Cane e padrone / Disordine e dolore precoce / Mario e il mago (Mondadori)
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Cane e padrone / Disordine e dolore precoce / Mario e il mago (Mondadori)

  1. 196 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Cane e padrone / Disordine e dolore precoce / Mario e il mago (Mondadori)

Informazioni su questo libro

Tre racconti ambientati fra la borghesia tedesca degli anni Venti e a Forte dei Marmi, nei primi anni del fascismo. Tre storie brevi nelle quali il grande scrittore tedesco tocca i vertici della narrativa del Novecento.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2014
Print ISBN
9788804451044
eBook ISBN
9788852054884

Cane e padrone

1920
Traduzione di Lavinia Mazzucchetti

Presentazione

Quando la bella stagione fa onore al suo nome ed il canto degli uccelli basta a svegliarmi perché ho chiuso a tempo la giornata precedente, mi piace andarmene, senza cappello, già prima della colazione, una mezz’ora all’aperto, nel viale davanti casa o in quelli più lontani, per respirare un po’ di fresca aria mattutina e partecipare alla gioiosa purità del nuovo giorno, prima che il lavoro non mi riprenda. Sulla scaletta d’ingresso lancio il mio solito fischio di due note, la fondamentale e la quarta inferiore, press’a poco la melodia iniziale del secondo tempo nella Sinfonia Incompiuta di Schubert – un fischio che sembra un nome di due sillabe messo in musica. Non è passato un momento che già, mentre mi avvio al cancello d’uscita, mi giunge all’orecchio, dapprima lontano e quasi impercettibile, poi sempre più vicino e distinto, il tintinnio discreto di una piastrina della tassa municipale che batte contro un collare guernito di metallo: e se volgo il capo, scorgo Bauschan sbucare a corsa disperata dall’angolo posteriore della casa e lanciarmisi addosso, quasi avesse l’intenzione di atterrarmi. Nello sforzo stira un poco il labbro inferiore, scoprendone i denti che splendono candidi al sole mattutino.
Viene dal suo canile posto là sotto la veranda sorretta da pilastrini, di dove certo il mio bisillabo richiamo lo ha fatto balzare, dopo una notte di alterne emozioni, mentre si abbandonava ad un breve sopore crepuscolare.
La sua cuccia, fornita di tendine di tela di sacco, ha il pavimento coperto di paglia, per il che nel suo pelo già un poco arruffato e persino tra le zampe gli rimane spesso impigliato qualche fuscello: questo basta ogni volta a rievocarmi una certa rappresentazione raffinatamente verista dei Masnadieri, nella quale il vegliardo conte Moor sbucava fuori risuscitato dal tetro carcere con fili di paglia infilzati fra le dita dei suoi magri piedi coperti di maglia. Senza volerlo assumo una posa di resistenza all’assalto, giacché quella sua pseudointenzione di far da catapulta per mandarmi a gambe all’aria ha forza suggestiva immancabile. Ma all’ultimo momento, prima dello scontro, sa sempre frenare e deviare, il che è prova del dominio che serba sul proprio spirito e sul proprio corpo: ed allora dà principio, senza peraltro abbaiare – giacché fa poco uso della sua voce sonora ed espressiva – ad una pazza ridda di saluto, zampettando e scodinzolando, non già con il solo specifico strumento della coda, ma bensì con la compartecipazione di tutta la parte posteriore, sino al costato, e poi quasi contrae il corpo intero per farlo scattare in balzi audacissimi e roteare in rapidi giri sul proprio asse – tutto uno spettacolo che però cerca (chi sa perché) di sottrarre ai miei sguardi, trasportando il suo campo d’azione dalla parte opposta a quella cui io mi rivolgo. Ma se appena mi chino e tendo la mano, d’un balzo mi è accanto, e, premuto contro la mia gamba, fermo come una statua, sta lì un poco di sbieco, con le solide zampe puntate a terra, col muso alzato verso il mio volto, scrutandomi bene negli occhi dal sotto in su: la sua immobilità, mentre gli batto sulla spalla mormorandogli a mezza voce parole amichevoli, rivela una intensità di passione pari all’ebbrezza di poc’anzi.
