La scelta di Sophie (nuova edizione)
eBook - ePub

La scelta di Sophie (nuova edizione)

  1. 686 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

La scelta di Sophie (nuova edizione)

Informazioni su questo libro

La "scelta" che dà il titolo a questo romanzo e che condizionerà per sempre la vita della giovane polacca Sophie è la più atroce che possa toccare a una donna. A imporgliela, la crudeltà sadica dei nazisti ad Auschwitz. La "colpa" di Sophie, invece, è quella di essere sopravvissuta: una colpa che condivide con Nathan Landau, un ebreo americano con cui, nella New York del 1947, intreccia una relazione furibonda, nella quale entrambi cercano invano di recuperare l'innocenza per sempre perduta. Testimone e narratore della loro storia è un aspirante scrittore, Stingo, un giovane del Sud in cui è riconoscibile lo stesso Styron.

Romanzo intenso, straripante, inesorabile, La scelta di Sophie travalica i confini della storia e, partendo dall'Olocausto, sposta la riflessione sul piano esistenziale, presentando il Male non come frutto di una mente perversa, o come il risultato di una congiuntura storica, ma come una tentazione cui chiunque può cedere.

Domande frequenti

Sì, puoi annullare l'abbonamento in qualsiasi momento dalla sezione Abbonamento nelle impostazioni del tuo account sul sito web di Perlego. L'abbonamento rimarrà attivo fino alla fine del periodo di fatturazione in corso. Scopri come annullare l'abbonamento.
Al momento è possibile scaricare tramite l'app tutti i nostri libri ePub mobile-friendly. Anche la maggior parte dei nostri PDF è scaricabile e stiamo lavorando per rendere disponibile quanto prima il download di tutti gli altri file. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Perlego offre due piani: Base e Completo
  • Base è ideale per studenti e professionisti che amano esplorare un’ampia varietà di argomenti. Accedi alla Biblioteca Base con oltre 800.000 titoli affidabili e best-seller in business, crescita personale e discipline umanistiche. Include tempo di lettura illimitato e voce Read Aloud standard.
  • Completo: Perfetto per studenti avanzati e ricercatori che necessitano di accesso completo e senza restrizioni. Sblocca oltre 1,4 milioni di libri in centinaia di argomenti, inclusi titoli accademici e specializzati. Il piano Completo include anche funzionalità avanzate come Premium Read Aloud e Research Assistant.
Entrambi i piani sono disponibili con cicli di fatturazione mensili, ogni 4 mesi o annuali.
Perlego è un servizio di abbonamento a testi accademici, che ti permette di accedere a un'intera libreria online a un prezzo inferiore rispetto a quello che pagheresti per acquistare un singolo libro al mese. Con oltre 1 milione di testi suddivisi in più di 1.000 categorie, troverai sicuramente ciò che fa per te! Per maggiori informazioni, clicca qui.
Cerca l'icona Sintesi vocale nel prossimo libro che leggerai per verificare se è possibile riprodurre l'audio. Questo strumento permette di leggere il testo a voce alta, evidenziandolo man mano che la lettura procede. Puoi aumentare o diminuire la velocità della sintesi vocale, oppure sospendere la riproduzione. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Sì! Puoi usare l’app Perlego sia su dispositivi iOS che Android per leggere in qualsiasi momento, in qualsiasi luogo — anche offline. Perfetta per i tragitti o quando sei in movimento.
Nota che non possiamo supportare dispositivi con iOS 13 o Android 7 o versioni precedenti. Scopri di più sull’utilizzo dell’app.
Sì, puoi accedere a La scelta di Sophie (nuova edizione) di William Styron, Ettore Capriolo in formato PDF e/o ePub. Scopri oltre 1 milione di libri disponibili nel nostro catalogo.

Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2014
Print ISBN
9788804492573
eBook ISBN
9788852045202

Undici

«Il Nord, figliolo, è convinto di avere il brevetto della virtù» disse mio padre, accarezzandosi cautamente con l’indice il nuovo e lucente occhio nero. «Ma, naturalmente, si sbaglia. Credi davvero che gli slums di Harlem siano per i negri un progresso sulle piantagioni d’arachidi della contea di Southampton? Credi che s’accontenteranno a lungo di questo intollerabile squallore? Un giorno, figliolo, il Nord si pentirà amaramente di questi tentativi ipocriti di magnanimità, di questi gesti astuti e trasparenti che vanno sotto il nome di tolleranza. Un giorno – sta’ bene attento a quello che ti dico – si capirà chiaramente che il Nord è imbevuto di pregiudizi razziali esattamente quanto il Sud, se non di più. Da noi, perlomeno, i pregiudizi sono dichiarati. Mentre qui…» S’interruppe per toccarsi ancora una volta l’occhio indolenzito. «Mi vengono i brividi quando penso all’odio e alla violenza che s’accumulano in questi slums.» Liberale sudista da quasi tutta la vita, e consapevole delle ingiustizie del Sud, mio padre non era mai stato tentato di scaricare irragionevolmente sulle spalle del Nord i vari mostri razziali della sua terra; lo ascoltavo di conseguenza con un po’ di sorpresa e con molta attenzione, senza immaginare – in quell’estate del 1947 – quanto si sarebbero rivelate profetiche le sue parole.
A una cert’ora, parecchio dopo la mezzanotte, eravamo seduti nel bar scuro e pieno di bisbigli conviviali dell’Hotel McAlpin, dove lo avevo condotto al termine del suo disastroso alterco con un tassista di nome Thomas McGuire, licenza numero 8608, avvenuto neanche un’ora dopo il suo arrivo a New York. Il vecchio (uso questa espressione soltanto in un senso paterno dialettale, perché a cinquantanove anni era ancora sano, robusto e giovanile) non aveva subito molti danni, ma per un taglio superficiale sulla fronte si era fatto un gran baccano e aveva avuto un grosso, anche se innocuo, versamento di sangue. Era stata anche necessaria una piccola fasciatura. Poi, una volta ristabilito l’ordine, mentre ce ne stavamo seduti a bere (lui un bourbon, io l’eterno alcolico della mia età immatura, una Rheingold) e a parlare, soprattutto dell’abisso che separava la progenie diabolica di un focolaio infettivo urbano a nord del Chesapeake dai campi elisi del Sud (e in questo mio padre non poteva essere meno profetico; non aveva infatti previsto Atlanta), riuscii più di una volta a ripetermi con tristezza che l’incidente del mio vecchio con Thomas McGuire mi aveva offerto se non altro una distrazione momentanea dalla mia recente disperazione.
Si può infatti ricordare che tutto questo doveva necessariamente avvenire a poche ore di distanza dal momento in cui, a Brooklyn, avevo creduto che Sophie e Nathan fossero spariti per sempre dalla mia vita. Ed ero comunque convinto – non avendo motivo di pensarla diversamente – che non avrei mai più visto Sophie. Perciò la malinconia che mi aveva preso quando, uscendo dalla casa di Yetta Zimmerman, ero salito sulla metropolitana per raggiungere mio padre a Manhattan, aveva rischiato di farmi stare fisicamente malissimo come nessun altro evento precedente della mia vita da quando era morta mia madre. Sentivo un miscuglio di lutto e di ansia, inestricabile, sconcertante, intenso. Questi sentimenti si alternavano. Osservando passivamente lo stroboscopico susseguirsi di luce abbagliante e di buio delle gallerie della metropolitana, questa duplice sofferenza era come un peso immenso e opprimente calato sulle mie spalle, talmente oneroso da comprimere realmente, in qualche maniera, i miei polmoni e da farmi respirare a rantoli rauchi e irregolari. Non piansi – o non riuscii a piangere – ma più di una volta mi sentii vicino a vomitare. Era come se fossi stato testimone di una morte insensata e improvvisa, come se Sophie (e anche Nathan, che, nonostante la rabbia, la mortificazione risentita e la confusione che aveva prodotto in me, era troppo strettamente legato al nostro rapporto triadico perché mi fosse possibile rinunciare tutt’a un tratto all’amore e alla simpatia che provavo per lui) fosse stata vittima di uno di quei catastrofici incidenti stradali che avvengono in un batter d’occhio lasciando i superstiti troppo sbigottiti persino per poter imprecare contro il cielo. La sola cosa che sapevo, mentre il treno procedeva rombando nelle gocciolanti catacombe sotto l’8th Avenue, era che, con una repentinità nella quale mi era ancora difficile credere, ero stato separato dalle due persone cui tenevo di più e che la primitiva sensazione di perdita, derivata da questo fatto, mi dava un’angoscia simile a quella di chi si trova sepolto sotto una tonnellata di cenere.
