«Quando diventerò vecchio, e perderò i capelli, / tra molti anni / … avrai ancora bisogno di me, / mi nutrirai ancora, / quando avrò 64 anni?»
Una prima versione di questa canzone, Paul McCartney la compone a casa, al pianoforte di suo padre, quando ha solo 16 anni, i Beatles non sono ancora quei quattro lì (manca Ringo Starr) e non si chiamano neppure The Beatles, bensì The Quarrymen. Lui la definisce un «vaudeville», perché ha un tono leggero e scherzoso.
La riprende e la finisce nel 1966, al sessantaquattresimo compleanno di suo padre.
Quella canzone fa sorridere per altri motivi, oggi che Sir Paul ha superato i 70…
A meno che il vero Paul sia morto, e quello che continua a fare il pienone nei concerti in giro per il mondo sia un sosia… La leggenda della morte di Paul ebbe una forte presa negli anni del massimo «culto» giovanile dei Beatles, ma sopravvive ancora oggi. Nel 2014, andando a curiosare su YouTube per guardare alcuni video sulle sue recenti performance in concerto, mi sono imbattuto in diversi commenti che rilanciano quel mito. Ne cito uno fra tanti, di un’italiana, Luisa Perrotti, incollato a un brano: «Ma la sapete quella storia che si dice su Paul McCartney? Pare sia un sosia perché lui morì giovane e quindi fu sostituito; però ci sono opinioni discordanti, mah! Io non ci credo… Hanno fatto anche un servizio in televisione, hanno ricostruito addirittura la sua struttura facciale al computer per confrontarla con quella precedente la data in cui sarebbe morto. Poi c’è il dilemma della copertina dell’album, quella in cui attraversano la strada tutti con le scarpe ai piedi tranne Paul, che è scalzo come a indicare il passaggio nell’aldilà…». (La foto in questione è celebre, i quattro attraversano Abbey Road sulle strisce pedonali; da quell’album-culto in poi, la via che porta quel nome a Londra è perennemente intasata, il traffico è intralciato per i turisti che vanno a rifarsi la foto nello stesso attraversamento.)
Rileggere mezzo secolo dopo queste elucubrazioni mi diverte, perché è un tuffo nella mia adolescenza, ma non solo per questo. La leggenda di Paul morto e tuttavia condannato a vivere sempre, clonato o sostituito da un sosia, fa pensare a quella rivoluzione della longevità che è allo stesso tempo un privilegio e una condanna delle nostre generazioni. Quando Paul sedicenne scriveva questa canzone, ai suoi occhi un sessantaquattrenne era praticamente decrepito, costretto ad appoggiarsi sull’assistenza di figli e nipoti, a implorare la loro benevolenza. Quel ragazzino di Liverpool non poteva certo immaginare se stesso nel futuro, più vecchio di suo padre, nei panni del ricchissimo Sir McCartney, la cui seconda carriera musicale non accenna a tramontare (come quella di Mick Jagger e dei Rolling Stones, di Bob Dylan, Sting, Bruce Springsteen e tanti altri). Ma lasciamo da parte questi casi estremi. Un sessantaquattrenne di oggi, lungi dal farsi nutrire da figli e nipoti, più probabilmente sta occupandosi dei genitori novantenni; forse continua a dare qualche sostegno economico anche ai figli trentenni, che non riescono a trovare lavoro o a risparmiare abbastanza per sposarsi e comprare casa.
