Quando Gesù di Nazareth era inchiodato morente sulla croce, il Volcryn passò a un anno luce dalla sua agonia, diretto verso l’esterno.
Quando su Terra infuriavano le Guerre del Fuoco, il Volcryn transitò vicino a Vecchia Poseidonia, in un tempo in cui i suoi mari erano ancora senza nome e vuoti di pesci. All’epoca in cui la scoperta dei motori a propulsione stellare aveva trasformato le Nazioni Federate di Terra nell’Impero Federale, il Volcryn si era spinto sino ai confini della zona hrangan. I Hrangan non lo hanno mai saputo. Come noi, erano figli di piccoli mondi luminosi che ruotano, sparpagliati nello spazio, attorno ai loro soli, poco interessati e ancor meno informati riguardo a ciò che succedeva nelle profondità intermedie.
La guerra infuriò per mille anni e il Volcryn la attraversò, inavvertito e indenne, al sicuro in un posto dove nessun fuoco poteva mai bruciare. In seguito, l’Impero Federale fu distrutto e finì, e i Hrangan svanirono nell’oscurità del Collasso, ma per il Volcryn non era più buio di prima.
Quando Kleronomas partì da Avalon con la sua navicella da ricognizione, il Volcryn arrivò nel giro di dieci dei suoi anni luce. Kleronomas trovò molte cose, ma non il Volcryn. Né allora, né al suo ritorno su Avalon, il tempo di una vita dopo.
Quando io avevo tre anni e Kleronomas era ormai polvere, distante e morto come Gesù di Nazareth, il Volcryn passò vicino a Daronne. E in quel periodo tutti i sensitivi crey si sentivano strani e rimanevano a lungo seduti a guardare le stelle con occhi luminosi e scintillanti.
Quando raggiunsi l’età adulta, il Volcryn aveva oltrepassato Tara ed era anche uscito da Crey, continuando a puntare verso l’esterno.
E adesso io sono vecchia e continuo a invecchiare, e il Volcryn presto entrerà nel Velo del Tentatore, là dove pende come una nera foschia tra le stelle. E noi lo seguiamo, come sempre. Attraverso i neri abissi dove non va nessuno, attraverso il vuoto, attraverso il silenzio che si estende all’infinito, la mia Nightflyer e io gli diamo la caccia.
Stavano percorrendo lentamente il tubo trasparente che collegava la piattaforma orbitale all’astronave ormeggiata in attesa. In assenza di peso, dovevano procedere tirandosi prima con una mano e poi con l’altra.
Melantha Jhirl, l’unica a non apparire goffa nella caduta libera, si fermò a dare una rapida occhiata in basso al globo maculato di Avalon, una maestosa distesa di ambra e giada. Sorrise e riprese la sua lenta scivolata lungo il tubo, superando i compagni con disinvolta eleganza. Erano già saliti a bordo di un’astronave, tutti quanti, ma mai in quel modo. Generalmente le astronavi erano agganciate alla piattaforma, ma il veicolo spaziale che Karoly d’Branin aveva noleggiato per quella spedizione era troppo grande e la sua forma troppo anomala. Aveva una struttura che si sviluppava in verticale: nella parte superiore tre piccoli globi ovoidali affiancati, in quella inferiore due grandi sfere con in mezzo, a novanta gradi, un lungo cilindro, all’interno del quale erano alloggiati i motori, il tutto collegato da tubi. L’astronave era bianca e austera.
Melantha Jhirl fu la prima a entrare nella camera di decompressione. Gli altri arrivarono alla spicciolata finché il gruppo fu riunito: cinque donne e quattro uomini, tutti scienziati, ognuno con formazione e ambito di ricerca diversi. Il giovane e fragile telepate, Thale Lasamer, fu l’ultimo. Si guardò intorno nervosamente, mentre gli altri chiacchieravano in attesa che venisse ultimata la procedura di entrata. «Qualcuno ci sta spiando» disse.
Il portello esterno si era chiuso dietro di loro, il tubo trasparente era stato sganciato; a quel punto si aprì il portello interno a scorrimento. «Benvenuti sulla mia Nightflyer» li accolse una voce flautata dall’interno.
Però dentro non c’era nessuno.
Melantha Jhirl si avviò lungo il corridoio. «Salve» disse, guardandosi intorno con un’aria tra l’interrogativo e il divertito. Karoly d’Branin la seguì.
«Salve» rispose la voce vellutata. Proveniva da una griglia di comunicazione sotto un videoschermo buio. «Sono Royd Eris, il capitano. Lieto di rivederti, Karoly, e di dare il benvenuto a voi tutti.»
«Dove si trova?» domandò qualcuno.