«Ammiro moltissimo il tuo coraggio» aveva detto mio padre mentre consumavamo da Schrafft’s una cena fuori orario. «Le settantadue ore che conto di passare in questo borgo sono il massimo, o quasi, che un mortale proveniente da un paese civile sia in grado di sopportare. Non capisco come tu faccia. Deve essere la tua gioventù, la meravigliosa duttilità dei tuoi anni, a far sì che questa piovra di città ti seduca anziché divorarti. Io non ci sono mai stato; ma è davvero possibile che, come tu mi hai scritto, ci siano angoli di Brooklyn che possano ricordare Richmond?»
Nonostante il lungo viaggio in treno dalle profondità del Tidewater, mio padre era di splendido umore, e questo mi aiutò a distogliere, almeno a tratti, il pensiero dal mio turbamento spirituale. Mi disse che non era più venuto a New York dalla fine degli anni Trenta e che, semmai, la città gli sembrava, nella sua dissoluta ricchezza, ancor più viziosa di allora. «È un frutto della guerra, figliolo,» disse questo ingegnere che aveva contribuito alla costruzione di bestioni navali come le portaerei Yorktown ed Enterprise «nel nostro paese tutto è diventato sempre più ricco. C’è voluta la guerra, per farci uscire dalla Depressione e per farci diventare contemporaneamente la più potente nazione del mondo. Se esiste una cosa che ancora per molti anni ci permetterà di essere in vantaggio sui comunisti, è solo questa: il denaro, e ne abbiamo in abbondanza.» (Non si deve dedurre da questa allusione che mio padre fosse, sia pur vagamente, un mangiarossi. Ho già detto che, per essere un uomo del Sud, aveva tendenze parecchio di sinistra: sei o sette anni dopo, in pieno isterismo maccartista, si dimise furiosamente dalla carica di presidente del capitolo della Virginia dei Figli della Rivoluzione americana, al quale, soprattutto per motivi genealogici, apparteneva da un quarto di secolo, quando questa organizzazione reazionaria pubblicò un manifesto di solidarietà con il senatore del Wisconsin.)
Eppure, per quanto informati in fatto d’economia, è raro che i turisti che vengono dal Sud (o da qualunque altra regione dell’hinterland) non reagiscano esterrefatti alle tariffe e ai prezzi di New York, e in questo mio padre non faceva eccezione, tanto che si mise a brontolare per il conto della nostra cena: credo che fosse più o meno quattro dollari – pensate! – e non era certo una cifra esorbitante secondo i criteri metropolitani di quell’epoca di deflazione, e neanche per la cucina, assolutamente ordinaria, di Schrafft’s. «Per quattro dollari da noi» si lamentò «potresti banchettare un intero weekend.» Tuttavia riacquistò subito il suo autocontrollo mentre risalivamo Broadway in quella mite serata diretti a nord attraverso Time Square, luogo che lo portò ad assumere un’espressione sbalordita e scandalizzata, benché non fosse mai stato un bigotto; ma credo che la sua reazione fosse dovuta non tanto a una reale disapprovazione quanto allo shock, simile a uno schiaffo in pieno viso, prodotto dalla sfacciata bizzarria della zona.
