Attraverso l’ordine, affrontare il disordine; attraverso il silenzio, affrontare il clamore – è questo il metodo per controllare la prontezza mentale.
SUNZI, L’arte della guerra
Yoshitsune udì i cavalli al galoppo. Si fermò per un attimo, come per riprendere fiato. Ma doveva continuare la sua corsa. Lo braccava un nemico implacabile.
Aveva conosciuto giorni migliori, nel fragore delle battaglie. E aveva sconfitto gli odiati Taira, pericolosi nemici del suo clan. Qualcuno poteva ancora minacciarlo?
Si muoveva nella macchia, come una belva ferita. Non poteva farsi scoprire. C’era una taglia sulla sua testa, e molti sarebbero stati felici di catturarlo. Che altro poteva fare, se non agire con cautela?
Non sapeva da chi recarsi. Lo avrebbero cercato ovunque. Chi? Chi voleva la sua testa come trofeo?
Yoshitsune lo sapeva, ma una parte di lui non voleva crederci. Il fratello, Yoritomo, era il suo nemico mortale. Quell’ingrato intendeva sbarazzarsi di lui, quasi fosse una mosca fastidiosa, con un colpo solo! E dire che l’aveva aiutato, e che senza di lui i Minamoto non si sarebbero mai impadroniti del potere!
Ora tutto sembrava sepolto. Solo l’odio del fratello, quello sì, lo sentiva ancora intorno a sé. Avvertiva il suo fiato sul collo, e la minaccia di morte che pendeva sulla sua testa. E pensare che avrebbe potuto essere lui il leader del Giappone, al posto di Yoritomo!
Rifletté sugli eventi più recenti, che lo avevano spinto alla fuga. «Yoritomo non è un soldato. Sono io il vero samurai. Lui si trova a suo agio tra le scartoffie e le leggi. Può essere un bravo comandante, non c’è dubbio, ma non si lancia nella mischia. Non è un uomo d’azione, lui!»
Il risentimento agitava il suo cuore. La delusione del guerriero era atroce. Credeva di essere ricompensato, e invece il fratello lo aveva bandito! Lo faceva cercare come un animale infuriato, da eliminare al più presto. Poi la sua mente ritornò alla battaglia.
Era l’ultima fase della guerra dei Gempei, che vedeva schierati i Taira contro i Minamoto, cioè il vecchio e il nuovo, i privilegiati di un tempo e i nuovi signori in cerca di fortuna. Yoshitsune aveva spinto il suo esercito a tutta velocità , e sfrecciava come un fulmine! Aveva coperto in breve tempo una distanza che normalmente richiedeva diversi giorni di viaggio. E tutti erano stanchi.
«Comandante, i cavalli hanno bisogno di riposo. Non possiamo proseguire questa notte!»
«Non c’è altra scelta. Siete combattenti nati, e sapete che vi attende uno scontro decisivo. Tanto peggio per i cavalli, li abitueremo ai nostri ritmi!»
Poi Yoshitsune era rimasto solo, in attesa della lotta. La battaglia era imminente, e non poteva essere rinviata. Da tempo i due clan si guardavano a vista, e ognuno desiderava una mossa falsa dell’altro. Ma nessuno la commetteva, e ci si perdeva in scaramucce, magari con altri clan. Si lasciava credere che la posta in gioco fosse un’altra, anziché il predominio del Paese. Solo Yoshitsune poteva sconfiggere i Taira.
«Occorre una grande abilità . Essi appaiono invincibili!» Yoritomo era stato chiaro, ordinando al fratello di impegnare tutte le sue risorse. E Yoshitsune aveva raccolto la sfida, consultandosi con i suoi più stretti collaboratori. Conosceva l’arte della guerra, e seguiva una strategia personale molto efficace. «Si deve agire rapidamente, senza dare all’avversario il tempo di accorgersi della minaccia! Egli non si renderà conto del pericolo, né che perderà la vita!»
