In una larga via di Mosca, a meno di duecento metri dalla stazione Leningrado, al primo piano di un orrendo albergo tutto fronzoli costruito da Stalin nello stile noto ai moscoviti come “Impero durante la peste”, la prima Fiera dell’Audio per l’insegnamento della lingua e la diffusione della cultura inglese indetta dal British Council si stava trascinando penosamente verso il termine. Erano le cinque e mezzo di un mutevole pomeriggio estivo. Dopo una serie di violenti acquazzoni, un sole illusorio sfolgorava nelle pozzanghere e sollevava vapori dal marciapiede. Tra i passanti, i più giovani indossavano jeans e scarpe di tela, mentre gli anziani giravano ancora imbacuccati.
Il salone che il British Council aveva preso in affitto non era lussuoso, ma neppure adeguato alle circostanze. Io l’ho visto. Non molto tempo fa, trovandomi a Mosca per tutt’altre faccende, munito di passaporto diplomatico, avevo percorso in punta di piedi la grande scalinata vuota e mi ero fermato nella perenne penombra che avvolge le sale da ballo nelle ore morte. Con le sue tozze colonne brune e i suoi specchi dorati, quel salone sembrava più adatto all’ultimo viaggio di un transatlantico prossimo al naufragio che non al lancio di una iniziativa culturale. Sul soffitto proletari ringhianti salutavano Lenin col pugno chiuso. Il loro vigore non faceva che contrastare con le verdi scansie scheggiate su cui erano esposte le musicassette di Winnie the Pooh o del Corso accelerato di inglese per autodidatti. Le cabine d’ascolto rivestite di iuta, recuperate qua e là dal governo locale e prive di molte delle funzioni fondamentali, offrivano uno spettacolo triste quanto una fila di sdraio sulla spiaggia quando piove. Gli stand degli espositori, ammassati sotto una loggia, risultavano blasfemi come banchetti per le scommesse in un santuario.
Comunque, bene o male, lì una fiera c’era stata. Erano venuti dei visitatori – che a Mosca non mancano mai, vuoi per curiosità, vuoi per cortesia, o per parlare con degli Occidentali, oppure tanto per ingannare il tempo. Dovevano soltanto avere i documenti in regola per passare il vaglio degli scagnozzi in giacca di pelle all’ingresso. Ora, arrivati alla quinta e ultima sera, era in corso un gran cocktail d’addio in onore degli espositori, cui si poteva accedere solo su invito. Esponenti della piccola nomenklatura della burocrazia culturale si raccoglievano in un gruppetto sotto il lampadario: le signore con acconciature ad alveare e abiti a fiori concepiti per figure ben più esili, gli uomini snelliti da completi di foggia francese che rivelavano la possibilità di accedere a negozi privilegiati. Solo gli ospiti inglesi, in smorte gradazioni di grigio, si attenevano alla monotonia dell’austerità socialista. Il brusio cresceva. Un drappello di donne in grembiule distribuiva panini imbottiti e vino bianco a temperatura ambiente. Un diplomatico inglese, un funzionario di grado elevato ma non proprio l’ambasciatore, stringeva le mani più insigni e si diceva “incantato”.
Solo Niki Landau, tra i presenti, non prendeva parte ai festeggiamenti. Chino sul tavolo del suo stand ormai vuoto, andava spulciando gli ordini ricevuti e verificando il rapporto tra spese e ricavi. Era infatti buona norma di Landau non concedersi alcuno svago se non dopo aver chiuso i conti della giornata.
Con la coda dell’occhio, però, non perdeva di vista una donna – che al suo sguardo fuggevole si riduceva a una chiazza azzurra –, una russa che aveva deciso di ignorare. “Guai in vista, alla larga” ripeteva tra sé, continuando a fare i conti.