Ho l’impressione che, rispetto alla spregevole Sodoma che è poi diventata, Times Square quell’estate, in fatto di corruzione carnale, non offrisse molto di più di una qualunque torpida, grigia piazza di città supercristiana del genere di Omaha e Salt Lake City; esibiva tuttavia, anche allora, una buona dose di sordide passeggiatrici e di personaggi vistosamente eccentrici, che sfilavano tronfi negli arcobaleni e nei gorghi del neon; e contribuì un poco a distrarmi dalla mia estrema tristezza udire le sue sussurranti esclamazioni – mio padre era ancora capace di dire “Geru-salemme!” con la rustica spontaneità di un personaggio di Sherwood Anderson – e vedere i suoi occhi che, seguendo gli iridescenti ondeggiamenti del rayon di un’elegante puttana mulatta, riflettevano in rapida successione una trasparente incredulità e un certo ineluttabile desiderio. Non scopava mai?, mi chiedevo. Vedovo da nove anni, sicuramente lo avrebbe meritato, ma come quasi tutti i sudisti (o gli americani, del resto) della sua generazione in fatto di sesso era reticente sino alla segretezza e la sua vita in questa sfera mi era totalmente sconosciuta. Se devo dire la verità, speravo che alla sua età matura non fosse costretto a sacrificare sull’altare di Onan come il proprio sventurato rampollo; ma forse avevo interpretato male la sua occhiata e lui era finalmente, e fortunatamente, immune da questa febbre?
In Columbus Circle fermammo un taxi per tornare al McAlpin. Dovevo essere ripiombato in una profonda depressione, perché lo sentii chiedermi: «Qualcosa non va, figliolo?». Accennai borbottando a un po’ di mal di stomaco – il menù di Schrafft’s – e chiusi il discorso. Per quanto sentissi il bisogno di confidarmi con qualcuno, mi era impossibile divulgare un qualsiasi aspetto di questo recente sovvertimento della mia vita. Come avrei potuto descrivere adeguatamente la gravità della mia perdita e, più ancora, analizzare in tutta la sua complessità la situazione che a questa perdita aveva portato: la mia passione per Sophie, la meravigliosa amicizia con Nathan, il folle sfogo di qualche ora prima dello stesso Nathan e il conclusivo, brusco, straziante abbandono? Non essendo un lettore di romanzi russi (ai quali questo scenario sembrava assomigliare per certi suoi aspetti melodrammatici), mio padre avrebbe giudicato la cosa del tutto incomprensibile. «Non hai troppi problemi economici, vero?» mi chiese e aggiunse che sapeva benissimo che il ricavato della vendita del giovane schiavo Artiste non poteva durare in eterno. Poi, in maniera che mi parve delicata e indiretta, cominciò ad accennare all’ipotesi di un mio permanente ritorno nel Sud. Aveva appena toccato l’argomento, e in termini talmente concisi ed esitanti da non lasciarmi neanche il tempo di replicare, quando il taxi si fermò davanti al McAlpin. «Non mi pare che sia molto sano» stava dicendo «vivere in un posto dove c’è gente come quella che abbiamo visto poco fa.»