Bauschan è un bracco da ferma a pelo corto – purché si voglia prender questa designazione senza troppa rigidità, cum grano salis, giacché un vero e proprio bracco secondo i trattati, un bracco ortodosso, Bauschan in fondo non è. Prima di tutto è forse troppo piccolo – rimane, debbo insistervi, al disotto delle proporzioni di un cane da ferma ed ha le gambe anteriori non ben diritte, ma un poco volte all’infuori, il che non risponde se non imperfettamente all’immagine ideale di una razza pura. La lieve tendenza alla “bargia”, cioè ad una specie di sacco di pelle a pieghe attorno al collo, che può conferire una certa dignità di aspetto, gli s’addice benissimo, però un allevatore molto severo avrebbe a ridire anche su questo punto, poiché in un bracco, a quanto m’assicurano, la pelle dovrebbe invece essere ben tesa sul collo. Il pelo di Bauschan ha proprio un bel colore, a fondo bruno-ruggine con striature nere. Ma ci si mischia anche il bianco, anzi prevale decisamente sul petto, sulle zampe e sul ventre, mentre il naso schiacciato sembra intinto nella pece. Sul testone e sulle larghe orecchie fredde il nero si mischia al ruggine con screziature vellutate, e fra le qualità più pregevoli del suo aspetto è da noverare il ciuffo, quasi una cresta o uno spazzolino ricciuto, che il pelo bianco forma nel mezzo del petto, sporgendo come lo sterno lucente di un’antica corazza. Può darsi del resto che anche questa arbitraria variegata dovizia del suo manto appaia “incompatibile” a colui che antepone le leggi della specie ai valori della personalità, giacché il bracco classico ha da essere monocromo o pezzato di colore diverso, senza però alcuna tigratura. Ma quello che ci distoglie da una assegnazione schematica di Bauschan ad una razza specifica, è soprattutto un certo complemento peloso spiovente agli angoli della bocca e del muso, cui si potrebbe anche, non senza parvenza di veridicità, dar nome di baffi e basette, e che, veduto sia di lontano sia da vicino, indurrebbe a pensare proprio al tipo del cane pinscher o grifone.
Ma, o pinscher o bracco, che cara e bella bestia è in ogni modo il mio Bauschan, quando mi sta così appoggiato al ginocchio, offrendomi nel suo sguardo tanta intensità di devozione! L’occhio è bello, dolce e saggio, se anche, forse, un poco vitreo e sporgente. L’iride è bruno-ruggine come il pelo, ma in realtà essa circonda soltanto d’un sottile anello l’eccezionale sviluppo delle pupille a riflessi neri, mentre poi il suo colore sembra traboccare nel bianco della cornea e sommergervisi. L’espressione della testa, un’espressione di assennata rettitudine, dimostra la virilità del suo lato morale, che si riflette persino nella struttura fisica del corpo: il torace convesso, sotto il cui pelo teso e lucente si disegnano le costole vigorose, le cosce aderenti, le gambe nervose, le zampe larghe e ben formate – tutto questo parla di baldanza e di maschia virtù, di buon sangue campagnolo di cacciatore. Sì, non v’è dubbio: il bracco ed il cacciatore predominano nella formazione di Bauschan e per conto mio, dirò sempre che è un bracco onesto, benché non vada certo debitore della sua esistenza ad un presuntuoso atto di consanguineo accoppiamento: forse è questo che voglio dire con le mie parole illogiche e frammentarie, mentre gli vado battendo benevolmente la mano sulla schiena.
È lì che mi guarda e ascolta il tono della mia voce, estasiato dagli accenti di deciso consenso alla sua esistenza che io gli prodigo nel mio discorso: poi all’improvviso caccia avanti la testa, apre la bocca e la richiude di colpo, con una specie di morso verso la mia faccia, quasi volesse mangiarmi il naso; certo è una pantomima di risposta ai miei incoraggiamenti, ma ogni volta, come Bauschan d’altronde prevede, mi fa balzare indietro ridendo. È una specie di bacio in aria, fra il tenero e lo scherzoso, che gli è sempre stato caratteristico, mentre non l’ho mai osservato nei suoi predecessori. Subito dopo sembra che, scodinzolando e facendo brevi inchini con aria allegra e imbarazzata, voglia scusarsi della libertà che s’è presa.
