
eBook - ePub
De Profundis
Introduzione di Masolino d'Amico. Con uno scritto di André Gide
- 208 pagine
- Italian
- ePUB (disponibile sull'app)
- Disponibile su iOS e Android
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De Profundis
Introduzione di Masolino d'Amico. Con uno scritto di André Gide
Informazioni su questo libro
Detenuto per sodomia, Wilde scrisse nel 1897 questo manoscritto in forma di lettera, frutto della tragica lotta che un artista ribelle ingaggia contro le ipocrisie della società, al suo giovane amante Bosie. Wilde appare in queste pagine un uomo affascinante e contraddittorio, ormai fiaccato nell'animo, sofferente come un autentico artista romantico, un Cristo perseguitato dai filistei. Si alternano in queste pagine serietà morale e teatrale civetteria, rivendicazioni di grandezza a cupi umori penitenziali.
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Informazioni
Print ISBN
9788804518983eBook ISBN
9788852056000De profundis
«Epistola: In Carcere et Vinculis»
Carcere di Sua Maestà
Reading
Caro Bosie, dopo lunga e sterile attesa ho deciso di scriverti io, per il tuo bene come per il mio, poiché non vorrei proprio ammettere d’essere passato attraverso due lunghi anni di prigionia senza mai ricevere un solo rigo da te, una qualsiasi notizia, un semplice messaggio, tranne quelli che m’arrecarono dolore.
La nostra amicizia, nata male e tanto deplorevole, è finita con la rovina e con la pubblica infamia per me, eppure il ricordo del nostro antico affetto mi fa spesso compagnia, e mi riesce così triste, così triste il pensiero che l’astio, l’amarezza, il disprezzo debbano prendere per sempre il posto dell’amore nel mio animo: e anche tu sarai convinto, suppongo, nel profondo del tuo cuore che scrivermi, mentre vivo nella solitudine di questo carcere, sia sempre meglio di pubblicare le mie lettere senza il mio permesso o di dedicarmi versi non richiesti, e non c’è alcun bisogno che il mondo sappia qualcosa delle parole, di qualsiasi parola, di dolore o passione, rimorso o distacco che ti piacerà inviarmi come replica o richiamo.
Non dubito affatto che in questa lettera, in cui dovrò parlare della tua vita e della mia, del passato e del futuro, delle dolcezze mutate in amarezza, delle amarezze che possono mutare in gioia, molte cose potranno ferire nel vivo la tua vanità. Se accadrà questo, leggiti e rileggiti le mie righe sino a uccidere la vanità. Se in questa lettera ti parrà d’incontrare qualche accusa ingiusta, ricorda che dovremmo provare riconoscenza all’idea di poter essere ingiustamente accusati d’una qualsiasi colpa. Se in questa lettera una sola frase ti potrà inumidire gli occhi, ebbene piangi, come noi piangiamo in questa prigione ove il giorno è consacrato, non meno della notte, alle lacrime. È l’unica tua possibilità di salvezza. Se, invece, come facesti per il disprezzo che t’avevo mostrato nella mia lettera a Robbie, andrai a lamentarti con tua madre, mendicando lusinghe e medicamenti, per ritrovare il compiacimento in te stesso, il tuo orgoglio, allora sarai perduto per sempre. Se escogiti una sola falsa scusa per la tua condotta, te ne troverai presto troppe a disposizione, e sarai di nuovo quello ch’eri prima. Sostieni ancora, come hai affermato a Robbie nella tua risposta, che io «ti attribuisco scopi indegni»? Ah! non avevi scopi nella tua vita, tu, avevi solo appetiti. Uno scopo è un fine intellettuale. Vuoi ancora sostenere che eri «molto giovane» all’inizio della nostra amicizia? Il male non consisteva nel fatto che tu sapessi troppo poco della vita, ma nel fatto, proprio, che ne sapevi troppo. La prima alba dell’adolescenza con il suo delicato