Fu allora che assistetti a un episodio indicativo del doloroso scisma tra Nord e Sud più penetrante di qualsiasi opera d’arte o ricerca sociologica. Vi concorsero due deplorevoli errori, reciprocamente imperdonabili, ognuno dei quali radicato in una Weltanschauung lontana dall’altra quanto Saskatoon dalla Patagonia. Il primo errore lo commise certamente mio padre. Benché nel Sud – almeno allora – si evitasse generalmente di dare mance o comunque non si attribuisse loro molta importanza, mio padre avrebbe dovuto essere abbastanza accorto da non dare a Thomas McGuire cinque centesimi di mancia; sarebbe stato meglio non dargli nulla. Lo sbaglio di McGuire fu di ringhiare esplicitamente a mio padre: «Merdoso buco di culo». Non voglio dire con questo che un tassista del Sud, non abituato alle mance o almeno abituato a riceverne poche e quelle poche saltuariamente, non si sarebbe un po’ irritato; ma solo che, per quanto forte fosse stato il suo nervosismo interiore, sarebbe rimasto zitto. Né intendo dire che le orecchie di un newyorkese non sarebbero avvampate per l’insulto di McGuire; ma solo che queste parole sono moneta corrente della strada e dei tassisti e quasi tutti gli abitanti di New York, reprimendo la propria bile, avrebbero egualmente tenuto la bocca chiusa.
Mentre già stavo per scendere dal taxi, mio padre accostò di nuovo il viso al finestrino anteriore e, con voce quasi incredula, disse: «Che cosa l’ho sentita dire?». La formulazione della domanda è importante: non “che cosa ha detto?”, ma con un’accentuazione sul “sentita”, per far capire che il suo apparato uditivo non aveva mai recepito così disgustose oscenità, neanche isolate, figurarsi in tandem. McGuire era, nella penombra, una macchia di collo taurino e di capelli rossicci. Il viso non lo vidi bene, ma la voce era abbastanza giovane. Se si fosse subito allontanato nella notte, forse tutto sarebbe finito bene, ma io, pur cogliendo in lui una leggera esitazione, sentivo anche un’intransigenza, una stizzosa permalosità irlandese per la monetina avuta da mio padre che eguagliava la rabbia del vecchio per il suo indifendibile linguaggio. Nella sua risposta, McGuire diede una forma decisamente più articolata al proprio pensiero: «Ho detto che lei deve essere un merdoso buco di culo».
La voce di mio padre divenne un grido contenuto – non proprio forte, ma vibrante di furore – quando cercò di controbattere. «E io penso che lei sia parte integrante della feccia profonda di questa odiosa città che ha procreato lei e tutta la sua genia di individui sboccati!» declamò, passando fulmineamente all’eterna retorica dei propri antenati. «Una detestabile canaglia, ecco che cos’è lei, non più civile di un topo di fogna! In qualunque città rispettabile degli Stati Uniti una persona del suo stampo che vomita così repellenti sozzure sarebbe trascinata in una pubblica piazza e presa a frustate!» La sua voce si era leggermente alzata; pedoni si fermarono sotto la scintillante pensilina del McAlpin. «Ma questa città non è né rispettabile né civile e lei è libero di rigurgitare il suo putrido linguaggio sui suoi concittadini…» A questo punto venne interrotto, nel pieno del suo flusso retorico, dalla frettolosa fuga di McGuire che premette a fondo l’acceleratore e si dileguò a tutta velocità. Mio padre, ora aggrappato al vuoto, roteò verso il marciapiede e io m’accorsi in un baleno che era solo lo slancio a spingerlo, come un cieco, contro la rigida solida asta d’acciaio di un segnale di sosta vietata; il rumore della sua testa al momento del contatto produsse, come in un disegno animato, un boinnng pieno di vibrazioni. Ma non era per nulla divertente. Pensai anzi che potesse avere un epilogo di dimensioni tragiche.