Infine usciamo insieme all’aperto.
Par che ci accolga la voce del mare. La mia casa infatti è posta quasi direttamente sulla riva del fiume che passa rapido spumeggiando per ampi balzi degradanti. Da esso la divide un viale di pioppi, una striscia erbosa piantata ad aceri e protetta da cancelletti, ed un sentiero più alto, orlato di tremule altissime, strani giganti simili a salici, la cui bianca lanugine fecondatrice a principio di giugno sparge una nevicata su tutti i dintorni. Risalendo il fiume, verso la città, troviamo dei soldati del genio che si esercitano nella costruzione dei ponti. Rimbombano i loro passi grevi sugli assiti e si odon voci di comando. Dall’altra riva giungono i rumori dell’attività industre, poiché più giù a valle vi è una fabbrica di locomotive che lavora con intensità secondo lo spirito dei tempi e di cui vediamo rosseggiare nell’oscurità ad ogni ora della notte i finestroni illuminati. Nuove locomotive lucenti fanno le loro prove in su e in giù, a volte echeggia la nota di testa di una sirena ululante; e di tanto in tanto un cupo rintronare misterioso scuote l’aria, e dalle ciminiere si eleva denso il fumo, che per fortuna vien quasi sempre trascinato da un vento benigno verso le boscaglie dell’altra riva, senza che varchi il fiume. Così, nell’isolamento quasi campestre di questo paesaggio suburbano, le voci della natura conchiusa in se stessa si alternano con quelle dell’umana attività: e su ogni cosa si adagia la lucente freschezza dell’ora mattutina.
Quando esco così a passeggio son forse le sette e mezzo secondo l’ora estiva, cioè in realtà le sei e mezzo. Con le mani dietro la schiena mi avvio nella timida luce solare per il viale tutto striato dalle lunghe ombre dei pioppi. Di qui non vedo il fiume, ma ne odo l’ampio e placido fluire: dagli alberi giungon fruscii, l’aria è tutta piena del cinguettio, del trillo, del canto singhiozzante degli uccelli; un aeroplano, giungendo dall’est, solca ansimando l’umido chiarore del cielo, e segna la sua scia indipendente; Bauschan mi rallegra frattanto con lo spettacolo dei balzi agili e pronti con i quali supera il basso cancelletto divisorio delle strisce erbose di sinistra. Salta di là e poi di nuovo di qua soltanto perché sa di farmi piacere, perché molte volte ne ho spronato il puntiglio picchiando sul cancello, incoraggiandolo e lodandolo poi. Eccolo infatti venire a me quasi dopo ogni salto, per farsi dire che è un ginnasta audace ed elegante; mi balza addosso rizzandosi sino al mio viso e sporcando col muso il braccio che levo a riparo. Ma questi esercizi li compie anche ad uso di toeletta mattutina: infatti con quei volteggi si liscia il pelo arruffato nella cuccia e perde i fili di paglia del vecchio Moor, che ancora lo deturpavano.
Fa bene camminare così di buon mattino, coi sensi ringiovaniti e l’anima purificata dal benefico bagno e dal beveraggio dismemorante della notte. Ti affacci con fede rinvigorita alla giornata che t’aspetta, ma beatamente ti attardi nel cominciarla, lieto signore di un lasso di tempo straordinario, da nulla gravato, insperatamente posto tra il sogno e la vita, premio concesso alla tua buona condotta. Ti esalta l’illusione di un’esistenza semplice, salda, senza divagamenti, contemplativa e concentrata. L’uomo infatti è incline a ritenere che il suo stato momentaneo, sereno o torbido, pacifico o passionale, sia quello vero, caratteristico e duraturo della sua vita, ed a elevare con la fantasia ogni fugace e felice ex tempore ad una bella regola e ad una sicura consuetudine, mentre invece è in realtà condannato ad essere un eterno improvvisatore, a vivere moralmente alla giornata. Così ora tu credi alla tua virtù e alla tua libertà, mentre respiri l’aria mattutina, e invece dovresti sapere, e in fondo sai benissimo, che il mondo ha pronte le sue reti per impigliarti e che tu probabilmente non più tardi di domattina rimarrai a letto sino alle nove, poiché sarai tornato a casa, eccitato, annebbiato e appassionatamente esilarato, alle due di notte... Non importa. Oggi sei l’uomo dell’alba e della sobrietà, sei il giusto padrone di quel bravo cane da caccia, che va superando a balzi il cancello per dirti la sua gioia di vederti oggi con lui, lontano dal tristo mondo di laggiù.