splendore, la sua chiara e pura luce, la sua gioia d’innocenza e d’attesa, te l’eri lasciata ben lontana, alle spalle. Con piedi molto veloci, sfrenati nella corsa, eri passato dal Romanticismo al Realismo. La feccia e quanto in essa vive avevano cominciato ad attrarti. Ecco l’origine di quei guai per cui cercasti il mio aiuto e io, agendo stoltamente secondo la saggezza di questo mondo, te lo concessi, il mio aiuto, per pietà, per bontà. Devi leggerti questa mia lettera dal principio alla fine, anche se ogni sua parola può diventare per te come il fuoco o il coltello del chirurgo che brucia o fa sanguinare le carni delicate. Ricorda che esiste un’enorme differenza tra chi appare stolto agli occhi degli dèi e chi lo appare agli occhi del mondo. Anche uno che sia totalmente all’oscuro degli aspetti dell’Arte nella sua rivelazione o degli aspetti del pensiero nella sua dialettica, della magnificenza del verso latino o della più ridondante musica del greco vocalizzato, della scultura toscana o della canzone elisabettiana, può tuttavia esser ricco della più soave saggezza. Il vero stolto, quello che gli dèi scherniscono o riducono in rovina, è colui che non conosce se stesso. Fui così per troppo tempo. Tu fosti così per troppo tempo. Non esserlo più. Non temere. Il peggior vizio è la superficialità. Ogni cosa che viene profondamente compresa è giusta. Ricorda pure che tutto quanto ti rende infelice, a leggerlo, ha reso me ancora più infelice, a scriverlo. Nei tuoi riguardi le Potenze Occulte son state misericordiose. Hanno permesso che tu contemplassi le strane e tragiche forme della vita come si possono contemplare le ombre in un cristallo. La testa della Medusa che trasforma i viventi in pietra, tu potesti vederla in uno specchio. E hai camminato, libero, tra i fiori. Ma a me, a me lo stupendo mondo dei colori e dell’azione è stato sottratto.
Comincerò dicendoti che son pieno di terribili rimproveri per me stesso. Mentre siedo qui, in questa buia cella, nei panni del condannato, ridotto in rovina, ricoperto di vergogna, rimprovero me stesso. Nelle affannose, frantumate notti d’angoscia, nei lunghi, monotoni giorni di dolore, io rimprovero me stesso. Rimprovero me stesso per aver lasciato che un’amicizia non intellettuale, un’amicizia il cui scopo principale non era la creazione né la contemplazione di cose belle, dominasse interamente la mia esistenza. Sino dall’inizio, tra noi fu una breccia troppo larga. Eri stato un fannullone a scuola, e qualcosa peggio d’un fannullone all’università. Non capisti che un artista, e un artista poi quale sono io, per cui la qualità del lavoro dipende dall’affermarsi della personalità, ha bisogno, per sviluppare la sua arte, di una concordia d’idee, di un’atmosfera intellettuale, di tranquillità, serenità, solitudine. Tu ammiravi il mio lavoro quand’era compiuto: godevi dei brillanti successi delle mie «prime rappresentazioni» e dei non meno brillanti banchetti che seguivano: eri fiero, e questo era anche perfettamente naturale, d’essere intimo amico d’un artista tanto famoso: ma non sapevi certo capire quali condizioni fossero necessarie alla creazione dell’opera d’arte. Non sto usando frasi esageratamente retoriche, ma termini che rispecchiano con assoluta sincerità semplici fatti, quando ti dico che, durante l’intero periodo in cui fummo insieme, non sono stato capace di scrivere un solo rigo. Sia a Torquay, sia a Goring, Londra, Firenze, in qualsiasi altro luogo, la mia esistenza, sinché tu restasti al mio fianco, fu assolutamente sterile, mancante d’ogni facoltà creativa. E, tranne qualche breve intervallo, tu restasti sempre, mi rincresce dirlo, al mio fianco.