E tuttavia, mezz’ora dopo, se ne stava lì a sorseggiare bourbon liscio e a inveire contro il «brevetto della virtù» del Nord. Aveva perso molto sangue, ma per pura fortuna il medico dell’albergo si trovava nella hall nel momento stesso in cui io vi condussi la vittima. Questo medico pareva uno sciatto ubriacone, ma sapeva curare un occhio nero. Un po’ d’acqua fredda e una benda erano riuscite a calmare l’emorragia, ma non l’indignazione del vecchio. Accarezzandosi la ferita nella penombra del bar del McAlpin, con l’occhio gonfio che lo rendeva sempre più simile a suo padre, privato di metà della vista un’ottantina d’anni prima a Chancellorsville, continuava a vituperare Thomas McGuire in una litania di incontenibile rabbia. La cosa finì per diventare un po’ faticosa, per quanto pittoresco fosse il suo linguaggio, e io mi resi conto che l’ira del vecchio non era dovuta né a snobismo né a puritanesimo – avendo lavorato in un cantiere navale, e prima ancora nella marina mercantile, le sue orecchie erano state certamente inondate di simili scurrilità – ma semplicemente a una persistente fede nelle buone maniere e nella pubblica decenza. «Concittadini!» Si trattava in realtà di una sorta di egualitarismo frustrato dal quale, cominciavo a capire, derivava in gran parte il suo senso di alienazione. In parole povere, un uomo tradiva il principio dell’eguaglianza quando non era in grado di parlare ai propri simili in termini umani. Infine, calmatosi, lasciò perdere McGuire ed estese la propria animosità sino a coprire più generalmente l’intera gamma dei difetti e dei peccati del Nord: la sua arroganza, la sua ipocrita pretesa di essere moralmente superiore. Capii improvvisamente che egli era in realtà un conservatore sudista e mi colpì il fatto che questo non pareva assolutamente in contraddizione col suo liberalismo di fondo.
Poi finalmente questa diatriba – forse perché accompagnata dallo shock della ferita, sia pure relativamente leggera – sembrò averlo esaurito; cominciò a impallidire e io insistetti perché andasse a letto. Mi obbedì con riluttanza e si sdraiò su uno dei letti gemelli della camera che aveva prenotato per noi due, cinque piani sopra quella strada rumorosa. Io vi avrei trascorso due notti in gran parte insonni e (soprattutto per la mia persistente disperazione per Sophie e Nathan) depresse, inzuppato di sudore sotto il nero ragno ronzante di un ventilatore elettrico che dispensava sparuti sbuffi d’aria. Nonostante la stanchezza, mio padre continuava a parlare del Sud. (Mi resi conto in seguito che la sua visita era, almeno in parte, una sottile missione per salvarmi dalle grinfie del Nord; non me lo disse mai direttamente, ma la vecchia volpe aveva certamente intrapreso quel viaggio soprattutto per sforzarsi di impedire il mio definitivo passaggio agli yankee.) Quella prima notte le sue ultime parole prima che si addormentasse esprimevano la speranza che io lasciassi questa sconcertante città per tornare nella campagna cui appartenevo. La sua voce era lontana quando mormorò qualcosa a proposito delle «dimensioni umane».
