
- 264 pagine
- Italian
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eBook - ePub
Informazioni su questo libro
La Grande Guerra non ha eroi. I protagonisti non sono re, imperatori, generali. Sono fanti contadini: i nostri nonni. Aldo Cazzullo racconta il conflitto '15-18 sul fronte italiano, alternando storie di uomini e di donne: le storie delle nostre famiglie. Perché la guerra è l'inizio della libertà per le donne, che dimostrano di poter fare le stesse cose degli uomini: lavorare in fabbrica, guidare i tram, laurearsi, insegnare. Le vicende di crocerossine, prostitute, portatrici, spie, inviate di guerra, persino soldatesse in incognito, incrociano quelle di alpini, arditi, prigionieri, poeti in armi, grandi personaggi e altri sconosciuti.
Attraverso lettere, diari di guerra, testimonianze anche inedite, La guerra dei nostri nonniconduce nell'abisso del dolore: i mutilati al volto, di cui si è persa la memoria; le decimazioni di innocenti; l'«esercito dei folli», come il soldato che in manicomio proseguiva all'infinito il suo compito di contare i morti in trincea; le donne friulane e venete violentate dagli invasori; l'istituto degli «orfani dei vivi», dove le mamme andavano di nascosto a vedere i «piccoli tedeschi» che erano pur sempre loro figli.
Ma sia le testimonianze di una sofferenza che oggi non riusciamo neppure a immaginare, sia le tante storie a lieto fine - come quelle raccolte dall'autore su Facebook - restituiscono la stessa idea di fondo: la Grande Guerra fu la prima sfida dell'Italia unita; e fu vinta.
L'Italia poteva essere spazzata via; dimostrò di non essere più «un nome geografico», ma una nazione. Questo non toglie nulla alle gravissime responsabilità - che il libro denuncia con forza - di politici, generali, affaristi, intellettuali, a cominciare da D'Annunzio, che trascinarono il Paese nel grande massacro. Ma può aiutarci a ricordare chi erano i nostri nonni, di quale forza morale furono capaci, e quale patrimonio portiamo dentro di noi.
Attraverso lettere, diari di guerra, testimonianze anche inedite, La guerra dei nostri nonniconduce nell'abisso del dolore: i mutilati al volto, di cui si è persa la memoria; le decimazioni di innocenti; l'«esercito dei folli», come il soldato che in manicomio proseguiva all'infinito il suo compito di contare i morti in trincea; le donne friulane e venete violentate dagli invasori; l'istituto degli «orfani dei vivi», dove le mamme andavano di nascosto a vedere i «piccoli tedeschi» che erano pur sempre loro figli.
Ma sia le testimonianze di una sofferenza che oggi non riusciamo neppure a immaginare, sia le tante storie a lieto fine - come quelle raccolte dall'autore su Facebook - restituiscono la stessa idea di fondo: la Grande Guerra fu la prima sfida dell'Italia unita; e fu vinta.
L'Italia poteva essere spazzata via; dimostrò di non essere più «un nome geografico», ma una nazione. Questo non toglie nulla alle gravissime responsabilità - che il libro denuncia con forza - di politici, generali, affaristi, intellettuali, a cominciare da D'Annunzio, che trascinarono il Paese nel grande massacro. Ma può aiutarci a ricordare chi erano i nostri nonni, di quale forza morale furono capaci, e quale patrimonio portiamo dentro di noi.
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Informazioni
Spoon River su Facebook
«Vi racconto la storia della mia famiglia»
Mentre scrivevo il libro, ho chiesto ai miei amici su Facebook (che purtroppo frequento pochissimo) di raccontarmi dei loro nonni alla prima guerra mondiale. L’invito è stato rilanciato dalla rivista dell’Anla (l’associazione dei seniores d’azienda). Ho ricevuto molte piccole storie, talora commoventi, che considero tesori preziosi, salvati dall’immenso oceano della dimenticanza. Per questo desidero metterli in comune con le lettrici e i lettori.
«Il gentiluomo morto in duello»
Mio bisnonno Carlo Zinzler era un nobile, mezzo romano mezzo austriaco, che però all’inizio del secolo era diventato ufficiale di cavalleria in Italia: Reggimento Piemonte Reale. Poi per vicissitudini strane si era trasferito con moglie, madre, nonna e servitù in Argentina. Qui aveva messo al mondo tre figlie.