Il ragionamento non faceva una grinza, e i comandanti si stupivano della sua determinazione.
«Dove sono accampati i Taira?»
«Nel castello di Ichinotani, comandante, ai confini delle province di Settsu e Harima.»
«Bene, li attaccheremo con il favore della notte.»
Anche questa era una decisione da grandi strateghi, gli unici che conoscano i vantaggi dell’oscurità . Essi sanno che la vittoria arride facilmente in queste circostanze. Infatti, fu un enorme trionfo.
Dopo le grida di giubilo, per un attimo non si udì più nulla. Innumerevoli cadaveri di entrambi i fronti restavano sul campo. Ma il contingente dei Minamoto aveva vinto: era questo che importava. Da lontano, le fiamme del castello si libravano nel cielo. La notte si tingeva di rosso, mentre il buio si diradava. La tattica del blitz aveva funzionato.
«Che facciamo? Il nemico è in fuga!»
«Non perdiamo tempo a inseguirlo. Accontentiamoci della vittoria.»
Yoshitsune non intendeva infierire, e si godeva il trionfo. Bisognava attendere un’altra occasione, per distruggere definitivamente i Taira.
La storia dei Minamoto si incrocia con quella del Giappone. Questa potente famiglia attinge a una serie di miti che costellano la cosmologia del Paese. Il nesso è diretto, e persuasivo. Si allude a un tempo di dèi ed eroi. Di notte, al fuoco dei bivacchi gli uomini della preistoria narrano saghe e leggende ancestrali, che troveranno spazio nelle opere letterarie più remote, il Kojiki e il Nihonshoki. Riferiscono della creazione e della coppia divina: Izanagi e Izanami. Per la prima volta si traccia una dualità , il maschile e il femminile. Queste prime creature scuotono le acque degli oceani con una lancia corallina, tempestata di gioielli. E il mondo deriva da un’arma. Dalle gocce che se ne sprigionano si compongono le isole dell’arcipelago nipponico. È il centro dell’universo. Honshu, la più vasta, Kyushu, Shikoku, e Hokkaido, la più remota: queste le principali. Nascono fiumi, alberi e montagne. Il cosmo riceve un primo assetto.
Si accenna a violenze e assassinii. La coppia divina si unisce in matrimonio, procreando un’intera stirpe. Ma il dio del fuoco reca gravi tormenti alla madre. E il padre interviene, uccidendolo. La prima violenza della Storia, analoga alla morte di Abele per mano di Caino. Poi Izanagi si precipita sulle orme della moglie, scivolata negli inferi. Imita Orfeo, e tenta di riportarla alla luce. Ma l’impresa fallisce, e ritorna sconsolato, sopraffatto dal rimorso. Come se si fosse accorto solo allora di aver stroncato la vita del figlio! Non dimenticherà di purificarsi con attente abluzioni, imitate dai samurai: sorgono la ritualistica e il cerimoniale.
La primogenita è destinata a una sorte migliore. La gentile Amaterasu è la divinità solare perseguitata dal fratello, Susano-o. Questi ha un’indole crudele, e ama scagliarle addosso carcasse di animali. È un modo violento per dichiararle il suo amore. La poverina, impaurita, corre a nascondersi. Ma si chiude in una caverna, e il mondo perde la sua luce. Una notte eterna stende il suo manto ovunque. I primi uomini corrono a consultarsi: richiameranno la dea in vita, a ogni costo, per dissipare il buio. Si appellano a una divinità ciclopica, che detiene i segreti della forgiatura delle spade. Presentano alla dea una collana e uno specchio. Lei, da narcisista, ne è attratta, e resta abbagliata dalla sua stessa bellezza riflessa nello specchio. Si rimira, e non sa chi stia guardando! La porta della caverna, intanto, si chiude alle sue spalle. Torna la luce nell’universo.
