Il mondo è fatto per finire in un bel libro.
STÉPHANE MALLARMÉ
Gli uffici della televisione tedesca si trovavano nei corridoi di Palazzo Torlonia a via Mario de’ Fiori, una splendida stradina del centro di Roma che fa angolo con via Condotti.
Il mio studio dava sul cortile interno, dove in quegli anni venivani accuditi i cavalli della famiglia Torlonia. Quando sentivo il rumore cadenzato degli zoccoli che percuotevano il pavimento, potevo affacciarmi per vederli uscire insieme ai loro padroni in tenuta da cavallerizzi. Mi piaceva molto quello spettacolo, e la componente estetica era in grado di suggestionarmi a tal punto che sopportavo di buon grado persino l’odore acre che saliva da quella specie di stalla a cielo aperto inondando il mio studio.
A via Mario de’ Fiori, percepivo in modo diverso lo scorrere del tempo. Anzi, non lo percepivo affatto. Non mi importava nulla delle ore: quando ero tra quelle pareti non avevo orari, troppo affascinata dal mio daffare.
Come è nata la mia carriera?
Per destino, per un pizzico di fortuna e, perché no, grazie a un certo savoir fare che mi permette di capire le persone.
Un giorno, ai tempi dell’università, entrai nella sede della Bayerischer Rundfunk, una delle principali radio tedesche, tenendo per mano Stefan Andres. Lui andava lì a registrare le sue poesie, proprio nei giorni in cui io, come ho già raccontato, stavo preparando la tesi sulla sua opera. Lo aspettai in silenzio, senza sapere che quella sarebbe diventata la mia futura sede di lavoro.
Pochi mesi dopo la laurea, stavo per andare in vacanza quando mi telefonò la moglie di Stefan, regina delle pubbliche relazioni, che era diventata amica del nuovo direttore. Gli aveva proposto, o forse imposto, di farmi entrare nel nuovo staff. Naturalmente all’inizio sarei stata solo segretaria di redazione, ma accettai di colpo mandando all’aria il viaggio vacanze che avevo già pagato.
In redazione mi divertivo moltissimo. Non dovevo più stare china sui libri, ma col telefono appiccicato all’orecchio per conversare con tutto il mondo. Intanto vedevo programmi alla TV e cominciavo a conoscere i miei colleghi sparsi nei vari studi all’estero.
Avevo ottenuto un contratto fisso e mi sentivo tranquilla per il resto della mia vita lavorativa. Ma un giorno arrivò la telefonata di un intendant della Suedwestfunk, per la precisione il presidente della radio TV del Baden Wurttemberg.
Si chiamava Helmut Hammerschmidt e voleva parlare di un suo nuovo progetto. Fui incaricata di andare a prenderlo all’aeroporto con la mia mitica Fiat 500. Non so per quale motivo, non ci incontrammo. Mortificata, ritornai in ufficio. Lui era già lì. Mi invitò a pranzo. Era un bel personaggio: dell’ebreo tedesco aveva l’intelligenza fulminea. Io allora ero allenata a distinguere i tedeschi dagli ebrei tedeschi, che, dal mio punto di vista, hanno sempre avuto una marcia in più.
Senza tanti preamboli mi disse che aveva intenzione di eliminare il semplice corrispondente dall’estero che trasmetteva su tutto, politica, cultura, attualità, e di sostituirlo con un ufficio radiofonico a Roma, che raccogliesse il meglio del giornalismo nei vari settori, coordinato da una persona.
Quella persona sarei dovuta essere io.
Lo guardai con occhi spalancati, incredula che una simile offerta mi arrivasse così d’improvviso e inaspettata.
In realtà Helmut non era certo uno sprovveduto. Si era informato su di me, sul mio background, e credo che il fatto che fossi figlia del direttore generale della presidenza del Consiglio avesse contribuito a convincerlo che poteva fidarsi di me. Di persona fu conquistato anche dal tipo di educazione rigida che avevo ricevuto, da una serietà che camuffavo con un’esuberanza mediterranea. Incredibilmente, però, sulle prime dissi di no. Avevo già un contratto fisso a scadenza indeterminata e non ci avrei rinunciato per un’avventura che mi sembrava di difficile realizzazione.
Ci salutammo all’aeroporto con le sue parole: «Ci rivedremo presto a Baden-Baden», mentre il suo sguardo profondo era una chiara allusione che avrebbe fatto di tutto per convincermi.
