Okay. Niente panico. Niente panico.
Ne verrò fuori. Certo che ne verrò fuori. Non rimarrò intrappolata in questo orribile spazio angusto, senza speranza di uscirne, per sempre… vero?
Valuto la situazione con la maggiore calma possibile. Ho le costole talmente compresse che faccio fatica a respirare, e il braccio sinistro bloccato dietro la schiena. Chiunque abbia inventato questo “tessuto contenitivo” sapeva il fatto suo. Anche il braccio destro è incastrato in una posizione assurda. Se tento di spostare in avanti le mani, il “tessuto contenitivo” mi sega i polsi. Sono immobilizzata. Impotente.
Vedo la mia faccia livida riflessa nello specchio. Ho gli occhi sbarrati e disperati. Le braccia legate da lucide fasce incrociate. Una dovrebbe essere una bretella? Quella specie di cintura dovrebbe stare intorno alla vita?
Oh, mio Dio. Non avrei mai dovuto provare la taglia trentasei.
«Come va lì dentro?» Mindy, la commessa, mi chiama da dietro la tenda del camerino e io faccio un salto per lo spavento. Mindy è alta e slanciata, con un paio di cosce muscolose separate l’una dall’altra da diversi centimetri. Ha tutta l’aria di una che corre su per una montagna ogni giorno e un KitKat non sa neanche che cos’è.
Mi ha chiesto tre volte come andava e io le ho sempre strillato: “Benissimo, grazie!”. Ma comincio a essere disperata. Sono dieci minuti che lotto con questa “tuta modellante”. Non posso evitare la commessa in eterno.
«Un tessuto fantastico, vero?» dice Mindy entusiasta. «Ha una capacità contenitiva tre volte superiore a quella dell’elastan normale. Una taglia la toglie tutta, vero?»
Sarà, solo che ho perso anche la mia capacità polmonare.
«Tutto a posto con le bretelle?» continua Mindy. «Vuole che entri nel camerino per sistemargliele?»
Entrare nel camerino? Non permetterò mai a una losangelina alta, abbronzata e atletica di entrare qui dentro e vedere la mia cellulite.
«No, tutto bene, grazie» rispondo con voce stridula.
«Ha bisogno che l’aiuti a toglierla?» insiste lei. «Alcune nostre clienti fanno un po’ fatica la prima volta.»
Ho un’orribile visione di me aggrappata al bancone e di Mindy che cerca di togliermi la tuta, entrambe sudate e ansimanti per lo sforzo, mentre lei pensa: “Lo sapevo che le inglesi erano tutte delle balene”.
No, non se ne parla. Neanche per sogno. Mi rimane un’unica via d’uscita. Devo comprarla. Costi quello che costi.
Con un poderoso strattone riesco a sollevarmi due delle bretelle sulle spalle. Così va meglio. Sembro un pollo strizzato nella lycra nera, ma se non altro riesco a muovere le braccia. Appena torno in albergo, taglio via tutto con un paio di forbici e vado a buttare quello che rimane in un cestino per strada, così Luke non vede niente e non dice: “Che cos’è questa roba?” o “Stai dicendo che l’hai comprata anche se sapevi che non ti andava bene?” o qualche altra frase davvero fastidiosa.
Luke è la ragione per cui mi trovo in questo negozio di abbigliamento sportivo di Los Angeles. Quanto prima ci trasferiremo qui per i suoi impegni di lavoro e adesso siamo venuti per cercare casa. Questa settimana le nostre priorità sono: agenzie immobiliari, case, giardini, contratti d’affitto. Sì, più o meno. Ho fatto solo un salto veloce, velocissimo, in un negozio, fra un appuntamento e l’altro con gli agenti immobiliari.
Okay, va bene. La verità è che ho disdetto un appuntamento per venire in Rodeo Drive. Ma ero costretta. Avevo un valido motivo per comprarmi una tenuta da corsa di emergenza, infatti domani pomeriggio parteciperò a una gara. Una vera gara! Io!
Prendo i miei vestiti, afferro la borsetta, esco dal camerino a passo rigido e trovo Mindy in agguato.