Seguiamo il viale per cinque minuti all’incirca, sino al punto in cui cessa di essere un vero viale e segue il corso del fiume come piana ghiaiosa; qui l’abbandoniamo, prendendo a destra una strada piuttosto larga, non ancora finita di costruire, con al margine una pista per ciclisti di ghiaia più fine, la quale conduce per boscaglie digradanti verso il pendio che delimita ad oriente la nostra zona, cioè il campo d’azione di Bauschan.
Oltrepassiamo un’altra strada che attraversa boschi e prati ed ha il medesimo carattere di strada del futuro, fiancheggiata solo più su, verso la fermata del tram, da case d’affitto. Un viottolo in discesa ci porta poi in un terreno simile al giardino d’una stazione termale, ma deserto a quest’ora al pari dell’intera contrada. Lungo i vialetti che qua e là s’allargano in rotonde e in lindi campi di gioco per bambini, si allineano panchine; vi sono poi ampi tappeti erbosi, dove si ergono vecchi alberi dalle lunghe chiome pendenti così che si scorge soltanto un breve pezzo dei tronchi – sono maestosi olmi, faggi, tigli e salici argentei, raggruppati come in un parco. Mi compiaccio di quella piantagione accurata, dove posso aggirarmi indisturbato come se ne fossi il padrone. Nulla vi manca, i viottoli sparsi di ghiaia che scendono lungo i dolci pendii sono persino provvisti di cunette in cemento. E fra tutto quel verde appaiono graziose prospettive con a sfondo lontano l’architettura di una delle ville che s’affacciano ai due lati.
M’aggiro tranquillamente per i sentieri trasversali, mentre Bauschan pronto allo scatto, inebriato dall’ampia pianura, si slancia in folli corse al galoppo, inseguendo accanito con voci di sdegno e di gioia un uccellino che ossesso di paura o voglioso di irritarlo gli continua a svolazzar davanti al muso. Ma appena mi siedo su una panchina, mi è accanto e mi si accovaccia ai piedi. È legge infatti della sua vita di correre soltanto quando anch’io sono in moto e di starsene quieto appena mi fermo. Non se ne comprende la necessità, ma Bauschan s’attiene rigidamente a tale norma.
Ha qualcosa di strano, di affettuoso, di comico il sentirlo qui disteso sui miei piedi, ch’egli compenetra del suo calore. Come sempre quando sono con lui, il mio cuore è colmo di letizia e di simpatia. Ha un modo contadinesco di mettersi seduto, con le scapole divergenti e le zampe volte invece in dentro. In quella posa la sua figura appare più piccola e più tozza che non sia e la bianca cresta di peli sul petto più buffa e sporgente; ma ciò è compensato dall’atteggiamento dignitoso del capo all’indietro e dall’intensità di attenzione che vi si rivela...
Tutto è silenzio, quando noi siamo in silenzio. Il mormorio del fiume ci giunge solo indistinto. Allora si accentuano i lievi moti misteriosi all’intorno, sembran farsi più intensi ed eccitanti: una lucertola guizza furtiva, stride un uccello, dal profondo si ode lo scavar di una talpa. Le orecchie di Bauschan si rizzano, per quanto lo consentano i muscoli delle orecchie spioventi; tiene il capo inclinato, per meglio ascoltare; le narici umide e nere vibrano di continuo nell’ansiosa attesa.
