
- 210 pagine
- Italian
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eBook - ePub
Informazioni su questo libro
Attraverso il racconto di alcuni casi clinici, Gianna Schelotto, psicoterapeuta, ci insegna a trasmettere e ricevere, senza interferenze, tutte le sfumature delle nostre emozioni, per imparare a comunicare senza i numerosi malintesi con cui ogni giorno dobbiamo misurarci.
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Informazioni
Dire e non dire
Ovvero il messaggio che contraddice se stesso
Dormivo profondamente quel sabato mattina; sognavo di essere a bordo di una vettura stravagante enorme, simile ai macchinoni dei film americani anni Cinquanta. La vera bizzarria dell’auto era il colore, un bianco tanto immacolato quanto improbabile. Cercavo di metterla in moto, la chiave di accensione era di quelle che servono a dare la corda ai giocattoli meccanici dei bambini. Girandola, ottenevo un suono come di carillon, tenue e lontano all’inizio, poi sempre più vicino, forte e insistente.
Fu il mio braccio il primo a svegliarsi, si allungò verso il comodino e afferrò il telefono.
«Pronto, sono Chiara» disse una voce sommessa. «È lei, dottoressa?»
Ero quasi sveglia, ma facevo fatica a riportare quella voce, quel nome, alla realtà. Lei non attese la mia risposta: «Sono scappata» sussurrò come chi tema di essere ascoltato da estranei. «Sono scappata, così smetto di scappare!»
«Chiara» riuscii finalmente ad articolare «ma che succede, oggi non è… non è oggi che doveva…?»
«Sì, sì dovevo… ma lei lo sa meglio di me che non dovevo. Ora bisogna che vada. La richiamerò. Grazie di tutto.» Riattaccò.
L’orologio sul comodino segnava le 7.10 di sabato 18 settembre: il giorno fissato per il matrimonio di Chiara Perelli.
Sulla scrivania del mio studio, ben in vista, c’era la partecipazione di nozze con un appunto su un foglietto giallo: «Ricordarsi di fare il telegramma». Da quanto avevo appena appreso non ce ne sarebbe stato più bisogno.
«Dunque questo matrimonio non s’ha da fare» riflettei, vergognandomi subito dell’indebito compiacimento che mi suscitava quell’idea.
Non avevo pensato a Chiara da giorni e mi pareva di non ricordare affatto la data del suo matrimonio; eppure le nitide scene del sogno da cui ero stata appena strappata dicevano chiaramente che quell’evento era molto più presente in me di quanto avessi immaginato. La bizzarra auto bianca poteva essere solo la vettura della sposa e la piccola chiave, che non apriva nulla, aveva tutta l’aria di essere un segno, una premonizione delle nozze mancate.
Quando Chiara mi aveva comunicato la sua decisione di sposarsi, avevo accolto la notizia come la prova di un mio fallimento di terapeuta. Non che di solito gli psicologi debbano convincere la gente a sposarsi o a non sposarsi. Solo che quell’ardita e confusa ragazza era ben consapevole – e lo ammetteva esplicitamente – di non essere innamorata del suo promesso sposo. Riteneva però di essersene resa conto troppo tardi, e di non poter più tornare indietro.
Dopo aver sorseggiato pensierosa il mio primo caffè, mi misi a cercare tutti gli appunti delle sedute che avevo avuto con Chiara: era chiaro, ormai, che aveva invaso il mio sabato e tanto valeva mettere un po’ di ordine nei ricordi e prepararsi ad affrontare nuove possibili incursioni.
«Sono venuta da lei perché sono terribilmente infelice. Sono innamorata di un uomo che mi ama moltissimo, ma non posso sposarlo…»
Così aveva esordito la prima volta che l’avevo vista. «Un’altra ragazzina invaghita di un uomo sposato che potrebbe essere suo padre…» pensai, vagamente infastidita.
Ma il caso era diverso e, a prima vista, nient’affatto drammatico. Lei si era semplicemente innamorata di un ragazzo che non piaceva ai genitori. In certe famiglie e con certe ragazze non sarebbe stato neppure un problema. Ma tutto nella vita di Chiara era fuori dal tempo: l’intensità delle emozioni, la complessità dei rapporti, la violenza dei conflitti che le si agitano dentro sembrano uscire dalle pagine di un feuilleton dell’Ottocento. C’erano, classicamente, una madre ricca, potente e cattiva, un papà libertino e distratto e poi c’era lei, la figlia viziata ma repressa che riesce raramente a fare quello che vuole e solo grazie a colpi di testa o azioni estreme.