«Wow!» Ha un tono di voce allegro, ma lo sguardo scioccato. «Le sta…» Fa un colpo di tosse. «Benissimo. Ma non le va un po’… stretta?»
«No, è perfetta» dico, cercando di sorridere spensierata. «La prendo.»
«Fantastico!» Nasconde a fatica lo stupore. «Bene, se vuole togliersela, gliela batto alla cassa…»
«Mah, veramente la tengo su.» Cerco di fare la disinvolta. «Già che ci sono… Può mettere i miei vestiti in un sacchetto?»
«D’accordo» dice Mindy. Segue una pausa piuttosto lunga. «Sicura di non voler provare la trentotto?»
«No!» strillo. «La trentasei è perfetta! Ci sto comodissima!»
«Okay» si rassegna Mindy dopo un attimo di silenzio. «Certo. Sono ottantatré dollari.» Passa il lettore del codice a barre sull’etichetta che mi pende dal collo e io prendo la carta di credito. «Allora, le piace l’atletica?»
«Certo, domani pomeriggio parteciperò alla Ten Miler.»
«No, davvero?» Alza lo sguardo molto colpita, e io cerco di assumere un’aria noncurante e modesta. La Ten Miler non è una corsa qualsiasi. È la corsa. Si tiene ogni anno a Los Angeles e vi partecipano tantissime star d’alto profilo. La trasmettono persino sul canale satellitare E! Ci sarò anch’io!
«Come ha fatto a trovare un posto?» domanda Mindy invidiosa. «Io cerco di iscrivermi praticamente tutti gli anni.»
«Be’» faccio una pausa a effetto. «Sono nella squadra di Sage Seymour.»
«Wow.» Lei rimane a bocca aperta e io all’improvviso mi sento euforica. È vero! Io, Becky Brandon (nata Bloomwood), correrò nella squadra di una grande star del cinema! Faremo stretching insieme! Indosseremo cappellini da baseball uguali! Andremo su “US Weekly”!
«Lei è inglese, vero?» Mindy interrompe il flusso dei miei pensieri.
«Sì, ma sto per trasferirmi a Los Angeles. Sono venuta a cercare casa con mio marito Luke. Lui ha una società di PR e lavora con Sage Seymour» non posso fare a meno di aggiungere orgogliosa.
Mindy sembra sempre più colpita.
«Quindi lei e Sage Seymour siete praticamente amiche?»
Traffico un po’ con il portafoglio per guadagnare tempo. La verità è che non siamo proprio amiche, anche se io ci avevo sperato tanto. Anzi, la verità vera è che non l’ho ancora incontrata. È davvero un’ingiustizia. Luke lavora con lei da un sacco di tempo e io sono venuta a Los Angeles una volta per un colloquio di lavoro e adesso sono di nuovo qui in cerca di una casa e di un asilo per nostra figlia Minnie. Mai una volta che abbia visto Sage, anche solo di sfuggita!
Quando Luke mi ha detto che avrebbe lavorato con Sage Seymour e che ci saremmo trasferiti tutti a Hollywood, pensavo che l’avrei incontrata ogni giorno. Pensavo che avremmo trascorso del tempo insieme ai bordi della sua piscina rosa, con gli occhiali da sole uguali, e che saremmo andate a fare manicure e pedicure insieme. Ma, a quanto pare, anche Luke la vede pochissimo; passa le sue giornate in riunione con manager, agenti e produttori. Dice che sta imparando a conoscere l’industria cinematografica e che la curva di apprendimento è molto ripida. E a me va bene, perché prima faceva il consulente di società finanziarie e grandi gruppi di imprese. Ma perché deve essere così ostinatamente disinteressato all’argomento star? Di fronte al mio lievissimo sfogo dell’altro giorno, ha detto: “Per l’amor di Dio, Becky, non stiamo facendo questo cambiamento epocale solo per incontrare delle star”. Ha pronunciato la parola “star” come se stesse dicendo “scarafaggi”. Non capisce niente.
La cosa davvero fantastica è che siamo in sintonia su quasi tutto nella vita, ed è per questo che il nostro matrimonio è così felice. Però abbiamo qualche minuscolo motivo di disaccordo, tipo:
- Cataloghi. (Non sono “cianfrusaglie”. Sono utili. Non si sa mai, potresti avere bisogno di una lavagnetta personalizzata con un grazioso cestino per il gessetto da mettere in cucina. E poi mi piace leggerli a letto.)
