei deboli, ribattono altri, romantico come certi personaggi di romanzi ottocenteschi.
Era un avventuriero, insistono i detrattori, un cercatore d’oro senza scrupoli.
Di certo, aveva un carattere deciso, testardo, tempestoso per alti e bassi d’umore; contraddittorio nel suo amore-odio per la selva amazzonica.
Difficile scegliere tra eventi, avventure e ossessioni scandite nei quarantasei anni della sua vita; anche perché lunghi momenti ci sono sconosciuti. Dalle testimonianze di amici e nemici emerge la sua determinazione a compiere missioni impossibili, con l’entusiasmo di un sognatore e la freddezza di un buon pilota.
Ho cercato di capirne volontà, coraggio e passionalità; se fu solo il desiderio di libertà a fargli scegliere una così rischiosa professione in un ambiente tanto ostile; oppure se a condizionarlo fu il miraggio di un torrente dai sassi d’oro. A convincermi a scrivere la storia della sua vita è stato il dubbio sulla versione ufficiale del suo incidente: non precipitò, ma fu abbattuto; non era ubriaco, come venne insinuato; né la zona del supposto incidente, quel giorno, era sconvolta dal maltempo. Il suo aereo non trasportava un carico pericoloso, animali feroci o serpenti velenosi destinati a qualche zoo o istituto sieroterapico di ricerca (erano anche di questo tipo, alcune delle sue spericolate missioni).
In realtà, sostengono i suoi amici, quell’aereo fu colpito.
Ma perché e da chi?
Prima di me, il figlio Brian si era posto gli stessi interrogativi.
Lo incontrai quando decisi di raccogliere notizie su suo padre e la sua fine, conoscere le sue donne e i suoi amici; cercare una possibile verità (se mai ne sia esistita una) sul torrente dai sassi d’oro. Soprattutto ero interessato alla impari lotta da lui intrapresa per salvare l’Amazzonia.
Con Brian stabilii un contatto indirizzandogli una lunga lettera negli Stati Uniti. Gli esposi questo mio interesse, di uomo ma anche di narratore, con conseguenti dubbi e interrogativi; ne scaturì uno scambio di fax e telefonate chiarificatrici, tanto da convincerci a concordare un incontro.
A Rawdon City, piccolo centro ai confini tra Oklahoma e Texas, Brian mi sistemò in un piccolo hotel non lontano da casa sua, e si mise a mia disposizione. Era un uomo sulla settantina ma dimostrava dieci anni di meno. I suoi occhi, d’un verde intenso (gli stessi di suo padre, mi disse), sprigionavano uno sguardo leale, in un volto incorniciato da una folta massa di barba e capelli grigi. Quando era assorto, la sua bocca s’atteggiava a una sorta di sorriso, quasi una maschera. Parlava lentamente cercando di farsi capire; la cortesia mi consentì di non perdere una sola delle sue parole, di non lasciarmi sfuggire le sfumature di quanto narrava riandando con la memoria, che aveva lucidissima, a decine d’anni prima.
«Vorrei scrivere della vita di suo padre…» la mia prima domanda non era nemmeno una domanda, cercai di perfezionarla. «Vorrei far conoscere, in una biografia romanzata, le incredibili imprese di primo pilota della giungla…» «Già, così l’hanno chiamato, laggiù…» mi rispose. «Canaima era un posto sconosciuto quando vi atterrò in uno dei suoi primi voli nella selva per trasportare un garimpeiro, un cercatore d’oro. Oggi ha un aeroporto tagliato tra alberi giganteschi, sulla parete esterna di una sorta di torre di controllo una targa in bronzo ricorda mio padre come THE FIRST JUNGLE PILOT. Pochi sanno che per amore di quella giungla lui venne ucciso.»
Il colloquio durò giorni e si sviluppò non come lunga intervista, ma come “il tempo di un viaggio rivissuto assieme”; così Brian lo definì al momento in cui il lavoro si concluse. Mentre lo ascoltavo narrare (e divertirsi e indignarsi), ero spesso obbligato a regolare il volume della registrazione perché la sua voce saliva mentre altre volte scendeva, quasi non si percepiva.