Chiara aveva appena compiuto diciannove anni; era minuta e vivace; di lei mi avevano colpito gli occhi grandi, scuri e pieni di misteriose inquietudini. Cominciava i suoi discorsi guardando l’interlocutore con una fissità sfacciata che poteva risultare imbarazzante ma, dopo poche battute, come per un’improvvisa sfiduciata stanchezza, abbassava gli occhi e, per tutta la durata della conversazione, restava così senza più azzardare uno sguardo diretto.
Fui impressionata dall’insolito alternarsi in lei di atteggiamenti aspri e spavaldi ad altri dimessi e quasi impauriti. Chiara era come si comportava: eternamente combattuta tra desiderio di libertà e dipendenza dagli altri; dipendenza che di solito aveva la meglio, rendendola infelice e repressa. Ogni tentativo di riscatto si trasformava, secondo la sua colorita espressione, «in una rivoluzione soffocata nel sangue».
«Ma su Paolo non cederò» disse a testa bassa esprimendo anche col corpo la volontà di fronteggiare nemici invisibili. «Lei mi può aiutare dottoressa a vincere questa battaglia?»
A proposito del rapporto con i genitori usava solo termini bellici: armi, rivoluzione, battaglie, sangue. Fu sorpresa quando glielo feci notare. Successivamente si accorse che non si trattava solo di parole: le sue modalità di relazione in famiglia erano esclusivamente di conflitto, diretto o indiretto, e – questo era il vero dramma – da ciascuno scontro usciva puntualmente sconfitta.
«Forse per non perdere le battaglie, basta non farle. Spesso non sono affatto necessarie» le dissi una volta, dopo il drammatico racconto dell’ennesima, pretestuosa lite con sua madre.
«È vero» ammise «quando penso a me dal di dentro, mi pare di dovermi sempre difendere dalle ingiustizie e dai soprusi di tutti.»
Lavorò per la pace. Fu un impegno appassionato e faticoso ma diede risultati imprevedibili. Si abituò a non leggere negli eventi solo messaggi di attacchi o di sfida, diventò al tempo stesso meno aggressiva e meno vulnerabile. E naturalmente dai suoi cambiamenti derivarono altri cambiamenti. Le fiere opposizioni dei suoi genitori al matrimonio con Paolo si attenuarono a poco a poco, le loro feroci critiche al ragazzo si trasformarono in più labili perplessità.
In quei giorni Chiara sembrava invincibile: teneva testa a sua madre senza lasciarsi ferire da frasi o atteggiamenti che, qualche mese prima, avrebbe considerato attacchi mortali. Portava avanti con determinazione il suo progetto di matrimonio a breve scadenza. «Ci sposeremo fra sei mesi. Perché aspettare? Paolo lavora, io ho una casa mia, prenderò la laurea dopo sposata, cresceremo a poco a poco…»
I genitori di Chiara, arresi di fronte alla forza e alla indomita fierezza della figlia, si adeguarono rapidamente al nuovo corso delle cose. Il «fidanzato» precedentemente rifiutato fu accolto in casa con simpatia e cordialità.
La famiglia fu travolta dall’entusiasmo di lei; sembrò l’inizio di un grande gioco cui nessuno voleva e poteva sottrarsi. Cominciarono a fare progetti sul matrimonio, a discutere su dove e come si sarebbe svolto. Parlavano di mobili, bomboniere, invitati, cercando di prepararsi per tempo al grande evento. Chiara e sua madre avevano trovato un’inedita sintonia, vagando per negozi, atelier, agenzie di viaggi.
Durante le sedute Chiara divagava continuamente; raccontava solo dei frenetici preparativi del matrimonio. Non riusciva più a parlare di sé.
«Sembra che lei voglia scappare…» le dissi una sera.
A sorpresa, scoppiò in un pianto disperato e dirotto.
Non voleva più sposarsi. Paolo le sembrava di colpo insulso e noioso, forse perché adesso piaceva tanto ai suoi genitori e lei non poteva più usarlo come arma contro di loro. Si sentiva in trappola, ma l’idea di ammettere il suo errore le sembrava una prova insormontabile. Non poteva tornare indietro, ormai tutto era stato deciso e il corso delle cose non si poteva fermare.