- Scarpe. (Tenere le scarpe nella loro scatola originale non è ridicolo, bensì un modo per risparmiare. Un giorno torneranno tutte di moda e le potrà usare Minnie. Nel frattempo, basta che lui stia attento a dove mette i piedi.)
- Elinor, sua madre. (Una storia lunga, lunghissima.)
- Le star.
Insomma, siamo a Los Angeles. La patria per eccellenza delle star. Loro sono la vera attrazione del posto. Tutti sanno che a Los Angeles si va per vederle, così come nello Sri Lanka si va per vedere gli elefanti.
Ma Luke non è rimasto senza fiato quando abbiamo visto Tom Hanks nell’atrio del Beverly Wilshire. Non ha battuto ciglio quando eravamo seduti a tre tavoli di distanza da Halle Berry al The Ivy (credo che fosse proprio lei). Non si è emozionato quando abbiamo avvistato Reese Witherspoon sul marciapiede opposto al nostro. (Sono sicura che era lei. Aveva proprio gli stessi capelli.)
E parla di Sage come di una cliente qualsiasi. Come se fosse la Foreland Investments. Dice che è proprio per questo che lei lo apprezza: perché è fuori da tutto il circo di Hollywood. E che io invece mi sto sovreccitando. Non è affatto vero. Io non sono sovreccitata. Io sono eccitata nella giusta misura.
In cuor mio sono anche delusa da Sage. Okay, va bene, non ci conosciamo veramente, ma abbiamo parlato al telefono quando mi ha aiutato a organizzare una festa a sorpresa per Luke. (Anche se adesso ha un numero nuovo e Luke non vuole passarmelo.) Mi sarei aspettata che si facesse sentire, mi invitasse a casa sua per un pigiama party o qualcosa del genere.
Be’, non importa. Domani sistemeremo tutto. Non per vantarmi, ma se sto per partecipare alla Ten Miler è solo grazie alla mia abilità. Ieri, per caso, stavo guardando lo schermo del computer da dietro le spalle di Luke, quando gli è arrivata un’e-mail circolare da Aran, il manager di Sage. Era intitolata Chi primo arriva meglio alloggia e c’era scritto:
Cari amici,
c’è un ultimo posto disponibile nella squadra della Ten Miler, perché un partecipante si è infortunato; qualcuno è interessato a correre e a sostenere Sage?
Prima che me ne rendessi conto, le mie dita stavano già selezionando RISPONDI e digitando: “Sì, grazie! Sarei felicissima di correre con Sage! Cordiali saluti, Becky Brandon”.
Sì, va bene, forse avrei dovuto consultarmi con Luke prima di premere INVIA. Ma c’era scritto: “Chi primo arriva meglio alloggia”. Dovevo agire in fretta!
Luke mi ha fissato e mi ha detto: “Sei pazza?”. Poi si è messo a farmi la predica, dicendo che era una gara per atleti allenati e a chiedermi chi mi avrebbe sponsorizzato e se ce l’avevo, almeno, un paio di scarpe da corsa. Certo che avrebbe potuto essere più incoraggiante.
Anche se in effetti non ha tutti i torti sulle scarpe da corsa.
«Quindi lavora anche lei nell’industria cinematografica?» domanda Mindy, mentre mi passa lo scontrino da firmare.
«No, io faccio la personal shopper.»
«Ah, okay. In quale negozio?»
«Ehm… veramente… Dalawear.»
«Ah.» Sembra presa alla sprovvista. «Intende il negozio per…?»
«Signore di una certa età. Sì.» Sollevo il mento. «È un bellissimo negozio. È davvero fantastico, non vedo l’ora di cominciare!»
Sto cercando di essere superpositiva riguardo a questo lavoro, anche se non è esattamente il massimo. Dalawear vende “vestiti comodi” per signore che mettono “il comfort prima dello stile”. (È quello che si legge sulla pubblicità del negozio. Magari provo a convincerli a cambiare lo slogan in “il comfort sullo stesso piano dello stile”....