I giorni successivi li trascorremmo proprio come si immagina che un giovane ventiduenne possa passare le ore in compagnia di un babbo sudista, generalmente di malumore, nel corso di un’estate newyorkese. Visitammo un paio di attrazioni turistiche, confessando entrambi di non averlo mai fatto prima: la Statua della Libertà e il tetto dell’Empire State Building. Facemmo un giro in battello attorno a Manhattan. Andammo al Radio City Music Hall sonnecchiando durante una commedia con Robert Stack e Evelyn Keyes. (Ricordo che, nel corso di questo cimento, il lutto per Sophie e Nathan mi avvolgeva come un sudario.) Demmo un’occhiata al Museum of Modern Art, luogo che, con una certa condiscendenza, temevo potesse offendere il vecchio, il quale invece se ne mostrò assolutamente entusiasta; i limpidi ortogonali Mondrian deliziarono particolarmente i suoi occhi di tecnico. Mangiammo nello stupefacente ristorante automatico di Horn & Handart, da Nedick, da Stouffer e – in un’escursione in quella che a quei tempi era per me la haute cuisine – da Longchamps. Visitammo un paio di bar (compreso, per puro caso, un locale gay sulla 42nd, dove io vidi il viso di mio padre diventare grigio come farina d’avena alla vista di quelle sorridenti apparizioni e finire poi letteralmente sfigurato da un’espressione di totale incredulità), ma ogni sera ci ritiravamo di buonora, dopo aver di nuovo parlato della fattoria annidata tra le piante d’arachidi del Tidewater. Mio padre russava. Dio, quanto russava! La prima notte riuscii in qualche modo a schiacciare qualche pisolino in mezzo a quel poderoso sbuffare e deglutire. Ma ora ricordo che quel prodigioso russare (provocato da una deviazione del setto nasale, era da sempre il suo cruccio: un cannoneggiamento che nelle sere d’estate, con le finestre aperte, soleva notoriamente svegliare i vicini) era divenuto nell’ultima fase della notte parte integrante della struttura della mia insonnia, formando un turbolento contrappunto alla febbrile deriva dei miei pensieri: un fuggevole ma amaro senso di colpa, un accesso di mania erotica che mi piombò addosso come un succubo divoratore e infine uno straziante, dolce, quasi intollerabile ricordo del Sud che mi tenne sveglio nelle ore sempre più bianche dell’alba.
Colpa. Mentre me ne stavo lì sdraiato, mi resi conto che da ragazzo mio padre mi aveva punito duramente una sola volta, e per un delitto che meritava in assoluto un castigo. Aveva a che fare con mia madre. L’anno precedente la sua morte, io ero allora dodicenne, il cancro che la stava divorando aveva cominciato a infiltrarsi nelle sue ossa. Un giorno la sua gamba indebolita cedette; cadde e si spezzò una tibia, che non guarì mai più. Da allora dovette tenerla ingabbiata e camminare zoppicando con un bastone. Ma non le piaceva starsene a letto e preferiva, appena possibile, rimanere seduta. E quando si sedeva allungava la gamba ingessata, appoggiandola su uno sgabello o su un’ottomana. Aveva solo cinquant’anni e sapeva, lo capivo, di dover morire; talvolta vedevo la sua paura. Leggeva libri in continuazione – erano la sua droga fin quando il dolore non divenne intollerabile e autentiche droghe presero il posto di Pearl Buck – e il ricordo più forte che ho di lei nell’ultimo periodo della sua vita è quello di una testa grigia sopra un viso dolce, occhialuto, emaciato, chino su Non puoi tornare a casa (era una devota tifosa di Wolfe molto prima che io ne leggessi anche solo una parola, ma leggeva anche bestseller con titoli pretenziosi come Polvere sei il mio destino o Il sole è la mia rovina), un’immagine di assorta e serena contemplazione, familiarmente quotidiana, a suo modo, come uno studio di Vermeer, a parte quell’orribile sostegno metallico appoggiato allo sgabello. Ricordo anche il vecchio arabescato e sfilacciato afgano con il quale, quando faceva freddo, si copriva il grembo e la gamba imprigionata. In realtà le basse temperature non tormentano mai quella parte del Tidewater della Virginia, ma nei mesi brutti il tempo poteva diventare, per brevi periodi, dolorosamente freddo, e poiché questo avveniva di rado, ciò era sempre una sorpresa. Nella nostra piccola casa avevamo una debole stufa a carbone in cucina, rafforzata da un minuscolo caminetto nel soggiorno.
Era sul divano di fronte a questo caminetto che mia madre si sdraiava a leggere ne...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. LA SCELTA DI SOPHIE
  4. Uno
  5. Due
  6. Tre
  7. Quattro
  8. Cinque
  9. Sei
  10. Sette
  11. Otto
  12. Nove
  13. Dieci
  14. Undici
  15. Dodici
  16. Tredici
  17. Quattordici
  18. Quindici
  19. Sedici
  20. La danza macabra di William Styron. di Alessandro Piperno
  21. Copyright