Ricordo, ad esempio, per scegliere solo un esempio fra i tanti, d’aver preso un appartamento nel settembre 1893 per poter lavorare indisturbato, dato che avevo rotto il contratto con John Hare a cui avevo promesso di scrivere una commedia e da cui ero di continuo sollecitato a questo proposito. Durante la prima settimana tu restasti lontano. Tra noi eran corse, in modo piuttosto naturale, certe divergenze di vedute circa il valore artistico della tua traduzione di Salomé. E così t’accontentasti d’inviarmi futili lettere su tale argomento. In quella settimana scrissi e ritoccai in ogni suo minimo particolare, e fu effettivamente così rappresentato, il primo atto di Un marito ideale. La seconda settimana ritornasti tu e il mio lavoro venne praticamente abbandonato. Mi recavo in St James’s Square ogni mattina alle 11,30 per potere avere l’opportunità di pensare e scrivere senza le inevitabili interruzioni che si sarebbero verificate anche nella mia casa tanto quieta e tranquilla. Ma ogni mio tentativo risultava vano. Alle 12, ecco la tua carrozza ferma alla porta e tu restavi a fumare sigarette e a chiacchierare sino alle 13,30, quando dovevo condurti fuori a colazione al Café Royal o al Berkeley. La colazione con i suoi strascichi a base di liquori durava di solito sino alle 15,30. Per circa un’ora ti ritiravi da White. Riapparivi per il tè e restavi sino all’ora di vestirsi per la cena. Cenavi con me al Savoy o in Tite Street. Di regola ci separavamo solo dopo la mezzanotte, poiché l’incantevole serata doveva concludersi da Willis’s. Questa fu la mia esistenza, durante quei tre mesi, ogni giorno, tranne i quattro giorni che trascorresti all’estero. E allora, naturalmente, dovetti recarmi a Calais per riportarti indietro. Per uno della mia natura, del mio temperamento, la situazione era grottesca e tragica insieme.
Te ne renderai certo conto, ora. Ora capirai che la tua incapacità a star solo: la tua natura così esigente nel richieder di continuo l’attenzione e il tempo altrui: la tua mancanza d’ogni potere di concentrarti intellettualmente: lo sfortunato incidente – non mi piace pensare che fosse qualcos’altro – per cui non eri ancora riuscito ad acquistare “il tono Oxford” nelle questioni intellettuali; non eri mai stato, voglio dire, uno che sapesse giocare elegantemente con le idee ma eri arrivato solo alla violenza dell’opinione: che tutte queste cose unite al fatto che i tuoi desideri, i tuoi interessi appartenevano alla Vita e non all’Arte, erano esiziali per il tuo progredire verso la cultura, come al mio lavoro d’artista. Quando paragono la mia amicizia per te alla mia amicizia per uomini anche più giovani, come John Gray e Pierre Louÿs, avverto una sincera vergogna. La mia vera vita, la mia vita più elevata, era con loro e con quelli come loro.