Poi si mette in terra senza perder il contatto col mio piede. Lo vedo lì di profilo, nella posa antichissima, composta e solenne degli idoli e della sfinge, erto il capo ed il petto, le gambe aderenti al tronco e le zampe distese. Ha caldo e spalanca la bocca: ecco, la dominata intelligenza del volto si perde in un’espressione bestiale; gli occhi socchiudendosi rimpiccioliscono, mentre di tra i denti candidi e lucenti pende l’umida lingua di corallo.

Come conquistammo Bauschan

Una piacevole donnetta, nera di occhi e ben tornita di corpo, la quale, con l’aiuto della sua non meno appetitosa figliola, eserciva un alberghetto di montagna nei dintorni di Tölz, ci fu mediatrice nella conoscenza e nell’acquisto del nostro cane. Son passati due anni: allora Bauschan aveva sei mesi. Anastasia – tale il nome dell’ostessa – sapeva benissimo che eravamo stati costretti a far ammazzare il nostro Percy, un cane da pastore scozzese aristocratico, affetto da innocua forma psicopatica, il quale invecchiando era stato colpito da un’incresciosa e deturpante affezione cutanea, e che quindi eravamo da un gran pezzo privi affatto di guardiano. Essa ci aveva pertanto comunicato di lassù per telefono di avere in pensione ed in attesa di collocamento il cane che faceva proprio per noi, invitandoci a volerlo ispezionare.
Già l’indomani, poiché i bambini insistevano e l’impazienza dei grandi non era molto inferiore alla loro, salimmo verso le alture di Anastasia e trovammo la padrona nella sua vasta cucina piena di caldi e succolenti sentori, mentre, con le maniche rimboccate ed il colletto aperto, sfaccendava, tutta congestionata in volto, a preparare la cena per i suoi pensionanti, aiutata dalla calma e solerte figliola. Ci salutò cordialmente; ricevemmo subito le sue lodi perché non avevamo tirato le cose per le lunghe, ma eravamo accorsi senz’altro.
Ai nostri sguardi indagatori e curiosi rispose Resi la figlia, guidandoci verso la tavola di cucina, dov’essa si chinò con le mani appoggiate alle ginocchia a rivolgere accenti lusinghieri e incoraggianti verso la tavola. Là sotto, legato ad una gamba del mobile con un laccio logoro, v’era un essere di cui non c’eravamo ancora accorti nella balenante penombra della cucina e alla cui vista nessuno avrebbe potuto trattenere un sorriso di scherno e di pietà.
Se ne stava lì sulle lunghe gambe storte, la coda tra le cosce, le quattro zampe raccostate, il dorso ricurvo, tutto tremante. Forse tremava di paura, ma si aveva piuttosto l’impressione che tremasse per mancanza di tessuto adiposo riscaldante, giacché la misera creatura non era altro che un minuscolo scheletro, una cassa toracica ed una spina dorsale, rivestiti di una pelliccia irsuta e tenuti su da quattro pioli. Teneva le orecchie ricacciate all’indietro, atteggiamento muscolare che basta a spegnere in una fisionomia canina ogni luce di intelligente letizia, e che in quel volto ancora appena abbozzato vi riusciva sin troppo, lasciando sussistere soltanto idiozia ed avvilimento ed insieme una tacita implorazione di indulgenza. Come non bastasse, i baffoni spioventi e le basette sembravano allora in proporzione ancor più sviluppati e aggiungevano al miserevole quadro d’insieme una sfumatura d’ipocondria stizzosa.
Tutti ci curvammo, rivolgendo parole di conforto e di invito al derelitto. Frammezzo al misericordioso giubilo dei bambini giungevano dai fornelli le notizie illustrative di Anastasia sul suo dozzinante. Aveva il nome provvisorio di Lux ed era figlio di onorati genitori, ci disse madama Anastasia con la sua simpatica e tranquilla voce. La madre l’aveva conosciuta di persona e del padre non aveva sentito dire che bene. Lux era venuto al mondo in una fattoria di Huglfing, ed i suoi legittimi proprietari solo per circostanze speciali volevano privarsene a miti condizioni, al qual fine lo avevano portato a lei, considerando la numerosa clientela del suo albergo. Erano venuti in calessino e Lux li aveva seguiti correndo imperterrito fra le ruote posteriori per ben venti chilometri.