Dati, personaggi, ipotesi, certezze: tutto riconduceva al carattere ostinato, coraggioso, alla volontà a volte cieca e rabbiosa di suo padre. E finiva con il convergere nel doppio interrogativo: chi lo aveva ucciso e perché? Quando gli avevo espresso, al momento del nostro primo incontro, l’intenzione di registrare il suo racconto, non aveva sollevato obiezioni. Ma alla nostra prima seduta, mentre m’accingevo a regolare il mio strumento di lavoro (lo avevo poggiato sul tavolo di cucina, dove lui aveva deciso fosse pratico stabilirci “per avere sottomano il frigo nel caso ci fosse venuta voglia di una birra”), temetti avesse cambiato idea; serrava in mano il microfono osservandolo come se non ne avesse mai visto uno e scuoteva la testa quasi a voler negare la sua precedente disponibilità.
Ero rimasto interdetto.
Solo per pochi istanti, in verità. Dopo avermi guardato in faccia, mi fece segno di premere REC.
I suoi occhi si chiusero a fessura e cominciò a raccontare.
DAL COLLOQUIO CON BRIAN. DAT 1 - TIME CODE 00.00.04
(…) Non lo seppi subito, ma solo al mio ritorno dal fronte, luglio ’45. «Tuo padre è caduto con il suo aereo nella giungla» mi sentii dire; e in quel momento nessuno più di me, pilota di guerra, poteva capire la fatalità d’un simile evento. Per chiunque vola, ma ancor più per chi è abile, sicuro, l’incidente è normalità; l’eccezione è essere vivo.
Ero appena tornato negli Stati Uniti dopo due anni di scontri aerei in Europa: ero stato “secondo” e poi comandante di un B-17, l’aereo da bombardamento conosciuto come Fortezza Volante. Una splendida bestia meccanica, facile da pilotare, malgrado le dimensioni, ma difficile descrivere quanto sia stata dura, per noi, portarla in volo carica di bombe nei cieli di Germania infestati dai Me-109 di Hitler. Né immaginare quanta fortuna io abbia avuto nel riuscire a tornare vivo a casa.
Anche mio padre era stato pilota, in Europa, nella prima guerra mondiale. Lui aveva pilotato aerei da caccia, io bombardieri pesanti. Io avevo volato a ottomila metri, nel ’44 e nel ’45, con la maschera dell’ossigeno sul volto e la Luftwaffe attorno; lui, nel ’15-18, poco sopra i mille metri, la sciarpa di seta al collo, la pelle riportata a casa dopo quarantasei missioni.
Le mie missioni sono state forse meno della metà delle sue. Qualche volta, dopo aver posato sulla pista di una delle nostre basi il carrello del mio gigante, tiravo un sospiro di sollievo, immaginando il giorno in cui sarei tornato a casa e lui ed io avremmo confrontato le nostre esperienze. In realtà, non credo avremmo gareggiato nel raccontarci episodi eroici, avremmo invece cercato di capire chi dei due avesse avuto più paura.
Una chiacchierata simile con mio padre mi avrebbe divertito, ammesso che al ritorno in patria fossi riuscito a sapere dove trovarlo. Con Mike, con mio padre voglio dire, si poteva restare un anno, anche due senza aver notizie.
(…) A guerra conclusa, con decine di migliaia d’altri congedati dell’esercito come me, tutti poco più che ventenni e vittoriosi, ci eravamo lasciati travolgere dall’entusiasmo con il quale ci aveva accolti New York.
A portarmi in patria era stata una nave salpata da Liverpool; di lì, prima di imbarcarmi, ero riuscito a telegrafare a casa: poche parole per tranquillizzare le “mie” donne, madre e nonna. Finalmente avrebbero finito di temere per la mia vita, smesso d’attendere ogni mattina l’arrivo d’un postino militare.
Adempiuto al mio dovere di figlio e nipote, avevo attraversato l’Atlantico e quando avevo messo piede sul Pier 48 del porto di New York, non mi ero affrettato a farmi vivo, intendevo godermi la festa per una guerra vinta anche da me. Fu una babilonia da stordire, le ragazze sembravano esistere solo per consolarci; accettavano d’esser corteggiate e non facevano le difficili.