L’atmosfera festiva non aveva contagiato Niki Landau, per quanto fosse un tipo festaiolo. Tanto per cominciare, nutriva una profonda avversione per i funzionari britannici, sin da quando avevano rispedito suo padre in Polonia. Sul popolo inglese invece, come mi confidò, non aveva nulla da ridire. Lui stesso si considerava inglese e nutriva per la sua patria d’adozione la rigida deferenza tipica del neofita. Quanto ai funzionari e tirapiedi del Foreign Office, era un altro discorso. Più boriosi erano, più si lasciavano andare ad ammiccamenti e risatine e inarcavano le loro stupide sopracciglia, e più lui li detestava e pensava a suo padre. E poi, se avesse potuto fare a modo suo, non sarebbe neppure venuto lì a quella fiera. Sarebbe stato a Brighton, con la sua nuova amichetta Lydia, in un grazioso alberghetto che è l’ideale per portarci le amichette.
«Meglio aspettare la Fiera del Libro di Mosca, in programma per settembre» aveva consigliato ai suoi clienti. «Vedi, Bernard, i russi amano i libri e diffidano invece degli audiovisivi. Non sono in sintonia con certe novità. Alla Fiera del Libro faremo affari d’oro. Ma se andiamo alla Fiera dell’Audio sarà la nostra morte.»
Ma i clienti di Niki Landau erano giovani e ricchi, e non credevano nella morte. «Niki, ragazzo mio» aveva replicato Bernard, girandogli intorno e posandogli una mano sulla spalla, cosa che Landau detestava, «al giorno d’oggi, bisogna sventolare la bandiera. Siamo o non siamo patrioti, Niki? Lo siamo, proprio come te. Ecco perché siamo una società offshore. Con la glasnost’, adesso, l’Unione Sovietica è come il monte Everest per l’industria audio. E tu, Niki, devi portarci in cima. Altrimenti troveremo qualcun altro che lo farà per noi. Qualcuno più giovane, Niki. Qualcuno che abbia classe e iniziativa.»
Di iniziativa, Landau ne aveva ancora. Quanto a classe, era il primo lui ad ammetterlo, meglio lasciar perdere. Lui era più che altro una “sagoma”, e si piaceva così. Un’intraprendente sagoma polacca alta quanto un succo di frutta, e ne era fiero. Era “il vecchio Nik”, la faccia di bronzo più sfacciata tra i commessi viaggiatori dell’Europa dell’Est, capace – come lui stesso si vantava – di vendere foto porno a un convento della Georgia o una lozione per capelli a un ungherese calvo. Era Landau, l’acrobata formato mignon della camera da letto, che portava i tacchetti rinforzati per dare al proprio corpo slavo quello slancio inglese che tanto ammirava, e che indossava solo vistosi completi firmati, di quelli che urlano “eccomi qua!”. Quando il vecchio Nik allestiva il suo stand a una fiera internazionale, assicurano i suoi colleghi, potevi quasi sentire il campanaccio del venditore ambulante polacco.
E il piccolo Landau stava allo scherzo. «Ragazzi, sarò anche un tappo, ma tocca a me stappare lo champagne» diceva, tutto fiero, e ordinava da bere per l’intera compagnia. E così faceva ridere gli altri con lui, anziché di lui. Dopodiché tirava fuori un pettinino e, specchiandosi in un quadro alla parete o in un’altra qualsiasi superficie riflettente, si ravviava con tutte e due le minuscole mani la nerissima chioma per darsi un aspetto più virile e prepararsi così a una nuova conquista. «Chi è quella deliziosa creatura che se ne sta sola soletta laggiù?» diceva agli amici, con quel suo abominevole accento che era un misto di polacco e di cockney londinese. «Salve, dolcezza! Che ci fai tutta sola in una sera come questa?» Una volta su cinque faceva centro. E questa era per Landau una percentuale accettabile, purché, naturalmente, non si stancasse di provarci.