«Nei miei alloggi, che occupano metà di questa sfera di supporto vitale» spiegò gentilmente la voce di Royd Eris. «Nell’altra metà ci sono una sala-biblioteca-cucina, due sezioni sanitarie, una cabina doppia e una singola piuttosto piccola. Sono spiacente, ma alcuni di voi dovranno montare delle amache nelle stive di carico. La Nightflyer era stata progettata come mercantile, non come nave passeggeri. Comunque ho aperto tutti i passaggi e i portelli di pertinenza, così le stive hanno aria, riscaldamento e acqua. Ho pensato che sareste stati più comodi così. La vostra attrezzatura e gli strumenti informatici sono stati collocati nelle stive, ma vi assicuro che c’è un sacco di spazio. Vi suggerisco di sistemarvi, ci vedremo più tardi per cena nella sala.»
«Lei ci raggiungerà ?» chiese la psico-psi, una donna lamentosa dai lineamenti affilati, di nome Agatha Marij-Black.
«In un certo senso sì» rispose Royd Eris.
Il fantasma comparve al momento del pranzo.
Una volta montate le amache, e sistemati accanto a ciascuna gli effetti personali, non avevano avuto difficoltà a trovare la sala. Era il locale più spazioso di quel settore dell’astronave. A un’estremità c’era una cucina attrezzata, ben fornita di provviste. Dalla parte opposta, davanti a una parete tappezzata di libri, cassette e chip di cristallo erano disposte diverse comode poltrone, due lettori e un porta-ologrammi. Al centro, un lungo tavolo apparecchiato per dieci.
Ad aspettarli, era pronto un pasto caldo e leggero. Gli accademici si servirono e presero posto a tavola, ridendo e chiacchierando tra loro, più disinvolti di quando erano saliti a bordo.
Il sistema gravitazionale era in funzione, il che contribuiva molto a metterli a proprio agio; l’orribile goffaggine di quel tragitto in assenza di peso fu presto dimenticata.
Alla fine tutti i posti furono occupati, tranne uno, a capotavola.
Il fantasma si materializzò lì.
Le conversazioni si bloccarono.
«Salve» disse lo spettro, che era la vivida immagine di un giovane snello, con gli occhi chiari e i capelli bianchi. Indossava abiti fuori moda da almeno vent’anni: una camicia morbida con le maniche a sbuffo, color azzurro pastello, e un’aderente calzamaglia bianca. I loro sguardi lo trapassavano, ma gli occhi di lui non sembravano vederli.
«Un ologramma» esclamò Alys Northwind, la xenotecnica piccola e tarchiata.
«Royd, non capisco» disse Karoly d’Branin, fissando la figura evanescente. «Che cosa significa? Perché ci proietti un’immagine? Non intendi raggiungerci di persona?»
Il fantasma accennò un sorriso e alzò un braccio. «I miei appartamenti sono al di là di quella paratia» spiegò. «Mi dispiace, ma non ci sono porte o passaggi tra le due metà della sfera. Passo la maggior parte del tempo da solo, e la privacy è importante per me. Spero che capirete e rispetterete i miei desideri. Sarò comunque un ospite premuroso. Qui in sala può arrivarvi la mia immagine. Altrove, se avete bisogno di qualcosa, se volete parlare con me, basta che usiate un comunicatore. Adesso, riprendete pure a mangiare e a chiacchierare. Ascolterò con piacere. È da tanto tempo che non ho passeggeri a bordo.»
Ci provarono, ma quel fantasma a capotavola gettava una lunga ombra, e il pranzo si svolse frettolosamente, in un’atmosfera carica di tensione.
Royd Eris osservava i suoi passeggeri fin da quando la Nightflyer era entrata nell’iperspazio.
Dopo qualche giorno, la maggior parte degli accademici si era abituata alla voce disincarnata proveniente dai comunicatori e allo spettro olografico nel salone, ma solo Melantha Jhirl e Karoly d’Branin sembravano realmente a proprio agio in sua presenza. Gli altri sarebbero stati ancora più disturbati se avessero saputo che Royd era sempre con loro. Sempre e dovunque, lui li spiava. Aveva occhi e orecchie perfino nelle sezioni sanitarie.
Li guardava lavorare, mangiare, dormire, copulare; ascoltava instancabile i loro discorsi. Dopo una settimana li conosceva, tutti e nove, e aveva cominciato a carpire i loro piccoli, miseri segreti.
La cibernetica, Lommie Thorne, parlava con i computer e sembrava preferire la loro compagnia a quella degli umani. Era intelligente e veloce, con un viso mobile, espressivo e un corpo minuto da ragazzino; gli altri per lo più la trovavano attraente, ma lei non amava il contatto fisico. Fece sesso una volta sola, con Melantha Jhirl. Indossava camicie di liscio tessuto metallico, e aveva un impianto nel polso sinistro che le permetteva di interfacciarsi direttamente con il computer.
Lo xenobiologo, Rojan Christopheris, era un uomo scontroso, polemico, cinico, che tratteneva a stento il proprio disprezzo per i colleghi, un bevitore solitario. Era alto, curvo, di aspetto sgradevole.