Entrata l’Italia in guerra, il nostro eroe – credimi: mia nonna, sua figlia, lo considerava effettivamente così – piglia baracca e famiglia, varca l’Atlantico, schiva le mine della Royal Navy e si rimette in uniforme. È tenente, ma passa in fretta a capitano. «Nell’entrare sulla rotta guerriera degli antenati», così si legge in calce alla fotografia inviata alla madre dalla zona di operazioni. Combatte. Viene decorato con la croce di guerra. La madre, figlia di una dama di compagnia della regina, riesce a farlo trasferire a Tolfa, vicino Roma, come comandante di un campo di internamento di prigionieri austro-ungarici. Ma Carlo non ne vuole sapere: non ha attraversato l’Atlantico per stare nelle retrovie. Torna quindi in prima linea, dove si distingue al punto da meritare una medaglia di bronzo, ma anche assumendo atteggiamenti di indisciplina. Per esempio prende a pugni un superiore per motivi poco chiari. Finisce la guerra e organizza i primi campionati italiani di pugilato. Scrive un libro sulla boxe, che Hoepli ha ancora in scaffale e tutt’oggi è riconosciuto come il padre della boxe in Italia. Muore in circostanze misteriose – forse un duello – nel 1922, dopo che lo sterminato patrimonio argentino se l’era divorato il suo amministratore mentre il fu Carlo combatteva sul Piave.
Antonio Picasso
«Una croce sotto il cipresso»
Mio nonno Giuseppe Casagrande, nato a Tarzo nel 1898 e poi residente a Refrontolo, due paesi della provincia di Treviso, è stato arruolato in fanteria prima della disfatta di Caporetto. È stato inviato al fronte nel ’18 e ha combattuto nella battaglia del Solstizio sul Piave, quando attorno al 21 giugno gli italiani fermarono l’ultima disperata offensiva austriaca. Parlava poco di quella guerra, era solo un ragazzo. Diceva che i fanti vivevano in trincea, quasi senza cibo, mangiando patate che facevano bollire loro stessi. Ogni giorno però ricevevano le razioni di tabacco da masticare per tenere lontana la fame e sopportare la fatica. Della battaglia non ha mai parlato: troppi morti e troppe sofferenze. Poco prima di morire ha ricevuto l’onorificenza di Cavaliere di Vittorio Veneto di cui era molto fiero. Il suo paese era occupato dal nemico. A Refrontolo, dopo Caporetto, si era insediato il comando generale dell’esercito austroungarico, a Villa Spada. Su un colle vicino, proprio di fronte al Montello, era stato appostato un mortaio con cui bombardavano il fronte italiano oltre il Piave. La chiesa di Refrontolo era diventata l’ospedale per i soldati austriaci feriti. Un fratello di mio nonno è morto in guerra: ha una croce con il suo nome sul vialetto che porta al cimitero di Refrontolo, sotto un antico cipresso.
Graziella Casagrande
«Un giorno mi disse: ho ucciso un uomo»
Mio nonno, Antonio Bernacchioni, classe 1900, è morto nel 1992. Voglio lasciarle questo ricordo senza nessuna ambizione che non sia quella di manifestare un affetto che tarda a sbiadire nel tempo per una persona che con coraggio ha affrontato una lunga vita, rimanendo sempre onesta e generosa.
Da bambino mi hanno sempre affascinato le sue storie, soprattutto quando mi parlava di una vita senza luce, telefono, acqua corrente. Una vita semplice quella del nonno da bambino, in una casa toscana in provincia di Arezzo dove a garantire l’ordine familiare si ergeva indiscusso un padre con un nome da progenitore, Noè.
Quando da poco avevo cominciato a studiare a scuola la storia, il nonno mi raccontava con orgoglio di come in qualche modo nel suo piccolo l’aveva attraversata. Mi raccontava episodi scarni, risparmiandomi probabilmente le parti più dure e crude della guerra; quando finiva di raccontare o quando io ne avevo a sufficienza, lo vedevo perdersi nella memoria e spesso lo sentivo canticchiare le canzoni del Piave («il Piave mormorava calmo e placido al passaggio / dei primi fanti il ventiquattro maggio…»).