Lo studio della demografia è una chiave di lettura indispensabile per decifrare l’economia. Dai tempi del reverendo Thomas Robert Malthus, vissuto in Inghilterra a cavallo fra Settecento e Ottocento, lo studio della popolazione ha ricevuto un’enorme attenzione da parte di chi voleva capire i fattori che rendono ricche o povere le nazioni. Malthus univa un notevole rigore scientifico a una visione etica da austero sacerdote anglicano. La sua visione pessimistica prevede un inevitabile impoverimento via via che la popolazione cresce e l’agricoltura non riesce ad aumentare di pari passo la sua produttività per sfamare tutti. Solo le carestie, o un controllo delle nascite effettuato attraverso l’astinenza dai rapporti sessuali, potevano ristabilire l’equilibrio. Oggi sappiamo che l’agricoltura ha fatto balzi di produttività inconcepibili nell’Ottocento, e ha la capacità di sfamare un pianeta la cui popolazione si è moltiplicata. Ma esiste un malthusianesimo moderno, molto attuale, che ispira molti allarmi ambientalisti: l’idea che la sovrappopolazione stia portando a un catastrofico saccheggio delle risorse naturali. Malthus è uno di quei fondatori della scienza economica classica, come Adam Smith e Karl Marx, le cui idee mostrano una longevità notevole.
Nel frattempo, dall’Ottocento, anche le dinamiche demografiche hanno imboccato strade impreviste, svolte sorprendenti, gravide di conseguenze. Per gran parte della storia umana, le nostre civiltà sono state caratterizzate dalla superiorità numerica dei giovani sugli anziani. Malattie, carestie o guerre hanno falcidiato le popolazioni, la cui speranza di vita media era molto breve. Di conseguenza, la struttura più «normale» di una nazione era come quella di una piramide, con una base larga, fatta di giovani. Più si saliva verso il vertice, più la piramide si restringeva, perché la mortalità riduceva la popolazione. In cima c’era una punta stretta: i veri vecchi erano una rarità. Questa è stata spesso la struttura demografica della società, fino ai grandi progressi della medicina, alle vaccinazioni e all’igiene pubblica (fognature, acqua potabile). È ancora oggi la struttura tipica di alcuni paesi molto poveri. Ma la piramide non è l’unica forma possibile di una popolazione. Le nazioni più ricche, con qualche eccezione, tendono a diventare come dei «birilli»: la pancia è gonfia, la base è più stretta. Il calo delle nascite fa restringere le generazioni più giovani, cioè la base. Al centro del birillo la pancia è grossa perché lì si addensano le classi di età più affollate, quelle che erano adolescenti durante la beatlemania. Il birillo è una forma instabile, perché gli anni passano e i baby-boomers – così chiamati perché nati nel ventennio eccezionale di boom delle nascite postbellico, tra il 1946 e il 1964 – si avvicinano alla soglia dei sixty-four. Se non interviene qualche correttivo, per esempio una ripresa delle nascite, oppure un aumento di popolazione dovuto all’immigrazione, la forma del birillo tende a trasformarsi in quella di un fungo: con la parte «gonfia» che sta in alto, nelle fasce di età mature e anziane, mentre sotto c’è una base esile. Pochi giovani, che in teoria dovrebbero sostenere quei sixty-four e in realtà non ne hanno i mezzi.
«Ogni 24 ore in America diecimila baby-boomers stanno andando in pensione.» A dare le dimensioni di questo esodo generazionale è la Social Security, l’agenzia federale che gestisce la previdenza Usa. È allarme per l’equilibrio delle finanze previdenziali, naturalmente. Ma quella cifra ha anche un altro significato molto più vasto. È iniziato il «lungo addio» della generazione più popolosa della storia. Solo negli Stati Uniti i baby-boomers sono quasi 80 milioni. In America due presidenti aprono e chiudono questa fascia di età: Bill Clinton è il baby-boomer anziano; Barack Obama, che ha compiuto 53 anni nel 2014, si colloca tra i più giovani. Insieme rappresentano una generazione anomala, irripetibile, non a caso protagonista di tante rivoluzioni: politiche, sociali, sessuali, tecnologiche. Unica nella storia per la sua dimensione: prima dei baby-boomers ci sono state generazioni decimate dalle guerre e con una longevità minore; dopo di loro sono venuti i figli poco numerosi, assottigliati dalla denatalità (con i baby-boomers nasce anche la pillola anticoncezionale). Il fenomeno del baby-boom postbellico fu particolarmente accentuato negli Stati Uniti, ma contagiò anche l’Europa occidentale, Italia inclusa. Nato nel 1956, io mi colloco esattamente nel mezzo di questa generazione ingombrante.