Continuava a scappare: senza rendersene conto assecondava i suoi impulsi di ragazzina costantemente bisognosa dell’approvazione dei grandi. Quando glielo feci notare si ribellò: «Non è affatto vero» disse. E con un nuovo voltafaccia aggiunse: «Parlerò alla mamma. Le spiegherò tutto. Solo che adesso ho imparato a non essere aggressiva e brutale. Glielo dirò a poco a poco che non mi voglio più sposare, glielo farò capire a modo mio…».
Tra Chiara e sua madre cominciò una schermaglia sotterranea con la quale ciascuna delle due donne cercava di tener lontana l’altra da una verità che le spaventava entrambe.
«Penso proprio che tu avessi ragione mamma» osò un giorno dopo un litigio telefonico col promesso sposo «Paolo non è affatto l’uomo giusto per me…»
«E invece io penso che avessi ragione tu» rispose l’altra impavida «è veramente un gran bravo ragazzo.»
Chiara non perdeva occasione per spargere i suoi «messaggi» che puntualmente venivano respinti al mittente.
«Basta, non voglio più sposarmi» esclamò un giorno esausta dopo un’interminabile prova in sartoria. «Ti prego mamma, fammi uscire da quest’incubo…»
«Ci siamo passate tutte» replicava serafica la donna «devi solo avere un po’ di pazienza…»
Un giorno rientrò a casa dall’Università sventolando eccitata dei moduli: «C’è la possibilità di una borsa di studio per una ricerca di sei mesi in Messico. In facoltà mi hanno detto che ho un buon punteggio… sarebbe bellissimo, vero ma’?».
«Ma tu l’hai già vinta cara, la tua borsa di studio…»
Intanto Chiara aveva cominciato a negarsi alle telefonate di Paolo: «Digli che non sono ancora a casa, inventati qualche scusa…». Di questo strano comportamento però nessuno le chiese la ragione.
Ogni volta che tornava nel mio studio, Chiara raccontava questi suoi blitz nella verità, come chi si aspetta una lode per essere stata brava. E non mancava mai di lamentarsi per l’ottusa insensibilità di sua madre che rifiutando di recepire i suoi accorati appelli la condannava a una vita infelice e senza amore.
Le citavo Confucio: «La via per uscire passa dalla porta, chissà perché nessuno la prende mai…».
Le importava poco constatare che i suoi messaggi erano ambigui e camuffati: certo, passava ai suoi genitori un’informazione secca: – non voleva più saperne di matrimonio – ma lei stessa faceva in modo che la notizia arrivasse travisata e dubbia. E ogni volta offriva una scappatoia, un contesto che poteva rendere innocua anche la più diretta delle sue dichiarazioni.
Non cessava di occuparsi dei preparativi per il matrimonio e, a vedere il suo impegno e la sua eccitazione, nessuno avrebbe potuto indovinare quello che le si agitava dentro. «Ma poi lo dico» sosteneva più con se stessa che con me «anche quando a scuola prendevo delle brutte pagelle, le presentavo ai miei quando non mi restava più tempo.»
Questa volta però aveva esagerato nell’attendere l’ultimo minuto.
Per tutto il giorno non ebbi altre notizie.
La domenica mattina, di buon’ora, il portiere mi portò una busta. Dentro c’era una lettera che diceva così:
Cara dottoressa, come ormai sa, quel fatale passo non l’ho fatto. Certo, avrei dovuto muovermi prima, ma, converrà con me, meglio tardi che mai. Non so se dal suo punto di vista quello che ho fatto è un successo o una sconfitta. A me pare che lei come psicologa abbia fatto un buon lavoro, tenendo conto che sono un soggetto difficile, ma forse lei penserà che la terapia non le sia riuscita tanto bene. Non lo so.Posso dirle che venerdì sera sono andata a letto senza sospetti, convinta che l’indomani tutto sarebbe andato secondo programma. E forse, se non mi fossi svegliata alle quattro di mattina in preda a un’angoscia insostenibile, ora sarei la signora Giusti. Per cercare di calmarmi mi sono alzata, la casa era immersa in un silenzio sterminato, c’erano doni di nozze dappertutto, ogni superficie era coperta di oggetti e questo mi rendeva le stanze irriconoscibili e ostili. In più – non lo vedevo ma sapevo che c’era – il mio abito da sposa era su un manichino in guardaroba; lo sentivo come una presenza viva e minacciosa, come un fantasma pronto a ghermirmi. Sono tornata in camera mia e il