L’uomo alto aprì la bocca e disse: «Attenzione. Qui è pericoloso».
Mark Meadows ondeggiava come un antenna radio investita da un forte vento. Era seduto sul cofano di una limousine parcheggiata davanti al negozio, nell’attesa che passasse l’intontimento. Era una voce di donna, insaporita da un accento asiatico come scaglie di zenzero.
La dodicenne bionda e snella insieme a lui lo guardava con attenzione, preoccupata ma non spaventata. Quei giochetti li aveva già visti.
Mark studiò l’isolato in entrambe le direzioni. Fitz-James O’Brien Street era la stessa di sempre. In quegli ultimi anni il confine del Greenwich Village era diventato più violento. Ma d’altronde anche il resto del mondo. E la gente lo lasciava sostanzialmente in pace.
Aveva degli amici.
“Voi ragazzi state diventando abbastanza inquieti” pensò. Percepì piccoli movimenti furtivi nelle profondità della mente, ma non uscirono altre parole non richieste.
Stabilito che suo padre stava bene, la ragazzina cominciò a dondolare come un pendolo, tenendosi al braccio di lui, cantando: “Siamo a casa, papino, siamo a casa”. Aveva la voce di una bimba di quattro anni. Il resto era di una dodicenne.
Mark abbassò lo sguardo. Fu pervaso da un impeto d’amore intenso come una dose di LSD. Attirò la ragazzina a sé, l’abbracciò, quindi si alzò.
«Difatti, Gemma, a casa.» Aprì la porta sotto a un sole sorridente dipinto a mano e la scritta ZUCCA COSMICA - CIBO PER IL CORPO, LA MENTE E LO SPIRITO.
L’interno era fresco e quasi buio. Un tempo era soleggiato in giornate primaverili come quella, ma prima che le vetrine venissero sostituite da pannelli di compensato. L’impianto audio era acceso, sintonizzato da uno dei suoi commessi su una di quelle stazioni New Age molto orecchiabili, popolari tra coloro che passavano le serate a guardare film come Koyaanisqatsi su videoregistratori programmabili dal telecomando. Un po’ leggerino persino per il carattere di Mark, ma sempre meglio di quello che passava di solito il convento: Bonnie Raitt, qualcosa di recente con un leggero ritmo ska.
“Gli affari vanno bene per essere metà pomeriggio” pensò Mark, colto da una fitta di rimorso come ogni volta che intratteneva pensieri imprenditoriali. Un tizio basso, con un naso carnoso e appuntito e una giacca di finta seta col logo di uno strip club stava incollato a un bancone di vetro. All’interno era custodita l’attrezzatura da stupefacenti un tempo in vendita presso la Zucca, fino a quando l’inevitabile Procuratore Distrettuale con la mentalità del crociato non era arrivato a dare il giro di vite. Il tizio sembrava intenzionato a provarci con una commessa di Mark, tarchiata e coi capelli a spazzola, la quale, mentre puliva il pavimento dietro al bancone delle specialità gastronomiche, borbottava riluttante lanciandogli occhiate d’odio. Quando vide Mark, ne rivolse una anche a lui. Era un maschio: era tutta colpa sua.
Ai tavoli sedeva un manipolo di soggetti ancor meno interessanti, tutti chini sui programmi delle corse e su tazze fumanti di tè Red Zinger. Voltata di spalle, allo scaffale dei fumetti, una donna alta coi capelli neri guardava la ristampa di un classico dei «Freak Brothers.» Il Procuratore Distrettuale dava la caccia anche a quelli.
Mark si portò una mano alla testa. I lunghi capelli biondi, ora più color cenere che paglia, erano raccolti da un elastico blu. Era troppo stretto e gli tirava varie zone del cuoio capelluto, come minuscole mani di bambola. Quella primavera erano diciannove anni che portava i capelli lunghi, eppure non aveva ancora imparato a legare una coda di cavallo.
Notò distrattamente che la donna era troppo elegante per l’underground. Di solito i clienti in abiti costosi limitavano scrupolosamente le loro attenzioni alla sua cucina a base di germogli e tofu.
La figlia di Mark cinguettò: «Zietta Brenda!». Poi corse ad abbracciare la commessa. L’uomo alto fece un sorriso mesto. Lui non riusciva mai a distinguere i suoi dipendenti. E, comunque, entrambi lo consideravano solo una seccatura.
La donna elegante si voltò a guardarlo con i suoi occhi viola: «Mark» disse a bassa voce.