Il fatto che i più anziani tra noi comincino ora ad andare in pensione apre una fase di transizione non solo demografica ed economica. Inizia il passaggio delle consegne, anche se i baby-boomers continueranno a esercitare il potere a lungo. In America, nel 2016, una delle baby-boomers più anziane, Hillary Clinton, potrebbe diventare la prima donna presidente. Ma per riuscirci sarà essenziale per lei conquistare i consensi della generazione di sua figlia Chelsea, i cosiddetti millennials (perché hanno raggiunto l’età adulta nel terzo millennio). L’ascesa di Hillary alla Casa Bianca potrebbe rappresentare il capitolo conclusivo nella lunga egemonia dei baby-boomers. L’Italia ha già vissuto uno strappo quando Matteo Renzi ha dato la scalata al potere con lo slogan della «rottamazione» dei leader più vecchi di lui.
Dalla politica all’economia, dalla cultura alla tecnologia, vivremo in un mondo molto diverso quando la maggioranza dei baby-boomers sarà in pensione. Un mondo dove Bill Gates sarà stato dimenticato e Mark Zuckerberg sarà il «decano» della Generazione Millennio.
Il trapasso è denso di implicazioni in ogni campo dei comportamenti umani: i baby-boomers sono stati l’elemento di traino del mercato dei computer, mentre la Generazione Millennio accede a Internet dallo smartphone; i coetanei dei Clinton e di Obama sono forse gli ultimi «divoratori di carta» (libri e giornali), mentre i loro figli sono «nativi digitali».
Uno dei più acuti studiosi di questa transizione storica è Paul Taylor, già autorevole reporter, che ha lasciato il giornalismo per lavorare al Pew Research Center, uno dei più grandi istituti demoscopici americani. The Next America è la sintesi delle sue ricerche. La prossima America, dunque, con un sottotitolo eloquente: «Baby-boomers, Generazione Millennio e l’imminente sfida tra generazioni». Il futuro è già in mezzo a noi, spiega Taylor: «Le due vittorie di Obama non si spiegano senza guardare all’impatto enorme del passaggio generazionale». Se avessero votato solo i baby-boomers, Obama non ce l’avrebbe fatta, nonostante sia uno di loro. Decisivo è stato il voto della nuova nazione: i giovani e le minoranze etniche. Si tratta di due categorie che crescono di pari passo: tra la Generazione Millennio ci sono molti più ispanici, asiatici, neri. Più giovane e più multietnica, la «Next America» è quella che ha compiuto in pochi anni degli strappi valoriali inauditi, come il ribaltamento della posizione sui matrimoni gay plebiscitati dai giovani. All’ora in cui anche i capelli di Obama sono diventati tutti grigio-bianchi, i baby-boomers guardano con ambivalenza ai propri sogni di gioventù. Insieme alla musica dei Beatles e di Bob Dylan, hanno scoperto il sesso prematrimoniale e il femminismo, la marijuana e la rivolta antiautoritaria. Sono stati i veri protagonisti del primo boom consumistico, sostenuto da un’etica dell’individualismo sfrenato. Sono diventati le cavie consenzienti del grande esperimento neoliberista. Fino a sposare, in percentuali tutt’altro che irrisorie, il riflusso conservatore e la riscoperta della religione. Consegnano ai propri figli un’economia più diseguale di quella in cui sono nati e cresciuti loro. «Ceto medio» sta diventando un’espressione quasi obsoleta, priva di senso per la Generazione Millennio.
Perciò, lo stesso shock pensionistico ha un impatto cruciale su questa transizione generazionale, nel momento in cui nella sola America ben quattro milioni di baby-boomers all’anno stanno «passando all’incasso». Un esaurimento del trust fund della Social Security, la dotazione in capitale della previdenza, è ormai una possibilità concreta, quasi una certezza a meno di svolte drastiche. La data di quell’Apocalisse finanziaria dista appena un quindicennio, l’anno chiave sarà il 2030, quando i più giovani dei baby-boomers (gli attuali quarantanovenni) lasceranno il lavoro.