cuore mi pulsava in ogni millimetro di pelle. Senza formulare nella mente alcun pensiero, mi sono vestita, attenta a non fare il minimo rumore. Solo quando ho cercato nella mia borsa i soldi, i documenti e le chiavi della macchina ho capito quello che stavo facendo e subito l’ansia mi si è placata. Sono uscita di casa alle quattro e venti, con le scarpe in mano e l’impressione che comunque, anche con le scarpe ai piedi, non avrei fatto rumore perché camminavo un palmo sopra la terra tanto mi sentivo leggera e sollevata.Scappavo, è vero, ma per avvicinarmi a me, non per allontanarmene come avevo fatto fino a ieri. Quando le ho telefonato ero già in Svizzera. Ho telefonato anche a Paolo perché almeno gli fosse risparmiata l’umiliazione di aspettarmi inutilmente davanti all’altare. Lui era attonito e penso che lo sarà per un po’, ma poi si renderà conto dello scampato pericolo e forse mi ringrazierà. Faccio la spiritosa ma sono profondamente addolorata per ciò che ho fatto a lui e a tutti. So che lei non sarà contenta di me perché ancora una volta sono dovuta ricorrere a un gesto estremo per comunicare (e difendere) un mio desiderio. Ma questa volta ne sono stata consapevole e sono certa che questo è un autentico cambiamento. In questi giorni penso a ogni parola, a ogni momento della psicoterapia e mi sento forte. Per ora non posso ancora dirle dove andrò e se e quando tornerò. Ma quando avrò le idee più chiare sul mio futuro lei sarà la prima a saperlo. Le voglio bene.Chiara
Aveva ragione: io stessa non riuscivo a decidere se quel suo gesto era una crescita o ancora una volta una fuga.
Il giorno dopo venne la madre.
L’avevo sentita al telefono, affranta. «La prego dottoressa, anche se è contro le regole, mi permetta di parlarle un momento. Sono così confusa e disperata.»
L’idea che mi ero fatta della signora Perelli era quella che mi aveva dettato Chiara: una donna che per la sua forte personalità immaginavo anche alta, robusta e incombente. Mi trovai davanti invece una donna molto simile a sua figlia, elegante e minuta, dai modi formali e misurati.
«Lei ci ha capito qualcosa, dottoressa? Almeno lei ha capito?» mi domandò cercando di attenuare con un mesto sorriso il rimprovero che si avvertiva tra le sue parole. Ero decisa a lasciar parlare solo lei. «Non più di quanto abbia capito lei, signora» le dissi, consapevole di irritarla e deluderla.
«Ma di questo Paolo, per il quale ha fatto fuoco e fiamme, era innamorata o no?»
«Secondo lei lo era?»
Nei suoi occhi passò impercettibile la collera. Mi guardò con sfida, poi, esattamente come Chiara, abbassò gli occhi.
«Negli ultimi mesi diceva spesso che le sembrava di non amarlo più, ma come potevo immaginare che dicesse sul serio?»
«Che altro diceva?»
«Che non voleva sposarsi, che voleva andare a fare ricerca in Messico, che si sentiva come in un incubo…»
Smise di colpo di parlare, mentre sul suo viso si dipingevano stupore e angoscia. Era come se per la prima volta, quelle frasi, messe una dietro l’altra, acquistassero per lei un senso compiuto.
«Era tutto vero? Era proprio come diceva?» mi domandò sbalordita e sgomenta.
Ma della mia risposta non aveva più bisogno.
«Una volta mi ha detto che avevo ragione a pensare che Paolo non fosse l’uomo giusto per lei. Ho pensato che lo dicesse per mettermi alla prova, per vedere fino a che punto mi ero “convertita”. Lo faceva sempre anche da bambina: voleva fare le cose che io le proibivo, ma esigeva che le dessi il permesso; mi provocava per avere delle confer...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- Introduzione
- Dire e non dire: Ovvero il messaggio che contraddice se stesso
- Io penso che tu pensi…: Ovvero messaggi inviati e non ricevuti, o viceversa
- Non hai capito niente di me: Ovvero la storia infinita
- Strategie: Ovvero espedienti perché il messaggio non arrivi
- Parlar d’altro: Ovvero messaggi per nascondersi
- Qualcosa tra noi: Ovvero oggetti come messaggi
- Qualcuno tra noi: Ovvero persone come messaggi
- Parole come catene: Ovvero messaggi che paralizzano
- Senza parole: Ovvero messaggi inviati dal corpo
- Conclusione
- Ringraziamenti
- Bibliografia
- Copyright