Fu come se uno dei giovani supersportivi che erano stati l’incubo della sua adolescenza gli avesse appena staccato il bacino dalla spina dorsale su un massiccio tagliere.
«Girasole» riuscì a dire Mark. La sua gola era diventata cedevole quanto un condotto d’aerazione.
Sentì lo stridio delle scarpe da ginnastica della figlia sul linoleum macchiato alle sue spalle. Un istante di silenzio rimase sospeso nell’aria, allungandosi gradualmente e penosamente, come il filo di una caramella mou. Poi Gemma gli sfrecciò accanto esagitata e si gettò addosso alla donna, abbracciandola con tutta la forza delle sue piccole braccia.
«Mamma!»
L’uomo dalla faccia di topo uscì da un séparé e raggiunse Mark. Aveva occhi neri lucidi e baffi che sembravano malamente dipinti col mascara. Mark lo guardò sbattendo gli occhi con grande cautela, come se fossero fragili e potessero andare in pezzi.
L’uomo gli ficcò in mano un fascio di documenti. «Ci vediamo in tribunale, hippy fuori tempo massimo» disse e scivolò verso l’ingresso.
Mentre Mark fissava le carte, davanti ai suoi occhi scorrevano timbri dall’aspetto ufficiale e la frase: “Per definire la custodia della figlia Gemma”.
Gli altri clienti vennero su dai loro tavoli rivestiti di garza a quadretti come pupazzi legati allo stesso filo, piantarono in faccia a Mark grosse macchine fotografiche nere e lo ricacciarono alla porta coi lampi dei flash.
Con la retina satura di sciamanti globi luminosi, Mark barcollò fino al minuscolo bagno e vomitò nel water sotto al poster di Jimi Hendrix. Per fortuna era plastificato.
Kimberly Anne scivolò con naturalezza nella limousine, guardando l’ingresso anteriore della Zucca con occhi pesti. Attraverso le fessure del compensato, poteva scorgere i bagliori dei flash che crepitavano come saldatrici ad arco.
«Povero Mark» bisbigliò. Poi si voltò, con il mascara che iniziava a colarle lungo una guancia. «È davvero necessario fargli passare tutto questo?»
L’altro occupante del sedile posteriore la soppesò con occhi vuoti e distaccati, come quelli di uno squalo. «È necessario,» disse «se rivuole davvero indietro sua figlia.»
Kimberly Anne si fissò le dita intrecciate in grembo. «Più di ogni altra cosa» disse, con un mormorio appena udibile.
«Allora dev’essere pronta a pagarne il prezzo, signora Gooding.»
«Il consiglio che le do, dottor Meadows,» disse l’avvocato Pretorius, adagiandosi sullo schienale e facendo schioccare le nocche delle grosse mani callose «è entrare in clandestinità.»
Mark fissò le mani dell’avvocato. Non sembravano congruenti con il resto dell’immagine, già di per sé poco ortodossa. Non ci si aspettavano mani del genere in un avvocato, nemmeno in uno coi capelli lunghi, e specialmente non adagiate sopra la catena d’oro di un orologio da tasca sul gilè di un abito grigio scuro da un migliaio di dollari. Stonavano. Proprio come stonava l’eleganza dell’ufficio di Pretorius, con la sua carta da parati color crema e i pannelli di noce, al secondo piano di un edificio senza ascensore nel quartiere che i giornali scandalistici amavano definire “il ventre putrido di Jokertown”. O come lo strano odore di medicazioni impregnate di pus che sembrava essersi insediato nei recessi del naso di Mark.
Mark non poté ignorare ulteriormente la questione. «Mi scusi?» disse, sbattendo furiosamente gli occhi. Dietro la sua sedia, Gemma studiava la collezione di insetti nelle teche a parete, canticchiando tra sé e sé.
«Mi ha capito. Se vuole tenersi la ragazzina, il miglior consiglio che posso darle come avvocato è di darsi alla clandestinità.»
«Non capisco.»
«“Oh, mio Dio, vieni dagli anni Sessanta”» citò Pretorius «non le dice nulla? Non ha visto quel film tratto dalla biografia di W.P. Kinsella? No, certo che no. In fatto di film, il suo stile è più calarsi un acido e sorbirsi 2001: Odissea nello spazio per tre volte di fila.» L’avvocato sospirò. «Mi vuole forse dire che non sa cosa significa “entrare in clandestinità”? Tipo Huey Newton, Patty Hearst... ha presente, quei grandi nomi di ieri?»
