Mi chiamarono odisseo perché così aveva stabilito mio nonno Autolico, re di Acarnania, giunto in visita al palazzo un mese dopo la mia nascita. E presto mi resi conto che gli altri avevano un padre e io non l’avevo. La sera, prima di addormentarmi, chiedevo a Euriclea, la mia nutrice: «Dov’è mio padre?».
«È partito con altri re e guerrieri alla ricerca di un tesoro in un luogo lontano.»
«E quando torna?»
«Non lo so. Non lo sa nessuno. Quando si parte per mare non si sa quando si torna. Quella del marinaio è una vita rischiosa. Il mare nasconde mostri terribili e creature misteriose che vivono negli abissi e salgono alla superficie nelle notti senza luna…»
«Perché è andato a cercare un tesoro?»
«Perché ci sono andati tutti i guerrieri più forti di Acaia. Tu sei un principe, e devi capire. Poteva Laerte, tuo padre, mancare? Un giorno i cantori racconteranno questa storia e i nomi degli eroi che vi hanno preso parte saranno ricordati in eterno.»
Io annuivo con il capo come per approvare ma non comprendevo del tutto perché si dovesse partire, rischiare la vita solo perché qualcuno un giorno cantasse di te narrando che avevi avuto il coraggio di partire e di rischiare la vita.
Una sera domandai a mia madre, la regina Anticlea, che mi parlasse di lui.
«Vorrei che fossi tu a raccontarmi una storia, quella che vuoi» le chiesi. «Una cosa che ha fatto mio padre. Raccontami di quando lo hai incontrato la prima volta.»
Lei sorrise e si sedette vicino a me accanto al letto: «Accadde quando mio padre lo invitò a una battuta di caccia. I nostri regni erano confinanti, quello di Laerte a occidente sulle isole, quello di mio padre in terraferma. Era un modo per fare causa comune, per allearci contro invasori esterni. Fui fortunata. Poteva capitarmi di sposare un vecchio grasso e calvo: tuo padre invece era bello e forte; aveva soltanto otto anni più di me. Solo, non sapeva cavalcare. Fu mio padre a insegnargli e gli regalò anche un cavallo».
«Tutto qui?» le domandai. Immaginavo avesse dovuto compiere imprese ben più ardite per conquistarla.
«No» rispose, «ma non posso dirti altro. Un giorno, forse. Quando potrai capire.»
Passò un altro anno senza che giungessero notizie del re, ma avevo un maestro, ora, che sapeva tutto e mi aveva raccontato di mio padre. Avventure di caccia, incursioni, battaglie contro i pirati: storie più belle di quelle che mi narrava mia madre. Lui, il maestro, si chiamava Mentore. Era un giovane con gli occhi scuri e una barba nera che lo faceva sembrare più grande di quel che non fosse. Sapeva rispondere a qualunque domanda tranne che all’unica che mi interessava: “Quando torna mio padre?”.
Nell’attesa, grazie a quei racconti, colmavo un vuoto, e davo forma alla figura di mio padre nella mia immaginazione.
Laerte tornò l’anno dopo, al finire della primavera. La notizia arrivò al palazzo alle prime luci dell’alba creando grande scompiglio. La nutrice fece subito preparare un bagno per la regina, poi l’aiutò a vestirsi e a pettinarsi e le portò la scatola dei gioielli perché scegliesse quelli che più le piacevano. A me fece indossare l’abito lungo di quando c’erano visite, rosso con due bande dorate.
«Non ti sporcare, non giocare nella polvere, non giocare con i cani…» si raccomandava la nutrice.
«Posso stare sotto al portico?»
«Sì, se non ti sporchi.»
Mi sedetti sotto il portico. Mentore giunse in quel momento, afferrò il bastone e si avviò lungo il sentiero che conduceva al porto. Mi guardai intorno per assicurarmi che nessuno guardasse dalla mia parte e gli corsi dietro, raggiungendolo nei pressi della fontana.
«Dove vorresti andare?» mi chiese.
«Con te. A vedere mio padre.»
«Se Euriclea si accorge che non ci sei più impazzisce e poi tua madre la farà punire e anche con un certo piacere…» Mentore si fermò rendendosi conto che ciò che aveva in mente non poteva essere detto a un bambino di sei anni.
«Mia madre è gelosa di Euriclea, la nutrice, vero?»
Mentore non credeva a quello che stava ascoltando: «E sai che cosa vuol dire, “gelosa”?».