Ho ritrovato da poco nascoste nella sua cantina le carte con cui fece domanda, all’inizio degli anni Sessanta, per la nomina a cavaliere di Vittorio Veneto. Fu una scelta dettata forse anche da ragioni di lavoro, per integrare un magro stipendio da colletto bianco, ma penso soprattutto che fu un motivo di orgoglio a fargli fare quella domanda, come se volesse dimostrare a se stesso e agli altri che lui, cresciuto nelle campagne senza istruzione, aveva attraversato indenne due guerre, cambiamenti epocali nella vita del paese, si era trasferito in città con la famiglia e da guardiacaccia era diventato impiegato, aveva costruito una famiglia. Fatto sta che ottenne la nomina e non smise più di farsi chiamare Cavaliere. Ma quel che passò in pochi mesi al fronte venne da lui quasi rimosso, le foto e le lettere nascoste in una valigia sull’armadio. Tenne in evidenza solo le medaglie dell’Ordine di Vittorio Veneto e la nomina controfirmata da Aldo Moro, oltre a una foto, che conservo ancora, in divisa da bersagliere.
Quelle carte da poco ritrovate confermano quello che mi disse più di 30 anni fa. A poco più di 18 anni, venne richiamato alle armi; era il marzo 1918, la guerra quasi al termine. Inquadrato nel II reggimento bersaglieri, si trovò in mezzo a tanti ragazzi, poco più che adolescenti, provenienti da terre di cui a malapena aveva sentito parlare, essendo andato a scuola solo fino alla terza elementare. Era a volte difficile, ricordo perfettamente quando me lo disse, capire la loro lingua e spesso anche quella degli ordini dati dai superiori. Era un Paese, l’Italia, ancora tutto da costruire. In una foto che mi mostrò figurava tra i suoi compagni anche un giovanissimo Eduardo De Filippo.
Partirono da Roma nell’ottobre 1918 e dopo un giorno di viaggio in treno arrivarono a Quaderni, nella zona di Verona. Partecipò alla battaglia di Vittorio Veneto e all’avanzata degli ultimi giorni di guerra. La sua esperienza al fronte fu prima nella zona del Carso, poi dalle parti dell’Istria (Umago). Non so bene quali atrocità visse e che sofferenze patì, perché non ne volle mai parlare. So solo che una volta mi disse che in guerra aveva ucciso un uomo. Ricordo bene che lo disse quasi senza volerlo, con un dolore e una sofferenza negli occhi, che portava con sé a più di 70 anni di distanza. Lui cattolico e allo stesso tempo socialista, portò con sé nel silenzio questo peso per tutta la vita. Non mi raccontò molto di come avvenne, un po’ per pudore nei miei confronti visto che ero appena un ragazzo, ma soprattutto credo per questo senso di rimpianto e angoscia. Dalle poche parole che mi disse compresi che si trovò con i compagni a respingere un assalto in trincea; uccise un povero austriaco con la baionetta. Credo non ci possa essere choc più grande per un ragazzo di appena 18 anni. Non me ne parlò mai più, né mia nonna a cui poi in seguito chiesi informazioni sapeva dirmi altro della guerra del nonno, malgrado fosse vissuta con lui per quasi 60 anni.
È una piccola storia, me ne rendo conto, che non comprende racconti di eroismo o nuovi dettagli sulla dura vita del fronte. È una storia che sta tutta nello sguardo doloroso e malinconico di un vecchio, che di nascosto ha portato con sé un fardello per quasi 75 anni.
Gianluca Capri
«Legato a un palo, ma il nemico non sparò»
Mio nonno Francesco Negro, di cui porto il nome, classe 1892, è ormai morto da parecchi anni. Durante la guerra di trincea lui caporalmaggiore era stato insultato da un soldato. Come reazione gli aveva sferrato un pugno. Per punizione mio nonno è stato legato a un palo fuori dalla trincea per 24 ore in balìa dei cecchini nemici. In tutto questo tempo mai nessuno gli ha sparato. Un episodio simbolico del fatto che al di là delle guerre l’umanità fra persone contrapposte può e deve uscire.
Mio nonno ha fatto tutta la guerra di trincea. Noi siamo di Acqui Terme, in Piemonte. Quando veniva a casa in licenza, una volta ogni anno, si fermava nel piccolo giardinetto di famiglia e sua madre, mia bisnonna Margherita Topino di Priocca, lo faceva svestire completamente e gli faceva il bagno perché era pieno di pidocchi e di pulci. Dormiva poi a terra perché non riusciva più a dormire in un letto normale.
La consuetudine del palo serviva a terrorizzare i soldati ed evitare scaramucce o disobbedienza fra loro. Queste ventiquattr’ore al palo provocavano ancora in lui il pianto, quando me lo raccontava nei giorni in cui alle elementari io rimanevo a casa da scuola perché affetto da qualche malattia dei bambini. Soprattutto perché c’era l’umiliazione di venire esposto al fuoco nemico da parte di quelli che riteneva amici.