Non parlo adesso delle spaventose conseguenze della nostra amicizia. No, sto pensando semplicemente alle sue qualità, durante la sua durata. Intellettualmente, era degradante per me. Tu possedevi solo i rudimenti d’un temperamento artistico in embrione. Ma t’incontrai, non so bene ancora, troppo tardi o troppo presto. Quand’eri lontano, io stavo benissimo. Al principio del dicembre dell’anno a cui mi riferivo prima, in cui m’era riuscito d’indurre tua madre ad allontanarti dall’Inghilterra, rimisi insieme la tela sfibrata e imbrogliata della mia immaginazione, ripresi in pugno la mia esistenza, e non solo portai a termine gli altri tre atti di Un marito ideale, ma concepii e ultimai quasi due altre commedie di tipo assolutamente diverso, La tragedia fiorentina e La Sainte Courtisane, ma a un tratto, non richiesto, non gradito, e in circostanze fatali per la mia felicità, tu riapparisti. Non fui più capace di riprendere le due opere allora interrotte. Non potei più recuperare lo stato d’animo che aveva dato l’avvio al mio lavoro. E tu, che hai recentemente pubblicato un libro di versi, sarai in grado, ora, di riconoscere la verità di quanto affermo. Sia che tu riesca a farlo o no, questa verità orrenda scaturisce dall’intimità della nostra amicizia. Sinché tu fosti al mio fianco, costituisti l’assoluta rovina della mia arte, e, proprio per averti lasciato restare continuamente tra l’arte e me, esperimento adesso nei miei riguardi la massima vergogna, il massimo rancore. Non potevi sapere, tu, non potevi capire, tu, non potevi apprezzare, tu. E io non avevo alcun diritto d’aspettarmi qualcosa di simile da te. Potevi interessarti soltanto ai tuoi pasti e ai tuoi umori. I tuoi appetiti miravano semplicemente ai divertimenti, piaceri più o meno comuni. Questo era quanto il tuo temperamento esigeva o credeva d’esigere per il momento. Avrei dovuto proibirti l’accesso alla mia casa e al mio studio, quando non t’avevo espressamente invitato. Rimprovero me stesso, senza riserve, per la mia infinita debolezza. Fu soltanto debolezza. Mezz’ora con l’Arte ebbe sempre maggior importanza per me d’un intero ciclo in tua compagnia. A paragone dell’Arte, nulla, per esser sinceri, in qualsiasi momento della mia esistenza, ebbe per me la minima importanza. Ma, quando si tratta d’un artista, la debolezza, se è debolezza che paralizza l’immaginazione, è un vero delitto.
Rimprovero me stesso per aver lasciato che tu mi guidassi alla completa e disonorante rovina finanziaria. Ricordo una mattina, ai primi d’ottobre del 1892: sedevo insieme con tua madre nei boschi di Bracknell che già cominciavano a ingiallire. Allora sapevo ben poco intorno alla tua vera natura. Ero stato tuo ospite a Oxford dal sabato al lunedì. E tu eri stato mio ospite a Cromer per dieci giorni, e avevi giocato al golf. La conversazione cadde su te e tua madre prese a parlarmi del tuo carattere. Mi enumerò i tuoi difetti principali, la tua vanità e quanto lei definiva la tua «concezione assolutamente sbagliata del denaro». Mi ricordo molto bene quanto ne risi. Non avevo proprio il minimo sospetto, in quel momento, che il primo, di quei tuoi difetti, m’avrebbe fatto finire in prigione, e il secondo m’avrebbe portato al fallimento. Pensavo che per un giovane la vanità fosse come un grazioso fiore da mettere all’occhiello: quanto alla tua prodigalità, poiché pensavo che tua madre intendesse solo questo, ebbene la prudenza o la parsimonia non sono virtù della mia natura o della mia razza. Ma, prima ancora che la nostra amicizia fosse vecchia d’un mese, cominciai a comprendere il vero significato delle parole di tua madre. La tua continua bramosia d’una esistenza di sfrenata dissipazione, le tue continue richieste di denaro, la tua pretesa di farti pagare ogni piacere, ogni svago da me, fossi o non fossi al tuo fianco, mi ridussero in breve tempo in serie difficoltà finanziarie, e quello che privò d’ogni interesse, almeno per me, tanta mancanza di moderazione, mentre la tua presa sulla mia vita aumentava d’intensità, fu proprio il fatto che quasi tutto il denaro andava speso in ben poco altro che mangiare, bere e cose simili. Ogni tanto, certo, è una gioia avere la propria tavola imporporata di vino e di rose, ma tu oltrepassasti ogni misura e temperanza. Chiedevi senza alcun garbo e non ringraziavi neppure per quanto ricevevi. Arrivasti a pensare di possedere una specie di diritto a vivere alle mie spalle, in una profusione di lusso che mai avevi conosciuto, e così i tuoi appetiti andarono diventando sempre più acuti; alla fine, se perdevi giocando in qualche Casino d’Algeri, la mattina dopo telegrafavi semplicemente a me a Londra di versare l’ammontare delle tue perdite sul tuo conto in banca e non ti preoccupavi più minimamente dell’accaduto.