«Lo so ma non riesco a spiegarlo… ecco, geloso è quando una cosa la vuoi solo per te.»
Mentore sorrise prendendomi per mano. «Avrai tempo per capire meglio certe cose. Vieni, andiamo.»
Il sole era già alto quando arrivammo al porto. La nave reale era stata avvistata, quando era ancora al largo, per lo stendardo che issava a poppa, e molte imbarcazioni le erano andate incontro scortandola poi festosamente fino all’approdo.
«Eccolo» disse Mentore. «Quell’uomo con il mantello azzurro e la lancia in mano è il re Laerte: tuo padre.»
A quelle parole mi divincolai liberando la mano e mi misi a correre veloce giù per il pendio in direzione del molo. Corsi a perdifiato finché non mi trovai davanti al guerriero con il mantello azzurro. Lì mi fermai e restai a guardarlo ansimando. Occhi colore del mare.
Mi riconobbe e mi prese in braccio.
«Sei mio padre, vero?»
«Sì, sono tuo padre. Ti ricordi ancora di me?»
«Sì. Non sei cambiato» mentii. Non volevo dirgli che era solo per il colore degli occhi che l’avevo riconosciuto.
«Tu invece sei cambiato molto» rispose lui, «parli come un adulto e corri veloce: ti ho osservato mentre scendevi dal fianco del monte.»
Un servo portò un cavallo, l’unico sull’isola, per il re, e Laerte montò facendomi salire in groppa, davanti a sé. Dietro si formò un corteo: i suoi amici, la guardia del corpo, i nobili, i rappresentanti del popolo, i soprintendenti alle sue proprietà e al suo bestiame. A mano a mano che il corteo avanzava si affollava gente lungo il sentiero che saliva serpeggiando verso il palazzo. Mentore camminava a fianco del re a cavallo, in una posizione di riguardo, segno che il sovrano lo teneva in grande considerazione.
I festeggiamenti si protrassero fino a tardi ma io fui messo a letto subito dopo il tramonto. Rimasi sveglio a lungo per gli schiamazzi, le risate e il vociare confuso che venivano dalla sala del banchetto.
Poi si fece silenzio, le lucerne proiettarono ombre sfuggenti sui muri, le porte delle camere si aprirono e si chiusero con rumore di chiavistelli. A notte fonda non ero ancora veramente addormentato ma in dormiveglia, eccitato per tutti i suoni, i canti e le grida che avevo udito. Dormivo un sonno leggero e fui destato del tutto dal rumore di una porta che si apriva. Scivolai nel corridoio al buio e vidi un uomo entrare nella stanza di Euriclea, la nutrice. Era mio padre. Capii che avevo visto qualcosa che non avrei dovuto, e tornai di fretta a letto, rintanandomi sotto le coperte. Il battito del mio cuore mi tenne desto ancora per un poco, poi, finalmente, s’acquetò e mi addormentai.
Fu Mentore a svegliarmi l’indomani. «È giorno. Vai a lavarti. Oggi abbiamo molte cose da fare e tuo padre avrà voglia di stare con te.»
«Mio padre ha dormito prima con mia madre e poi con Euriclea…»
«Occupati dei fatti tuoi. Tuo padre è il re e fa quello che vuole.»
Mi lavai e poi mi rivestii. Mentore mi mostrò una rupe che sovrastava il sentiero a cento passi di distanza: «Vai a sederti lassù. Tuo padre è andato a caccia prima dell’alba. Passerà di là al ritorno. Ti vedrà e si fermerà a parlare con te».
Obbedii e m’incamminai solo lungo il sentiero, e una volta giunto sulla sommità della rupe mi sedetti a guardare in basso i servi e i contadini, i pastori con le pecore e le capre che andavano al lavoro mentre la luce del sole illuminava, a ogni momento che passava, anche le valli più profonde. Mi misi a giocare con dei sassetti colorati che tenevo sempre nella tasca della veste. Li gettavo e li raccoglievo, li gettavo ancora e ogni volta osservavo come si erano disposti. Mai nello stesso modo. Pensai: “Quante volte dovrei gettare i sassolini perché cadano nella stessa posizione della prima? Basterebbe tutta la vita?”.
«Giochi da solo?» domandò la voce di mio padre dietro di me, sorprendendomi.
«Non ho altri con cui giocare» risposi.
«E che cosa ti aspetti quando getti le tue pietre?»
«Predicono il futuro.»
«E cosa dicono?»