L’America si scopre vulnerabile nonostante abbia una demografia molto più virtuosa di quella europea. Grazie all’immigrazione, infatti, la popolazione Usa continua a crescere e la natalità resta superiore alla media dei paesi ricchi. Tuttavia, non basta più neanche l’afflusso di nuovi residenti, dall’America latina e dall’Asia. I baby-boomers lasciano comunque dietro di loro generazioni mediamente più povere.
La capacità di risparmio, che ancora negli anni Settanta e Ottanta consentiva agli americani di accantonare più del 10 per cento dei loro redditi, oggi si è dimezzata. I nuovi posti di lavoro che vengono creati in questa ripresa americana (non pochi: oltre 200.000 al mese, dal 2009), sono soprattutto in aziende medio-piccole che non offrono fondi pensione integrativi. Il salario medio è regredito in termini reali sotto il livello di trent’anni fa. Cresce il precariato, il lavoro part-time, l’universo dei freelance, tutte figure professionali nei confronti delle quali i datori di lavoro risparmiano sui versamenti previdenziali.
Il risultato è sintetizzato in un vademecum per la sopravvivenza che pubblica il magazine «Time». Primo imperativo: «work longer»; lavorare più a lungo è già oggi una necessità per molti baby-boomers che non possono permettersi di vivere di sola pensione; diventerà praticamente obbligatorio per le generazioni successive, o millennials. Seconda regola: «live together»; la convivenza sotto uno stesso tetto di nonni, genitori e figli adulti sta già tornando a essere un fenomeno diffuso, e lo sarà sempre di più per l’esigenza di risparmiare sui costi fissi delle abitazioni, come le bollette, le tasse comunali, ecc. Una vera rivoluzione, per un paese come l’America dove i figli erano abituati a spiccare il volo al compimento del diciottesimo anno di età e le loro vite si svolgevano a grande distanza dai genitori. Il ritorno alla famiglia plurigenerazionale riunita in una sola abitazione era un fenomeno impensabile fino a pochi anni fa. Terzo consiglio di «Time»: «tap into equity», ovverosia «attingete al patrimonio». Molti pensionati dovranno rassegnarsi a vendere le case per andare in affitto, i risparmi di una vita andranno usati per finanziare le spese correnti. Nella realtà di oggi il sessantaquattrenne affettuosamente preso in giro dalla canzone di Paul McCartney sta pensando se deve vendere la casa e andare in affitto, o smobilitare una parte dei suoi risparmi, anche per sopperire allo scarso reddito dei figli.
Un’alternativa ben più positiva e solida ci sarebbe: una ripresa economica che crei posti di lavoro pagati molto meglio per la Generazione Millennio; il ritorno di aumenti salariali consistenti e superiori all’inflazione; una lotta decisa contro le diseguaglianze che soffocano la crescita. Questo consentirebbe alle nuove generazioni di recuperare una capacità di risparmio e anche di rifinanziare la previdenza con le loro buste paga. Nelle indagini del Pew Research Center illustrate da Paul Taylor c’è un raggio di speranza: intervistati sul loro futuro, i ventenni della Generazione Millennio esibiscono un ottimismo quasi stupefacente. Quasi il 90 per cento si dice sicuro che «raggiungerà il livello di reddito a cui aspira, la posizione economica adeguata per soddisfare tutte le proprie necessità». E magari anche quelle dei genitori, convertitisi con l’età a un pessimismo apocalittico.
Ma hanno ragione quei millennials americani che professano fiducia nel loro futuro? O invece sono proprio loro le vittime predestinate di questo modello di sviluppo economico? A cominciare dalla questione tecnologica, che ha sempre assillato i baby-boomers. La mia generazione, proprio perché protagonista di tante rivoluzioni, è stata ossessionata dal bisogno di rincorrere the next thing, la prossima cosa nuova. Il terrore dei baby-boomers, nell’economia digitale, è di essere un passo indietro, superati, obsoleti. Quel verso della canzone di Paul, «will you...