Amaterasu eredita la terra: è un diritto di primogenitura che non esclude la femmina. Vi invierà il nipote Ninigi in avanscoperta, per governarla. Gli affida tre preziosi, che gli torneranno utili: lo specchio, un monile e la spada. Simboleggiano la conoscenza, la sovranità e la forza, i valori del mondo umano. Lo shintoismo li farà propri, esibendoli ai figli del Giappone.
Jimmu, il nipote di Ninigi, diviene il primo imperatore. Tra gli dèi e la famiglia dei sovrani si stringe un forte vincolo. Che non si interromperà mai. Jimmu usa la spada in imprese d’eroismo, affrontando nemici di ogni specie. È un dio, oltreché un essere umano. Tutti i samurai attingono a questa figura, incluso Yoshitsune, la belva braccata. Tutti vi coglieranno una dimensione sovrumana, con azioni valorose. Secondo la tradizione, Jimmu riceve l’investitura nel febbraio del 660 a.C.
In quest’epoca, il mondo è vivo e animato. Tutto possiede uno spirito o kami, il termine che verrà a significare «dio». Le caverne, il mare, le foreste e i monti sono simboli di un potere più elevato, come il mana della Nuova Zelanda. Lo shintoismo riprende queste concezioni, anche nella denominazione: «via degli dèi o degli spiriti». La natura è grande, e mostra ovunque la sua autorevolezza. Nei luoghi di maggior concentrazione del soffio vitale sorgeranno templi e monasteri: ricettacoli di energie positive. Lo shintoismo è un’esaltazione della natura, anziché una visione del mondo. Yoshitomo, un esponente dell’illustre clan dei Minamoto, si chiederà in questi luoghi i motivi di una sconfitta. Rivolgerà un’accorata perorazione alla sua spada, cercando di capire perché ha smarrito il suo kami, trovandosi in difficoltà . La mente del samurai torna ai ricordi ancestrali della propria razza. E la spada si rivela una estensione del suo stesso corpo, di una forza sovrumana che ricorda Amaterasu.
I successori di Jimmu sono avvolti nella nebbia. Difficile identificarvisi, nella ricerca di un eroe. Poi il decimo della stirpe edificò i templi di Ise, devoti al culto di Amaterasu. Combatteva, invocando le divinità perché gli dessero la vittoria. Sujin, questo era il suo nome, visse intorno al 200 a.C. Nelle occasioni d’emergenza si rivolgeva a uno shogun, un condottiero incaricato di sedare rivolte e tumulti. Un’altra tradizione prese corpo. Il legame con i Minamoto si fece ancora più stretto: la loro famiglia fornì il primo di una lunga serie di capi di governo. Yoritomo, che emise l’ordine di cattura nei confronti del fratello-rivale Yoshitsune, inaugurò la lista. Non era un guerriero, e ciò ne screditava il pedigree. Yoshitsune e Yoritomo erano due figure complementari: il lottatore e il politico. Entrambi si fregiarono dell’etichetta di samurai.
Yoshitsune si lanciava all’attacco in groppa a un imponente stallone nero, simbolo delle potenze infernali. Una stampa ce ne fa quasi udire il nitrito minaccioso, mentre il suo padrone lo domina con sicurezza. Il samurai reca un lungo arco su una spalla, e indossa un’armatura multicolore. Il suo viso è ornato dai baffetti, e l’espressione denuncia l’attesa di una lotta. Ha la spada appesa al fianco, pronto a usarla.
Per trovare un prototipo di Yoshitsune nel Giappone delle origini si dovrà attendere Yamato Takeru, figlio dell’imperatore Keiko, il successore di Sujin. Ancora una volta il mito dibatte con la Storia. Il giovane era violento e indisciplinato. Un giorno uccise il fratello per una lieve infrazione delle regole, un ritardo a cena (!). Insomma si sbarazzò di un rivale, in uno scatto di nervi. Il padre, per punizione, lo spedì subito nel Kyushu. Poiché era così bellicoso, poteva affrontare intere orde di ribelli! Lui partì in cerca di un pericolo, e trovò la sua gloria.