Francesco Negro
«Lo mandarono a recuperare Francesco Baracca»
Mio padre Vittorio era nato a Fossano nel 1900, nel mese di aprile. L’inizio della sua vita l’ha trascorsa in un collegio, perché i suoi genitori erano venuti a mancare. A scuola ha appreso la professione di tipografo. Così è andato a Torino e ha mandato avanti una tipografia. Ma in quel periodo non era bella cosa per un giovane operaio andare sotto i signorili portici di via Sacchi, con il berretto sulle ventitré. Così lo trovano le Guardie Regie, gli chiedono i documenti e lo spediscono a Pinerolo, nel corpo degli alpini.
Le regole sono ferree: non bisogna andare sotto i portici, riservato agli ufficiali; vietato entrare nei bar non idonei alla truppa. Ma mio padre non la trova una cosa giusta, così con altri frequentano un’osteria. Una sera dalle parole passano alle mani e sfasciano il locale. Il proprietario avverte gli ufficiali suoi clienti. Al rientro in caserma, nelle prime ore del giorno, trova il suo bagaglio in mezzo al cortile con cambiamento di destinazione: non più alpino, bensì Ardito; destinazione, prima linea. Come mi raccontava non aveva nessuna arma da fuoco, solo una baionetta, e quando lo mandavano all’assalto prima lo obbligavano a bere del liquore in modo disumano: grappa, rhum e altre porcherie. Tutto questo per non rendersi conto di quello a cui andavano incontro. I suoi compagni erano o esaltati o persone in punizione, come mio padre. In questi assalti ha avuto due ferite alle mani, e sul campo o lì vicino è stato operato, gli hanno ricucito i tendini delle dita. Ho anche una sua fotografia nell’ospedale da campo.
Uno degli assalti, o meglio una delle sue missioni, fu recuperare Francesco Baracca, l’asso dell’aviazione, dopo due giorni dal suo abbattimento. Pensa che lui non avrebbe neppure dovuto andare a fare il militare, perché era il capofamiglia; ma in tempo di guerra queste cose non venivano prese in considerazione.
Ho una sua medaglia di bronzo. Dopo la guerra andò a Bengasi in cerca di lavoro, poi rientrato a Torino andò a lavorare nella tipografia della «Stampa» in piazza Solferino. Anch’io sono stato tipografo, quando i giornali si facevano con il piombo.
Luciano Pellizzari
«La mia collana è sua se…»
Mio nonno Baldassarre De Luca, riformato a causa di una errata riduzione di frattura al braccio, rimasto rigido, era all’epoca il più giovane funzionario del Regno d’Italia e svolgeva le sue funzioni al ministero della Guerra. Ai tempi della famigerata disfatta di Caporetto, il suo ufficio era assai frequentato da chiunque cercasse di far richiamare dal fronte qualche suo caro, o di evitare che vi venisse mandato. Baldassarre raccontava che una gran dama, con una collana di perle vere lunga fino ai piedi, fece capire che se ne sarebbe privata se il proprio figlio, ufficiale, fosse stato richiamato a casa. Inutile dire che mio nonno fece altrettanto sottilmente capire alla gentildonna che non poteva fare proprio nulla…
Carla Franzini
«Da quanto tempo non ripetevo il suo nome…»
Mio nonno materno, cavaliere di Vittorio Veneto, ha vissuto tutta la vita dopo il 1918 ricordando non la guerra, ma l’esperienza che quella guerra gli aveva regalato. Quel conflitto infame gli aveva portato via tanto, a cominciare dal suo lavoro: al ritorno dovette fare l’operaio siderurgico, nonostante i suoi studi di musica. La spagnola aveva scardinato la sua numerosa famiglia. Ma quella guerra l’aveva davvero portato nel mondo: da un paesino della montagna pistoiese, il soldato semplice Alfredo Giani (da quanto tempo non ripetevo il suo nome…) fu catapultato nel Nord-Est d’Italia e lì, sul fronte, sul Carso, con la melodia del Piave che mormorava, conobbe altri Italiani: umbri, padani, napoletani, siciliani… E li ricordava tutti, un vero elenco telefonico di soldati. La sua storia era quella storia.
Patrizia Solaro
«Il nonno cominciò la decimazione»
Mio nonno, Aurelio Zardini, classe 1895, all’età di 18 anni ricevette la chiamata alle armi. Partecipò alla battaglia dell’Ortigara. A me bambina raccontava gli aneddoti di quelle giornate.