I due linguisti, Dannel e Lindran, in pubblico si comportavano come una coppia, sempre mano nella mano e pronti ad aiutarsi vicendevolmente. In privato litigavano come furie. Lindran aveva uno spirito mordace e amava colpire Dannel nei suoi punti deboli, con battute sulla sua competenza professionale. Facevano molto sesso, tutti e due, ma non insieme.
Agatha Marij-Black, la psico-psi, era un’ipocondriaca tendente a cupe depressioni, che subirono un peggioramento negli spazi angusti della Nightflyer.
La xenotecnica Alys Northwind mangiava in continuazione e non si lavava mai. Sotto le sue unghie squadrate c’era un perenne strato nero di sporcizia, e nelle prime due settimane di viaggio indossò sempre la stessa tuta, togliendola solo per fare sesso, e anche allora per poco.
Il telepate Thale Lasamer era fragile di nervi e umorale, spaventato da tutti quelli che gli stavano intorno ma incline ad accessi di arroganza durante i quali scherniva i compagni usando informazioni estrapolate dalle loro menti.
Royd Eris li osservava tutti, li studiava, viveva con loro e tramite loro. Non tralasciava nessuno, nemmeno quelli che gli erano più odiosi. Nelle due settimane in cui la Nightflyer era stata immersa nel flusso turbinoso della propulsione stellare, due passeggeri in particolare avevano suscitato il suo interesse.
«Più di tutto, voglio capire perché esistono» gli rivelò Karoly d’Branin durante una notte artificiale, due settimane dopo la loro partenza da Avalon.
Il fantasma luminescente di Royd sedeva di fianco a d’Branin nella sala buia, guardandolo bere una cioccolata dolceamara. Gli altri stavano tutti dormendo. Giorno e notte non hanno senso su una nave spaziale, ma sulla Nightflyer era mantenuta la regolare alternanza di luce e di buio, e la maggior parte dei passeggeri vi si atteneva. Il vecchio d’Branin, amministratore, medico generico e capo della missione, faceva eccezione: aveva orari tutti suoi, preferendo il lavoro al sonno, e soprattutto amava parlare della sua ossessione prediletta, i Volcryn, ai quali dava la caccia.
«È altrettanto importante scoprire se esistono davvero, Karoly» ribatté Royd. «Sei proprio sicuro dell’esistenza di quegli alieni?»
«Sì» rispose Karoly d’Branin, ammiccando visibilmente. Era un uomo ben proporzionato, basso e snello, con i capelli grigio ferro ben pettinati e la tunica sempre meticolosamente in ordine, ma l’espansività dei suoi gesti e gli entusiasmi cui era incline smentivano quell’apparenza di sobrietà . «Ed è abbastanza. Se anche altri fossero altrettanto sicuri, avremmo una flotta di astronavi di ricerca, invece della tua piccola Nightflyer.» Bevve un sorso di cioccolata e sospirò soddisfatto. «Royd, tu conosci i Nor T’alush?»
Il capitano non aveva mai sentito quel nome, ma impiegò un attimo a consultare la sua libreria elettronica. «Una razza aliena dall’altra parte dello spazio umano, oltre i pianeti fyndii e damoosh. Forse leggendaria.»
D’Branin ridacchiò. «No, no, amico, la tua libreria è obsoleta, la prossima volta che passi da Avalon la devi aggiornare. Non sono leggende, no, è una realtà , anche se lontana. Abbiamo poche informazioni su di loro, ma siamo certi che esistono, anche se magari né tu né io li incontreremo mai. Tutto è partito da loro.»
«Racconta» disse Royd. «Il tuo lavoro mi interessa, Karoly.»
«Stavo codificando delle informazioni nei computer dell’Accademia, un pacchetto appena arrivato da Dam Tullian dopo vent’anni standard di viaggio. Una parte riguardava il folclore nor t’alush. Non sapevo quanto tempo ci avesse messo ad arrivare su Dam Tullian, né per quali vie, ma non aveva importanza: il folclore è comunque senza tempo, e quel materiale era affascinante. Sapevi che la prima laurea che ho preso è stata in xenomitologia?»
«No. Ti prego, continua.»
«La storia dei Volcryn faceva parte dei miti dei Nor T’alush. Mi impressionò: una razza di senzienti provenienti da qualche misteriosa zona al centro della galassia, che navigano verso l’Orlo e si dirigono, a quanto si presume, proprio nello spazio intergalattico, mantenendosi però sempre nelle profondità interstellari, senza scendere mai su un pianeta e di rado avvicinandosi a meno di un anno luce.» Gli occhi grigi di d’Branin brillavano, e mentre parlava le sue mani si muovevano nell’aria, come per abbracciare l’intera galassia. «E senza un propulsore stellare, Royd, questa è la cosa veramente stupefacente! Fare un viaggio del genere con astronavi che si muovono a una frazione della velocità della luce! Quel dettaglio mi osses...