Un’icona lo ritrae con i lunghi capelli, simbolo di forza, intento a uccidere senza pietà con un colpo solo. Yamato irrompe nell’accampamento nemico, a dispetto della sorveglianza. Un ribelle, colto di sorpresa, fa per sguainare la spada, ma non vi riuscirà . I toni dell’ambiente sono rosso cupo, a indicare le modalità di un tempo remoto che si affidava alla violenza. Una lampada di carta sembra travolta dalla furia dell’azione inaspettata.
Poi, a un certo punto iniziò la trasformazione. Yamato rifletté sul significato della sua vita. Mostrò un’attitudine filosofica, che sarebbe divenuta una costante dei samurai. E il suo carattere divenne più mansueto. Il giovane imparò la disciplina. Vivendo tra i ribelli, si accorse delle asperità e della natura selvaggia della vita. Accantonò l’impeto, in favore della ragionevolezza. E la metamorfosi non tardò a dare i suoi frutti. Un prezioso dono contribuì alla formazione del suo nuovo atteggiamento: la prodigiosa spada «Nuvolaglia».
Le versioni della vita di Yamato differiscono nei particolari: o era risoluto e forte, o astuto e spietato. Talvolta vinceva con la spada, talvolta con l’inganno. I samurai non avrebbero deviato dal modello: furono campioni di strategia, persino illecita, o degli scontri corpo a corpo.
Malgrado i suoi trionfi, Yamato restava afflitto dalla solitudine, che un altro stereotipo dipinge come l’unica compagna di un samurai. Il suo isolamento non è diverso da quello di Yoshitsune. Entrambi mancano di affetti, Yamato più dell’altro. Egli supera continue sfide che non gli concederanno mai una stasi al fianco di una compagna. Così si porta a letto la spada, non solo per affrontare i nemici nella notte. Incontrerà una morte tragica, che lo destinò a rappresentare il prototipo della sconfitta. I due restano ancora uniti nella Storia. Yoshitsune verrà braccato dal fratello, e perderà gli amici, che passeranno al fronte avverso. Yoritomo è l’uomo più potente del Giappone, e riesce ad allettarli. Isola Yoshitsune, per poterlo catturare facilmente.
Yamato è uno sconfitto, un perdente nato, mai appagato dagli eventi. La sua è una esistenza mutilata, difettando di una meta. Lui, però, non se ne rende conto, perché si rifugia nell’esercizio della forza. Mi piace pensare che sia entrato nella Storia per aver dato il nome al Giappone, un merito non secondario.
Dopo la morte di Yamato Takeru le nebbie del mito si diradano lievemente, per lasciar intravedere altri antenati o modelli dei Minamoto. L’unità minima di raggruppamento è il clan. La lotta tra i clan insanguina la storia del Giappone. Vi si inseriranno i Minamoto, per superare tutti gli altri clan. Nel VI secolo d.C., la famiglia imperiale rappresenta il clan egemone. Deriva da Amaterasu, da cui trae il suo potere. Niente guerrieri, ancora: samurai è una parola inesistente, o ha un senso vago. Si è reclutati per combattere, per ordine dell’imperatore. Esistono i militari, ma non la loro classe. Le guardie del palazzo imperiale sono dette samurai, servi dei nobili. Ma non esiste una stretta affinità tra gli Otomo, il clan di questa polizia, e i Minamoto. Entrambi i gruppi sono samurai, ma di diversa estrazione.
Poi subentrano gli shogun, ogni qual volta si renda necessario il ricorso alle armi, nominati dall’imperatore. La situazione non cambierà granché, nei secoli a venire. Anche Yoritomo, in primis Yoritomo, sarà eletto dall’imperatore in carica.