Quando ti dico che tra l’autunno del 1892 e la data del mio incarceramento spesi con te e per te più di 5000 sterline in contanti, indipendentemente dai debiti in cui incorsi, ti farai un’idea, forse, della specie di esistenza che prediligevi. Pensi che ci sia esagerazione in quanto ti dico? Le mie spese abituali, quotidiane con te a Londra, per colazione, pranzo, cena, divertimenti, carrozze e altro, variavano da 12 a 20 sterline, e le spese settimanali, naturalmente in proporzione, variavano da 80 a 130 sterline. Per i tre mesi che passammo a Goring spesi 1340 sterline (affitto naturalmente incluso). Con il curatore fallimentare fui obbligato a rivedere passo per passo la mia vita. E fu orrendo. «Vita semplice e alto pensare»;1 ecco un ideale che tu non avresti mai potuto apprezzare a quel tempo, ma tanta mancanza di moderazione costituì una vergogna per tutt’e due noi. Uno dei pranzi più piacevoli che ricordi d’aver mai consumato, lo feci insieme con Robbie in un localuccio di Soho: costò in scellini circa quanto costavano in sterline i miei pranzi con te. Dal mio pranzo con Robbie derivò il primo e il migliore di tutti i miei dialoghi.2 L’idea, il titolo, la sceneggiatura, l’esecuzione, tutto venne fissato nel corso d’un pasto a prezzo fisso di 3 franchi e 50. Ma non mi resta nulla, degli sconsiderati pranzi con te, tranne il ricordo d’aver troppo mangiato e bevuto. La mia arrendevolezza davanti alle tue richieste ti fu nociva. Questo lo sai ora. Averla sempre vinta ti rese troppo spesso rapace; ti spogliò troppo spesso d’ogni scrupolo; ti autorizzò a essere sempre sgarbato. In molte, in troppe occasioni l’essere tuo ospite non mi riuscì motivo di gioia o di soddisfazione. Ignoravi, non voglio dire la formale cortesia dei ringraziamenti, poiché le squisitezze formalistiche mettono a dura prova un’amicizia veramente intima, ma semplicemente il garbo della piacevole compagnia, il fascino d’una conversazione interessante, quel τερπνὸν καλόν come lo chiamavano i greci, e tutta quella raffinata cultura che abbellisce l’esistenza e le fornisce un accompagnamento, come la musica, mantenendo le cose in armonia, addolcendo con la melodia i punti più aspri o silenziosi. E, sebbene possa parerti strano che uno nella terribile situazione in cui mi trovo stia a distinguere tra una vergogna e l’altra, ammetto tuttavia con schiettezza che la pazzia di sperperare tutto questo denaro per te, di lasciarti dissipare ogni mia sostanza, a tuo, come a mio, danno, conferisce, a mio giudizio, una nota di tanto volgare dissolutezza al mio scacco da raddoppiare la mia vergogna. E io che ero fatto per cose ben diverse.