Quella volta imparai che i destini, in effetti, si compiono comunque. Hammerschmidt decise al posto mio, e mi ritrovai al secondo piano di Palazzo Torlonia ad allestire un nuovo ufficio. Avevo mano libera di scegliere tutto, dal mobilio alle persone. Fu il periodo più eccitante della mia vita. Per far conoscere ai miei colleghi italiani e alle istituzioni quella nuova struttura, organizzai il primo ricevimento all’Hotel Forum e mandai alla stampa una notizia Ansa, in modo che i giornalisti – notoriamente pigri – avessero già il testo pronto.
Mi ricordo anche la persona che mi aiutò a formulare gli inviti: Vittorio Zincone, il papà di Giuliano.
Andavo spesso a Baden-Baden, perché allora non c’erano problemi di costi per le trasferte. Lì imparai a conoscere i miei colleghi, ma soprattutto frequentai Hammerschmidt, un pozzo di scienza, un uomo dalla dialettica spumeggiante che fu per me un vero maestro.
Mi portò al Casinò, dove imparai un po’ a giocare, a mangiare nei raffinati ristoranti della Selva Nera, e mi fece conoscere la cucina cinese. Mi accompagnò anche all’Oktoberfest, dove una volta mi ritrovai addirittura a ballare con Helmut Kohl, che allora non era ancora cancelliere.
Riuscii a organizzare anche una settimana radiofonica dedicata alla cultura italiana, trascinando a Baden-Baden personaggi del calibro di Giorgio Bassani e molti altri.
In quel periodo lo studio della Suedwestfunk divenne un salotto, un centro di raccolta di tutto il meglio che intellettualmente offriva l’Italia. Riuscii a trascinarvi Enzo Bettiza, Gioacchino Lanza Tomasi, Roman Vlad, oltre a moltissimi politici.
Come tutte le cose belle ed eccitanti, però, anche quel periodo d’oro ebbe una fine. Il motivo fu politico. Un cambio di guardia al governo tedesco.
Rimasi priva di quella che era diventata la mia famiglia. Per fortuna non disperai: fui subito convocata al Consiglio d’Europa, dove il segretario generale mi offrì un’opportunità unica: diventare capo ufficio stampa a Strasburgo, con tanto di stipendio, pensione e assicurazione.
Ci pensai ma dissi di no. Conoscendomi, sapevo perfettamente che un soggiorno prolungato in una terra grigia, occupandomi di cose grigie, mi avrebbe per forza di cose “ingrigita”. E quanto ai molti soldi che mi furono offerti, sapevo che li avrei spesi tutti in viaggi a Roma e in telefonate infinite.
Ritornai senza nulla in mano, ma con una gran voglia di girare un po’ senza uno scopo o meta precisa, tanto per sentire che aria tirava nel mondo. Pensai che quello a venire potesse essere il mio anno sabbatico. Ma prima di decidere me ne andai a Mainz, a trovare l’uomo che, dopo Hammerschmidt, era diventato il nuovo intendant: Dieter Stolte.
Stolte era un uomo metodico, concentrato sul lavoro, oculato, che lasciava poco spazio alle effusioni. Serio, preciso come uno svizzero, capelli sempre in ordine, blazer, cravatte di Hermes. Insomma, un vero capo. Mi dissero che in genere per essere ricevuti da lui occorreva minimo una settimana.
Con me fu diverso, perché mi conosceva da tempo, da quando cioè, in veste di vice di Hammerschmidt, aveva seguito la mia carriera a Roma.
Appena entrai, prima ancora di stringermi la mano mi disse: «Oggi l’ho pensata, perché a Roma si è liberato un posto alla TV tedesca. La giornalista che ci lavorava si è trasferita allo Stern».
Anche questa volta spalancai gli occhi per la sorpresa. Io ero andata solo per salutarlo e lui già mi aveva proposto un lavoro per me molto attraente.
«Guardi, però, io la posso solo proporre, non imporre. A decidere sarà il capo dello studio di Roma, Karl Günther Renz» aggiunse.
Tornai a Roma con la leggerezza di chi è consapevole che le cose avvengono secondo un preciso disegno. Dopo un silenzio lungo due mesi, una telefonata di Renz mi convocò nel suo studio, mentre io stavo per andare spensieratamente in palestra.