Pur non esistendo una capitale, il Giappone era già un Paese. I tre simboli della potenza di Amaterasu ne garantivano la coesione: la spada, lo specchio e il monile. Tutto vero: erano queste le componenti utili nel mondo degli uomini. E la dea si assunse il compito di proteggere lo Stato. Chi altri poteva recare la luce nel mondo?
La lotta e il conflitto imperversavano, con clan incattiviti dalla minima contrarietà . Si ricorreva alle armi per stroncare ogni ostilità . Naturale, quindi, che si adorasse un nume della guerra. Anch’egli nacque uomo, o ne fu l’incarnazione. L’occasione si offrì in una spedizione in Corea, promossa a fini espansionistici. L’aveva voluta l’imperatrice Jingo, e finì male. Tuttavia, al ritorno in patria la donna partorì un figlio illustre; così si realizzò, almeno nella sfera familiare. Fu Ojin, un maschio, a perpetuare la sua stirpe. Al termine di una vita di battaglie, questi venne premiato: assurse al rango di Hachiman, il Marte nipponico. Yoshitomo sostò nei pressi del suo tempio, invocando aiuto. Tutti i samurai gli avrebbero tributato un culto appassionato.
Su quale sfondo culturale si sarebbero inscritte le imprese dei Minamoto? Due erano gli eventi epocali, strettamente correlati: l’eredità cinese e il buddhismo. La religione straniera fu introdotta dai coreani del Paikché, un regno con cui i giapponesi intrattenevano buoni rapporti. Una delegazione diplomatica presentò una icona del Buddha, insieme ai Sutra o trattati. Poi precisò delle asperità del culto, ma anche dei suoi effetti benefici: felicità , ricchezza e, soprattutto, la liberazione. Sin dall’inizio i giapponesi percepirono la natura mondana e immanente del buddhismo, piegandolo a fini utilitari. Con una preghiera accorata ci si procurava i beni desiderati.
L’imperatore venne mal consigliato. I cortigiani osservarono che il nuovo culto era pericoloso: si temeva che il Buddha rappresentasse un’autorità alternativa a quella imperiale. Così, ci si sbarazzò dell’icona e tutto fu rinviato a tempi migliori. Più tardi, al cessare del veto un esponente della corte imperiale, il principe Shotoku Taishi, intervenne a promuovere la nuova fede.
La sua opera presenta princìpi rilevanti per la storia dei samurai, e somiglia a una costituzione in diciassette articoli. Fu composta nel 604 d.C. e si rivolgeva alla classe dominante, l’aristocrazia della corte imperiale. Combinava princìpi buddhisti e confuciani, mutuandoli dalla cultura cinese, su uno sfondo shintoista. Si invitavano i clan all’armonia (wa), la totale assenza di contrasti: era questo il principio fondamentale. La divisione gerarchica delle classi seguiva il modello confuciano, in cui il signore era categoricamente distinto dal suddito. Ci si ispirava a opere come «La grande dottrina» (in cinese: Daxue) e «Il giusto mezzo» (Zhongyong), che invitavano l’individuo a restare al proprio posto: il principio di giustizia consisteva in questo. «Quando il signore parla, il suddito ascolta» (art. 3). Si raccomandava l’ubbidienza e il rispetto.
Venivano esaltati i meriti della collettività . Si scoraggiava l’egocentrismo, in favore dello spirito di gruppo. La discussione e le consultazioni collegiali permettevano di valutare obiettivamente un problema. I governi dei samurai presero spunto da queste massime. Ma le rilessero a modo loro, eleggendo consulte che delegavano allo shogun la decisione finale.
«In un Paese non ci sono due signori. Né il popolo ha due padroni. Il sovrano è il signore del popolo di tutto lo Stato, e i funzionari cui delega il controllo sono i suoi vassalli» (art. 12). I Minamoto intenderanno alla lettera questo principio, erigendo una diarchia. L’imperatore resterà il sovrano supremo, e lo shogun svolger...