Ma soprattutto mi rimprovero per la completa depravazione etica a cui ti permisi di trascinarmi. La base del mio carattere è la forza di volontà, e questa forza di volontà diventò assolutamente schiava della tua. A dirlo pare grottesco, ma non per questo è meno vero. Quelle scenate continue di cui parevi provare un bisogno addirittura fisico e in cui la tua mente e il tuo corpo si deformavano e diventavi qualcosa di terribile per la vista e l’udito; quella spaventosa mania ereditata da tuo padre, la mania di scriver lettere odiose e ributtanti; la completa assenza d’ogni controllo delle tue emozioni, ostentata nelle lunghe e rancorose collere di tetro silenzio come negli improvvisi attacchi d’una furia quasi epilettica; tutte queste cose, di cui parlava quella mia lettera che dimenticasti al Savoy o in qualche altro albergo e che l’avvocato di tuo padre poté mostrare in tribunale, quella mia lettera che conteneva una supplica non priva di pathos, ma tu allora non eri certo in grado di riconoscere il pathos nei suoi elementi e nella sua espressione: tutte queste cose, dico, costituirono l’origine e la causa della mia fatale resa davanti a te, alle tue richieste che s’andavano ogni giorno infittendo. Tu mi consumasti. Fu il trionfo della natura inferiore su quella più grande. Fu il caso di quella tirannia del debole sul forte che in qualcuno dei miei lavori teatrali ho definito «l’unica tirannia che duri».3
E fu inevitabile. In ogni rapporto con gli altri occorre trovare un moyen de vivre. Con te dovevo rinunciare a me stesso o a te. Non potevano esistere altre alternative. Per un profondo anche se malriposto affetto per te: per una grande pietà per i tuoi difetti di carattere e temperamento: per la mia stessa proverbiale bontà d’animo e la mia celtica pigrizia: per la mia avversione da artista alle scene volgari e alle cattive parole: per quell’incapacità a covare risentimenti di qualsiasi specie, tanto caratteristica a me in quei tempi: per il disgusto di vedere l’esistenza resa infelice e ingrata a causa di quelle che a me, con gli occhi intenti a ben altre cose, apparivano sciocchezze troppo banali per meritare più d’un minuto di riflessione o d’interesse: – per tutte queste ragioni, per quanto semplici possano parere, ti cedetti sempre. Come logico risultato, le tue pretese, i tuoi tentativi di tirannia, le tue esigenze diventarono sempre più illogici. La tua mira più infima, la tua voglia più bassa, la tua passione più volgare diventarono per te le leggi, da cui l’esistenza degli altri doveva essere eternamente guidata, a cui l’esistenza degli altri, se necessario, doveva venire sacrificata senza scrupolo alcuno. Perfettamente conscio che con una di quelle tue scenate l’avresti sempre spuntata, era naturale addirittura che tu procedessi, quasi inconsapevolmente, non voglio dubitarne, verso ogni eccesso di triviale violenza. Alla fine ignoravi verso quale meta tu stessi affannandoti, e in vista di quale scopo. Dopo aver trionfato sul mio genio, la mia forza di volontà, la mia fortuna, esigesti, nella cecità della tua cupidigia insaziabile, che ti sacrificassi la mia vita. La prendesti. Nell’unico momento supremamente e tragicamente critico della mia intera esistenza, proprio pochissimo prima della deplorevole mossa iniziale della mia assurda azione, c’era, da una parte, tuo padre, ad attaccarmi con quegli orrendi biglietti che mi lasciava al club, dall’altra parte, c’eri tu, ad attaccarmi con lettere non meno ributtanti. Quella lettera che ricevetti da te la mattina in cui ti permisi di guidarmi alla Corte di giustizia di primo grado, a chiedere grottescamente un mandato di cattura contro tuo padre, fu proprio una delle peggiori da te scrittemi, e per il motivo più vergognoso, poi. Preso tra voi due avevo perso la testa. Ogni capacità di decidere, di giudicare m’aveva abbandonato. Fui sopraffatto dal terrore. Non vidi alcuna via di scampo, mi permetto di dirlo francamente, così serrato da voi due. Ciecamente barcollai come il bue avviato al mattatoio. Avevo commesso un madornale errore psicologico. Avevo sempre pensato che la mia resa davanti a te nelle piccole cose non significasse molto: avevo sempre pensato che, quando fosse sopraggiunto un momento grave, avrei potuto reintegrare in tutta la sua naturale superiorità la mia forza di volontà. Ma non fu così. In quel grave momento la forza di volontà mi mancò assolutamente. In realtà nella vita non esistono cose piccole o grandi. Tutte l...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- Introduzione di Masolino d’Amico
- Cronologia
- Bibliografia
- DE PROFUNDIS
- Note
- Postfazione di André Gide
- Copyright