«Anche io farò un lungo viaggio. Come te.»
«Questo è facile da predire. Abiti in un’isola che adesso ti sembra grande. Fra un po’ ti sembrerà piccola.»
«Andrò dove non è mai arrivato nessuno.» Guardai negli occhi verde mare di mio padre: «Tu fin dove sei arrivato?».
«Fin dove il mare finisce contro le montagne. Sono così alte, sempre coperte di neve. La neve genera fiumi che scendono rombando e spumeggiando fino al mare.»
«E lì avete trovato il tesoro?»
«Chi te lo ha detto?»
«La nutrice.»
Mio padre chinò il capo. Aveva qualche filo bianco fra la chioma nera.
«Sì» replicò, «ma tu vuoi la verità o ciò che narreranno i cantori come Femio?»
Mi era difficile rispondere. La verità mi interessava davvero? E perché mai? Non è una cosa per i bambini. Basta raccontarla, una cosa, e diventa vera. «Raccontami, padre, dimmi dei tuoi compagni: è vero che sono i più grandi eroi di Acaia?»
«Sicuro» sorrise. «Eracle» disse allargando le braccia, «è l’uomo più forte del mondo. Quando flette i muscoli fa paura. Nessuno può battersi con lui. La sua arma preferita è una clava, non usa armi di metallo. Può abbattere un toro con quella clava. A volte, da solo, tirava la nave a riva legando il canapo a un tronco di ulivo… Lo sai? Ha tagliato lui il pino con cui è stata costruita la nave. Un tronco gigantesco che dodici uomini non riuscivano ad abbracciare. Poi il mastro d’ascia vi ha modellato la chiglia con l’accetta e l’ha scavato dentro con la zappa. E le ha anche dato il nome: Argo, perché è velocissima.»
Non ricordo quanto tempo restammo su quella roccia a guardare il lento moto delle ombre e delle luci sui profili della nostra isola. Ascoltavo attento, incantato dalla voce di mio padre. Quel suono mi avrebbe accompagnato per tutta la vita.
E continuai ad ascoltarlo quando finalmente mi raccontò del tesoro trovato, dei vasi colmi d’oro e del vello dorato che scintillava sotto la luce della luna. E ancora della battaglia feroce per impossessarsi di quelle meraviglie, combattuta al fianco della principessa selvaggia, figlia del re Eeta, che aveva tradito il suo popolo per amore di Giasone, il loro capo. Lo ascoltai rapito mentre mi descriveva la spaventosa natura dei nemici, insensibili al dolore, a cui si opponeva il coraggio di Giasone stesso, la forza sovrumana di Eracle, l’abilità nella lotta di Castore e Polluce, e la velocità di Zete e Calais, i gemelli del vento. Potevo sentire il clangore delle armi, l’urto dei colpi e le grida dello scontro; potevo vedere le scintille del metallo e del fuoco che illuminavano le tenebre, i volti dei guerrieri tesi nello sforzo. Avvertivo la paura della morte e al contempo l’eccitazione della sfida che faceva ribollire il sangue. Quando mio padre e i suoi compagni alla fine vinsero, fu come se fossi accanto a loro, in mezzo a loro, a gioire. Assieme a loro risalii sulla grande nave Argo, e da lì vidi, come se fossi presente, la principessa selvaggia che si lavava in mare dalla polvere e dal sangue della lotta per poi arrampicarsi sulla cima fino alla prua. L’urlo più alto e acuto fu il suo, simile a quello di un falco che spiega le ali.
Poi il racconto terminò. Mio padre mi chiese qualcosa, ma io non lo udii.
Ero rimasto a combattere nell’oscurità o forse sulla nave a guardare la sponda che si allontanava.
«A che pensi?» domandò ancora mio padre prendendomi per mano.
«Penso che è così che deve vivere un uomo. Come te che corri sul mare e combatti e conquisti tesori.»
«Sì, forse è così che uomini come noi devono vivere ma oggi sono stato assieme a te e abbiamo parlato a lungo guardando la luce e l’ombra passare sulla nostra terra. Anche questo è bello.»
«Dunque io pure correrò sul mare e incontrerò popoli selvaggi in luoghi lontani…»
«Certamente. Ma ora guarda: la cena sarà pronta fra poco, carne e pane e vino buono, il fumo esce dal tetto del palazzo, il palazzo che un giorno sarà tuo, figlio. Perché tu, quel giorno, sarai re di Itaca.»