Subito, in cuor suo, lo aveva destinato a casa nostra, sapendo che eravamo in cerca di una brava bestia, e si sentiva quasi sicura che avremmo finito per prenderlo. Un’ottima soluzione per tutti! Noi ne saremmo rimasti molto soddisfatti e da parte sua quel poveraccio non sarebbe più stato così solo al mondo, avrebbe avuto un tetto ospitale, e lei, Anastasia, si sarebbe messa il cuore in pace pensando a lui. Non ci lasciassimo prevenire dall’aria che il poverino aveva in quel momento. Era confuso e smarrito dall’ambiente estraneo, ma in brevissimo tempo si sarebbe veduto da quali ottimi genitori egli provenisse.
«Già, ma evidentemente non eran proprio creati l’uno per l’altro...»
Ma sì, in quanto almeno erano ambedue bestie eccellenti. Anche nel rampollo vi erano ottime doti: stava garante lei, Anastasia. Prima di tutto era straordinariamente moderato nelle sue esigenze, qualità non trascurabile ai tempi che corrono: sino allora s’era accontentato di bucce di patate. Ce lo prendessimo a casa, in prova, senza impegno alcuno. Lo avrebbe accettato di ritorno e ci avrebbe restituita la piccola somma avuta, se non fossimo riusciti ad affezionarci a lui. Lo dichiarava schiettamente, senza timore di essere presa in parola. Dal come conosceva lui e noi – cioè ambedue i contraenti – era persuasa che gli avremmo voluto bene e che non avremmo più pensato a staccarcene.
Molte cose aggiunse su questo tono, col suo parlar facile e piacente, mentre s’affaccendava attorno ai fornelli e ne faceva di tanto in tanto sprizzare alte magiche fiamme. Poi si accostò a Lux, gli aprì il muso con ambedue le mani per mostrarci i bei denti ed anche, chissà perché, il palato di lucido corallo striato.
Alla nostra domanda specifica se Lux avesse fatto il cimurro, rispose con una punta d’impazienza che non era in grado di dircelo. Quanto alla grandezza che avrebbe raggiunta, ribatté pronta che sarebbe stata al massimo quella del nostro povero Percy. Si continuò così per un bel pezzo, fra le insistenze calorose di Anastasia, rafforzate dalle preghiere dei bimbi, e la nostra già scossa e quasi debellata perplessità. Alla fine chiedemmo un breve termine per riflettere, che ci fu concesso di buon animo, e scendemmo pensosi a valle, analizzando e discutendo le nostre impressioni.
Ma si intende che i bambini eran già innamorati di quella quadrupede miseria legata alla gamba della tavola, e noi adulti ci davamo invano l’aria di deridere la loro credula assenza di buon gusto e di senso critico: noi pure sentivamo l’aculeo fitto in cuore e comprendevamo che sarebbe stato ormai arduo cancellare dalla nostra memoria l’immagine del povero Lux. Che ne sarebbe stato di lui se lo disdegnavamo? In quali mani sarebbe mai capitato? Davanti alla nostra fantasia si ergeva una figura misteriosa e terribile: l’accalappiacani, dal cui tremendo intervento avevamo salvato il nostro diletto Percy con due cavalleresche fucilate e un onorato sepolcro ai confini del giardino. Se avessimo voluto abbandonare Lux ad una sorte malsicura e forse crudele, avremmo dovuto ben guardarci dal conoscerlo e dal contemplare il suo muso di bamboccio barbuto e baffuto: una volta consci della sua esistenza, pareva ci fosse stata imposta una responsabilità che solo a forza e con pena era dato rinnegare.
Così accadde che già il terzo giorno ci vide risalire le miti pendici di quell’estremo contrafforte alpino. Non già che avessimo deliberato l’acquisto, ma avevamo la chiara intuizione...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Introduzione di Roberto Fertonani
  4. Cronologia
  5. Bibliografia
  6. Cane e padrone
  7. Disordine e dolore precoce
  8. Mario e il mago
  9. Copyright