Indossavo una giacchetta corta di volpe che mi donava molto (così lui mi disse in seguito) sopra pantaloni neri. Credo che fosse rimasto molto colpito dalla mia sincerità. L’incontro durò quattro ore, in cui in tutta chiarezza gli illustrai la mia reale situazione: mi serviva un lavoro, e subito. Quella onestà lo convinse: mi chiese di cominciare il giorno dopo.
Karl Günther Renz fu purtroppo una splendida meteora. Credo che, se non fosse morto così presto, la mia carriera giornalistica avrebbe preso una strada diversa, e forse sarebbe stata ancora più impegnativa e soddisfacente.
Era un uomo generoso, si occupava dei colleghi che lavoravano per lui come un padre, tanto che lo studio spesso si trasformava in un confessionale laico. Grazie a lui, il mio contratto con la TV tedesca divenne definitivo.
Di direttori a Roma ne ho inanellati molti, e tutti con caratteri e personalità diverse. Quello che nessuno di loro è riuscito a fare è stato mitigare il mio carattere vulcanico. Renz una volta mi disse: «Non sono io che ho cambiato te, ma tu me».
Ho amato profondamente quel lavoro. Tutte le mattine lasciavo la bicicletta accanto all’edicola di Otello, lo storico edicolante di via Mario de’ Fiori, di cui ero diventata grande amica. Bevevo un cappuccino all’antico Caffè Greco, orgogliosa di poterlo fare in un luogo così carico di storia. A Roma non c’era artista famoso o personalità della politica che non si fosse fermato almeno una volta in quel locale per assaggiare una deliziosa tazza di cioccolato caldo.
E poi non è da trascurare il vantaggio professionale che ne potevo trarre. Con un po’ di fortuna vi si potevano incontrare Giorgio De Chirico, seduto in un angolo a leggere il giornale e a iniziare così la sua mattinata, Federico Fellini, che arrivava dalla sua casa in via Margutta e che alla sua colazione al Greco sembrava non poter mai rinunciare, o chissà quale altro big da intervistare.
Il mio studio diventò ben presto una sorta di salotto cultural-mondano. Trovandosi nel cuore della città, era un ottimo appoggio per chi passava da Roma, e gli esempi di ospiti ricorrenti che consideravano via Mario de’ Fiori un luogo familiare sono moltissimi.
Carlo Cassola, scrittore di successo e uomo schivo, abitualmente poco loquace, si fermava da me per ore a raccontarmi la trama del suo futuro romanzo, e mi diceva che il mio ufficio gli mancava al punto che, quando ritornava a Marina di Pietrasanta, sentiva il desiderio di telefonarmi. E lo faceva davvero. Mi teneva ore alla cornetta, forse per spezzare la malinconia di una vita solitaria.
Il mio amico milanese Vanni Scheiwiller, soprannominato in tutta Europa “il più grande dei piccoli editori”, arrivava trafelato con la cartella imbottita dei suoi mitici libriccini, di cui mi regalava gli ultimi esemplari. Quando non mi trovava, lasciava un biglietto di saluto attaccato alla porta e non dimenticava mai di disegnare un pesce, il simbolo della sua casa editrice, All’insegna del pesce d’oro.
Ugo Leonzio, editor dell’Einaudi e lui stesso scrittore, di cui mi colpivano i capelli neri a caschetto e l’abitudine di vestire sempre e solo di nero, nel mio studio smetteva di essere l’elitario e severo selezionatore di autori e si lasciava andare. Mi divertiva moltissimo la sua ironia dissacrante sul panorama letterario romano.
Alberto Merlati, editor della Garzanti, era un uomo efficiente e simpatico, un gigante di due metri che sbatteva regolarmente la testa contro lo stipite della porta d’ingresso poiché dimenticava di chinarsi.
Walter Fritsche, il mitico editor della Piper Verlag, la casa editrice tedesca specializzata in letteratura italiana, un personaggio prorompente per fantasia, allegria e voracità culturale, mi presentava ogni volta una nuova fidanzata, e io lo prendevo in giro pregandolo di condurmi presto nell’harem che aveva creato nella sua casa di Monaco di Baviera.
Alfredo Giuliani, uno dei fondatori del Gruppo 63, si divertiva ad ascoltare i miei racconti a suo avviso un po’ surreali, adorava il mio saltellare da un argomento all’altro, il mio modo, insomma, di essere così diversa da lui. Diceva che amava venire da me soprattutto per trovare l’ispirazione per un nuovo romanzo. E se con gli uomini che ho menzionato tenevo rapporti per lo più occasionali e legati al lavoro, con Alfredo fu diverso, e a una della sue frequenti visite in ufficio è legato un episodio molto divertente della mia vita, che racconto sempre con piacere.