Quella sera però, a Mosca, Landau non pensava a fare centro, e neppure a provarci. Quello che pensava era che ancora una volta aveva sudato sette camicie un’intera settimana solo per un tozzo di pane o, come disse a me, usando una metafora più colorita, per un “bacio di mignotta”. E che ormai, alla sua età, andare a una fiera, qualsiasi fiera – del Libro, dell’Audio o di vattelapesca –, gli costava più fatica di quanto non volesse ammettere a se stesso, e altrettanto valeva per le donne. E quello che ne ricavava in cambio era sempre troppo poco. Pensava anche che il suo ritorno a Londra, programmato per l’indomani, non poteva avere un tempismo migliore. E che se quella russa vestita d’azzurro non la smetteva di insinuarsi nel suo campo visivo e distrarre la sua attenzione, mentre lui cercava di chiudere i conti, prima di mettere su il sorriso da festa e unirsi alla folla giubilante, gli avrebbe detto nella sua lingua qualcosa di cui si sarebbero pentiti entrambi per tutta la vita.
Che si trattasse di una russa era fuor di dubbio. Sai, Harry, solo una russa poteva andare in giro con la sua sporta d’emergenza di plastica appesa al braccio pronta per quell’acquisto occasionale che rappresenta il trionfo della quotidianità sovietica – anche se di solito quelle borse sono di corda. E poi, solo una russa poteva essere tanto ficcanaso da appiccicarsi al suo vicino per sbirciare i suoi conti. E poi quale altra donna avrebbe attaccato bottone schiarendosi la voce con una specie di grugnito – cosa che, in un uomo, a Landau faceva pensare a suo padre quando si annodava i lacci delle scarpe e, in una donna, alla camera da letto?
«Scusi, signore. È lei il rappresentante della Abercrombie & Blair?» gli chiese la russa.
«No, cara» rispose lui, senza sollevare lo sguardo. Lei gli si era rivolta in inglese, e Landau aveva risposto nella stessa lingua, come faceva sempre in questi casi.
«Non è Mr Barley?» insistette quella.
«Macché Barley. Mi chiamo Landau.»
«Ma questo è lo stand di Mr Barley.»
«No, non è lo stand di Mr Barley. Questo è il mio stand. Lo stand della Abercrombie & Blair è quello qui accanto.»
Senza accennare a sollevare la testa, Landau agitò la matita verso sinistra, indicando lo stand vuoto dall’altro lato della parete divisoria con un’insegna a caratteri verdi e oro su cui si leggeva il nome dell’antica casa editrice Abercrombie & Blair, Norfolk Street, Londra.
«Ma non c’è nessuno» disse la donna. «Anche ieri lo stand era vuoto.»
«Esatto. Non c’è nessuno» ribatté Landau con un tono che non ammetteva repliche. E poi si chinò con ostentazione ancora maggiore sul suo libro mastro, in attesa che la chiazza azzurra all’angolo dell’occhio sparisse. Il che era piuttosto sgarbato, da parte sua, lo sapeva, e l’insistenza di quella donna lo faceva sentire ancora più maleducato.
«Ma dov’è, allora, Scott Blair? Dov’è quel tale che chiamano Barley? Devo parlare con lui. È molto urgente.»
A quel punto Landau sentiva già di odiare quella donna con un’irragionevole ferocia.
«Mr Scott Blair,» replicò scattando a guardarla dritto in faccia «noto agli amici come Barley, è awol, signora. Significa “assente ingiustificato”. La sua casa editrice ha preso in affitto uno stand, sì. Ma non sono venuti. E Mr Scott Blair, se vuole saperlo, è il presidente, direttore, governatore generale e, per quello che ne so, dittatore a vita della casa editrice…» Ma qui, incontrando lo sguardo della sua interlocutrice, Niki Landau cominciò a perdere il suo piglio. «Senti, cara, io sono qui per sbarcare il lunario, non faccio le veci di Mr Barley Scott Blair, per quanto gli possa volere bene.»
E qui s’interruppe, poiché la stizza momentanea lasciò il posto a una cavalleresca premura. La donna stava tremando. Non soltanto le tremavano le mani che reggevano la sporta d’emergenza, ma tutto il suo corpo era scosso da tremiti. La scollatura del vestito sembrava quasi rimbalzarle sul collo, mentre la sua pelle era diventata persino più bianca del colletto di pizzo. E tuttavia serrava le mascelle con estrema tenacia e la sua espressione incuteva soggezione.
«La prego, signore. Dovrebbe essere tanto gentile da aiutarmi» disse, come se non gli lasciasse altra scelta.