Mark rivolse un’occhiata nervosa alla figlia: aveva il naso pigiato contro il vetro di uno strano insetto simile a un ramoscello lungo venticinque centimetri. Mark non si era mai reso conto, fino a quel momento, di quanto gli insetti lo rendessero nervoso.
«Lo so cosa vuol dire, amico. Solo che non...» Sollevò entrambe le mani: sotto le luci forti dell’ufficio, cominciarono a sembrargli esemplari sfuggiti alle teche di Pretorius. Era come se volesse estrarre un po’ di comunicatività da se stesso o dall’aria o da chissà dove. Al di fuori di un certo aspetto della vita, Mark non era mai stato bravo a trasmettere idee.
Pretorius annuì bruscamente. «Non è certo che stia parlando sul serio, giusto? Be’... Sono serio, dannatamente serio.» Lasciò cadere la mano sinistra sulla scrivania, sulla copia del «New York Post» che Jube aveva dato a Mark. «Ha una vaga idea della persona con cui ha a che fare?»
Un dito tozzo tamburellava sulla faccia di Kimberly Anne, che sbucava da sopra la spalla di Gemma. «Quella è la mia ex moglie» disse Mark. «Si faceva chiamare Girasole.»
«Ora si fa chiamare signora Gooding. Ne deduco che ha sposato il socio anziano presso la sua società di intermediazione finanziaria.» Fissò Mark in maniera quasi accusatoria. «E sa chi ha ingaggiato come legale? St. John Latham.»
Pronunciò il nome come una parolaccia. Gemma si avvicinò, mise la mano in quella del papà. Contorcendosi, Mark allungò un braccio per cingere la bambina.
«E questo tizio, Latham, che cos’ha di tanto speciale?»
«È il migliore. Ed è anche un maledetto bastardo.»
«Diciamo allora che è per questo che sono venuto da lei. Anche lei dovrebbe essere parecchio bravo. Se accetterà di aiutarmi, perché dovrei pensare di fuggire?»
La bocca di Pretorius sembrò ritirarsi, riducendosi tutta a denti. «L’adulazione è sempre ben accetta, per quanto inappropriata.» Quindi si protese in avanti. «Cerchi di capire, dottore. Questi sono gli anni Ottanta. Non la trova detestabile questa frase? Pensavo non ci sarebbe stato nulla di più nauseante dell’ipocrisia dei tempi in cui i meteorologi non erano dei ciccioni che si incacchiavano con Bryant Gumbel durante la trasmissione del mattino. Oh, be’, la sai una cosa, Pretorius? Bene, ecco: ti sei sbagliato un’altra volta.» Inclinò il capo, come una sorta di uccello gigante. «Dottor Meadows, lei afferma di essere un asso?»
Mark arrossì. «Be’, io...»
«Il nome Capitan Trip le suggerisce niente?»
«Io... voglio dire... sì.» Mark si fissò le mani. «In teoria è un segreto.»
«Capitan Trip è una presenza fissa a Jokertown e nel giro degli assi di New York. E indossa forse una maschera?»
«Be’... no.»
«Per l’appunto. Quindi abbiamo un asso piuttosto in vista, ma apparentemente di minor importanza, la cui, ehm, “identità segreta” è quella di un uomo che alla luce del giorno segue uno stile di vita piuttosto alternativo in un periodo in cui la morale comune nella società sembra essere: “Il chiodo che sporge va preso a martellate”. St. John Latham è un uomo che farà di tutto per vincere. Di tutto. Riesce a capire quanto lei possa essere, come dire, vulnerabile?»
Mark si coprì il viso con le mani. «Solo che io... voglio dire: Girasole non mi farebbe una cosa del genere. Noi... noi siamo, ecco, compagni. L’ho conosciuta a Berkeley, dico. Le proteste alla Kent State, ricorda?» La sua confusione sgorgò in un fiotto di rimprovero, quasi d’accusa.
Si aspettava che Pretorius gli abbaiasse contro. Invece l’avvocato annuì con quella sua magnifica chioma argentea. La perfezione della sua coda di cavallo riempiva Mark di gelosa ammirazione.
«Ricordo. Zoppico ancora per una baionettata all’anca che mi rifilò uno dei gorilla della Guardia Nazionale... per non parlare degli altri motivi.»
Pretorius si appoggiò allo schienale e alzò lo sguardo al soffitto. «Estremista nel 1979. Dirigente nel 1989. La solita storia trit...