Un segno tangibile è l’elmetto che conservo, con i fori causati da una pallottola che lo attraversò, scalfendo la testa del nonno, che io accarezzavo cercando di investigare quel piccolo solco lasciato dalla pallottola. Ora, da adulta, il suo elmetto mi racconta quanto non potevo capire allora.
È stato proprio il nonno a guidare il primo plotone durante l’attacco sull’Ortigara, ad appena 22 anni, eseguendo gli ordini trasmessi al telefono dal generale Cadorna. Ho ancora l’attestato della medaglia d’argento, dov’è scritto che condusse «pronto e ardito» l’attacco; ferito una prima volta, continuò all’arma bianca, poi venne portato in ospedale solo dopo una seconda ferita più profonda.
Papà mi ha anche raccontato della decimazione che aveva iniziato a fare, perché Cadorna aveva ordinato l’attacco ma il plotone si rifiutava. Allora mio nonno iniziò la decimazione. Prima di terminarla il plotone decise di procedere unito, allora lui disse: «Io farò strada e sarò il primo». Però papà mi ha anche raccontato che il nonno in quel frangente aveva avuto timore che gli sparassero alle spalle.
Dopo le ferite sull’Ortigara, il nonno ottiene un congedo per andare a casa dai miei bisnonni, a Marano, in Valpolicella. Allora la mia bisnonna, troppo contenta di avere il figlio a casa, corre dal generale Graziani, che all’epoca risiedeva da quelle parti, chiedendo il favore di non far ripartire il figlio, appena arrivato a casa dopo due ferite. Due giorni dopo il generale Graziani inviò il nonno sull’Adamello.
Su entrambi i fronti (Ortigara e Adamello) il nonno, come raccontava a me bambina, era solito farsi la barba, la mattina presto, con la neve al posto della schiuma, mentre dall’altra parte della trincea, alla stessa ora, facevano la stessa cosa gli ufficiali austriaci. Mentre si consumavano queste abitudini, si facevano cenno con la mano, quasi per salutarsi, pronti poche ore dopo a riprendere la battaglia. Del nonno e di uno dei suoi sette fratelli, Ottavio Zardini, possiedo la cassetta delle armi, in legno, dove appunto venivano riposte la baionetta e le munizioni. Un’iscrizione in metallo riconduce all’appartenenza.
Anche mia nonna materna veniva da una famiglia numerosa: era l’ultima di nove figli. Viveva in un’altra parte della campagna veneta, a Marcellise, frazione di San Martino Buon Albergo. Mi raccontava che all’uscita della scuola sentiva spesso suonare gli allarmi, ad annunciare le bombe austriache in arrivo. Le alternative erano due: o correre al rifugio più vicino; o gettarsi nei cespugli. E io ho sempre in mente l’immagine di una bimba di otto anni, la stessa età che avevo io quando ascoltavo i suoi racconti, che si getta nei cespugli per proteggersi. Uno dei suoi fratelli morì in guerra. Aveva poco più di vent’anni.
Francesca Zardini
«L’ultima lettera alla madre»
Mio padre custodisce una lettera originale di un suo zio morto a 28 anni nel novembre 1915, rivolta alla mamma e ai genitori e scritta tre mesi prima di morire. La riporto in maniera testuale, anche con le sgrammaticature:
«Giorno 9 agosto 1915. Carissimi Genitori, non appena ho ricievuto la vostra amatissima lettera subito mi suplico a scrivervi onde farvi sapere il mio ottimo stato di salute come pure mi sono rallegrato di voi tutti di famiglia grazia a Dio. Dunque Cari Genitori Con la vostra amata lettera aspett...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- Copyright
- I. La vittoria dei nostri nonni
- II. Un ragazzo del ’99
- III. Un diario di guerra
- IV. Sante e puttane
- V. Inutili crudeltà
- VI. La misteriosa vedova di Nimis
- VII. Con il coltello tra i denti
- VIII. La spia e l’inviata di guerra
- IX. Poeti in armi
- X. «Sempre con quei che le ciapa»
- XI. «Quanto mondo ci restava da vedere?»
- XII. Maria bergamas e il milite ignoto
- XIII. Don Giovanni in Galizia
- XIV. La nostra Anna Frank
- XV. Papi e dittatori in trincea
- XVI. La memoria delle donne
- XVII. Alpini e cani
- XVIII. Lo stupro del Friuli
- XIX. Ecce homo
- XX. «L’esercito dei matti»
- XXI. L’ultimo fante
- Spoon River su Facebook
- Una lettera dal fronte
- Ringraziamenti
- Referenze fotografiche
- Inserto fotografico