Ora, sappiate che Landau si vantava di essere un profondo conoscitore dell’animo femminile. Era un’altra delle sue irritanti vanterie, ma non del tutto priva di fondamento. «Le donne sono il mio hobby, il mio oggetto di studio e la mia grande passione, Harry» mi aveva confidato con la solennità di chi presta giuramento alla massoneria. Non era in grado di dire quante ne aveva avute, ma si trattava di un numero a due zeri. E nessuna gli aveva mai dato motivo di pentirsene. «Io gioco pulito e scelgo bene, Harry» aveva detto picchiettandosi la tempia. «Mai scenate, mai sfuriate isteriche né matrimoni sfasciati.» Quanto ciò fosse vero, nessuno può dirlo, e neppure io, ma non c’è dubbio che l’istinto che l’aveva sempre guidato nelle sue scorribande amorose venne in suo soccorso quel giorno, quando si trattò di farsi un’idea della russa.
Era sincera. Intelligente. Determinata. E aveva paura, sebbene i suoi occhi neri fossero illuminati da un chiaro senso dell’umorismo. E poi aveva quella rara qualità che Landau, nel suo fiorito linguaggio, era solito definire “la classe che solo la natura può elargire”. Insomma, aveva grazia e forza allo stesso tempo. E siccome nei momenti di crisi i nostri pensieri non seguono un ordine logico ma ci investono a ondate, spinti dall’esperienza e dall’intuito, Landau avvertì tutte queste cose in un solo momento, e ne trasse le sue conclusioni prima ancora che la donna riprendesse a parlare.
«Un mio amico sovietico» disse, dopo avere ripreso fiato «ha scritto un’opera letteraria di grande pregio. Si tratta di uno straordinario romanzo che contiene un messaggio di estrema importanza per l’intera umanità.»
Tacque, come prosciugata.
«Un romanzo» ripeté meccanicamente Landau. Poi, lasciandosi trascinare: «Com’è che s’intitola, cara?». La sua forza, stabilì Landau, non era dovuta all’incoscienza o alla follia, ma a una profonda convinzione. «E qual è questo messaggio, se il titolo non c’è?»
«Parla dell’importanza dei fatti rispetto alle parole. Respinge il gradualismo della perestrojka. Richiede azioni concrete, non solo un’operazione di cosmesi.»
«Bello» disse Landau, ammirato.
Quella donna, Harry, parlava come mia madre: a testa alta e guardandoti dritto negli occhi.
«Nonostante la glasnost’ e il presunto liberalismo della nuova linea di governo, il romanzo di questo mio amico non può ancora uscire in Unione Sovietica» continuò. «Mr Scott Blair si è impegnato a pubblicarlo in Inghilterra con la massima riservatezza.»
«Mia cara,» le disse Landau con gentilezza, facendosi più vicino a lei «se il romanzo di questo tuo amico venisse pubblicato dalla Abercrombie & Blair, puoi stare sicura che resterà totalmente segreto.»
Rispose così un po’ per amore di battuta e un po’ perché l’istinto gli consigliava di rendere meno inamidata quella loro conversazione, ed evitare così di dare nell’occhio, nel caso ci fossero dei curiosi. Che avesse o no capito la battuta, la donna sorrise a sua volta: un improvviso sorriso a trentadue denti, quasi come una vittoria sulle proprie paure. «Allora, Mr Landau, se lei ama la pace, prenda questo manoscritto e lo porti a Mr Scott Blair in Inghilterra. A lui e a nessun altro. È una prova di fiducia.»
Quello che accadde dopo si consumò in fretta, come quando due persone si scambiano della roba di contrabbando all’angolo di una strada. Landau lanciò innanzi tutto una rapida occhiata alle spalle della donna, per la sicurezza di entrambi. Sapeva per esperienza che quando i ruski tendono una trappola piazzano sempre qualche “palo” nei paraggi. Ma la sala era vuota, l’area degli stand sotto la loggia era ormai immersa nell’oscurità e tutti i partecipanti al cocktail si erano buttati sul buffe...