Ne ero felicissimo, anche se nei due anni trascorsi in Europa nessuno di noi era vissuto in castità; le ragazze inglesi, rimaste sole nelle piccole città attorno al nostro campo d’aviazione, per l’assenza di fidanzati e mariti, partiti per combattere i nemici della patria, con noi avevano familiarizzato (uso un eufemismo) attivamente. Da parte nostra cercavamo di non vederle come altrettante Penelopi ma come fanciulle libere e disponibili; questo tranquillizzava le loro e le nostre coscienze (ammesso ne avessimo una).
Per tornare al momento dello sbarco a New York e alla telefonata al 340211 di Rawdon City che rinviavo di giorno in giorno, lei consideri lo stato d’euforia di quei giorni, aggiunga poi che mia madre negli affetti era asfissiante.
Nell’istante in cui fosse squillato il telefono, con gioia soffocata da un singhiozzo avrebbe esclamato: “Brian, tesoro, sei tornato! Che gioia; ora vieni, vieni subito. Sono così sola…”. A quel punto la gran festa di New York per me sarebbe finita.
È questo il motivo per cui mi decisi a telefonare a casa solo al concludersi d’una settimana vissuta come fossi stato drogato; felice vita di reduce eroico che si concluse ascoltando le poche parole pronunciate da mia madre: «Brian, tuo padre è morto».
DAT 1 - T.C. 03.04.11
(…) L’abbracciavo e mi rendevo conto di quanto fosse cambiata in meno di tre anni; non solo fisicamente. Mi sorprendeva non vederla in lacrime.
Solo quando terminò il rito degli abbracci e uscimmo dalla palazzina dell’aeroporto accennò a mio padre, ma non per riferirsi alla sua scomparsa. Mi disse quanto fosse emozionata di vivere con me quel ritorno; per lei era come ritrovarsi in un giorno del 1918 quando mio padre era rimpatriato dall’Europa, assieme a migliaia d’altri soldati che avevano combattuto la prima guerra mondiale. «Mike aveva press’a poco la tua età, in quei giorni» aggiunse. Poco dopo, mentre attraversavamo il centro della città, fermò la sua vecchia Buick davanti a un cinema (era tale, nel ’45; adesso è un supermercato): «Lì dentro, nel buio della sala,» tentava di sorridere, nel ricordo «tuo padre un anno dopo esser rientrato dal fronte mi strinse una mano nella sua, con forza; e mi disse indicandomi lo schermo: “Guarda, era così la morte che ho visto in faccia ogni giorno”».
Due aerei si battono tra le nubi. Si inseguono, sparano, volteggiano.
Di uno dei due ecco la carcassa bruciata a terra; poco lontano il corpo del pilota senza vita.
«Si è gettato nel vuoto per non morire bruciato» mormora il giovane uomo alla ragazza che gli è accanto.
Sono Mike e Patricia.
Siedono nel buio di una ex scuola di ballo trasformata sin dagli anni Dieci in sala attrezzata per assistere al “nuovo spettacolo” chiamato cinema. Oggi non si odono mormorii e risate che di solito accompagnano la proiezione dei film; nella sala grava un silenzio commosso; persino il pianoforte sotto lo schermo tace, l’ometto impegnato a strimpellare estemporanei commenti musicali sulle immagini dello schermo, è ipnotizzato dalle scene che evocano gli orrori della guerra. Anche lui, come tutti, fissa sullo schermo il susseguirsi delle sequenze del cinegiornale “Fox-Movietone” ricostruite con ingenua efficacia per offrire un drammatico quadro d’insieme dei campi di battaglia d’Europa.
Nello scorcio dell’autunno 1919 il film celebra il primo anniversario della Vittoria.
Bandiere americane, intrecciate con altre dei paesi vincitori, ciondolano stancamente dagli edifici pubblici della cit...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- Cielo verde
- 1. JENNY, THE SURVIVOR (1916-1919)
- 2. ADVENTURE (1919-1920)
- 3. ADVENTURE 2 (1920-1926)
- 4. THE GOLDEN GOOSE (1926-1929)
- 5. EL CARONÍ (1929-1932)
- 6. EL TIGRE (1932-1937)
- 7. LU-LEIHA (1937-1939)
- 8. ADVENTURE 3 (1939-1944)
- Copyright