In realtà ero io che tormentavo Giuliani con la mania dello scrivere. Era la mia ossessione. Desideravo firmare un libro, ma non avevo il coraggio di iniziare. Finché un giorno, dopo aver parlato a lungo con me in ufficio, Alfredo mi disse: «Il tuo blocco ha un volto. Tuo padre. È da lui che ti devi staccare se vuoi realizzare il tuo sogno di scrittrice. Per farlo però hai bisogno di uno psicanalista».
Decisi di seguire il suo consiglio e mi rivolsi allo psicanalista più noto di Roma, oltre che il più immortalato nelle cronache mondane di tutto il pianeta: Andrea Dotti, l’uomo che aveva sposato la splendida Audrey Hepburn. Un ragazzo bello, biondo, dotato di una naturale eleganza.
Mi ricevette nel suo studio anonimo vicino a piazza Cavour e, orologio alla mano mi fece parlare per quarantacinque minuti. Dotti rimase in silenzio e alla fine disse che avremmo dovuto rivederci. Pagai con un lauto assegno e imbracciai borsa e cappotto per andarmene, quando lui mi fermò sulla porta e mi chiese se poteva invitarmi a passare insieme la serata. Restai piuttosto sorpresa, ma, devo dirlo, anche un po’ eccitata al pensiero di uscire con un personaggio così charmant, famoso in tutta Hollywood e sempre molto richiesto dai salotti del jet set mondiale.
Accettai.
Mi portò in un club esclusivo, ordinò champagne e m’invitò a ballare. Era una musica lenta e per parecchi minuti ci muovemmo nella sala a passo di danza, stretti, guancia a guancia, come due innamorati.
Lui mi parve desideroso di abbandonarsi, quasi che quella breve parentesi serale con me fosse una bevanda rigenerante. Ogni tanto sgranavo gli occhi per guardarmi intorno e assicurarmi che nella sala non ci fosse qualche paparazzo nascosto, pronto a scattare e a rovinare la mia vita, quella di Andrea e quella fatata di Audrey.
Quando la musica terminò e ritornammo a sederci, la magia di quel lungo abbraccio si spense immediatamente.
Lui cominciò a parlare senza prendere fiato. Era un fiume in piena che mi riversò addosso tutti i suoi problemi. Ma come, pensai, non ero io quella bisognosa dello psicanalista? Invece, nemmeno a farlo apposta, mi ritrovai io a essere il medico e lui il paziente.
«Il mio matrimonio mi sta rendendo la vita insopportabile» disse Andrea. «Audrey è rigida come una guardia svizzera, m’impone orari inflessibili per qualsiasi cosa, mi costringe a pranzare sempre alla stessa ora, a rimanere a casa tutte le sere per evitare incontri pericolosi con altre donne. È gelosa fino all’eccesso, ha ridotto la vita da jet set alla quale mi ero abituato a una noiosa routine da ragioniere. È una vera tortura. Una tortura da cui non so come liberarmi.»
Io non potei fare altro che ascoltare in silenzio. Provai a consolarlo e a spiegargli che quello era il prezzo da pagare per aver sposato una diva, e lui bevve quasi da solo ciò che restava della nostra bottiglia di champagne. Così finirono la serata e il flirt immaginario, e naturalmente l’idea di affidarmi alla psicanalisi.
Ben presto smisi di angosciarmi per non essere una scrittrice. Mi lasciai felicemente risucchiare dalle giornate frenetiche tra largo Febo e via Mario de’ Fiori, e dedicai tutta me stessa per dare il massimo come giornalista. Mi divertiva molto attraversare l’Italia in lungo e in largo trascinando sempre con me, come se fosse un arto artificiale, un pesantissimo registratore Nagra, la tecnologia che allora si usava per andare a intervistare gli scrittori del momento, in giro per i premi letterari, da Capri all’Isola d’Elba, dal Bancarella al Campiello.
In pochi anni avevo fatto il pieno di personaggi più o meno illustri, che mi davano l’illusione di essere al centro del mondo pulsante. Sì, il mio lavoro per la TV tedesca consisteva in questo: porta...