
- 224 pagine
- Italian
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eBook - ePub
Sino al confine
Informazioni su questo libro
In parte autobiografico, è il romanzo di un'agiata ragazza vittima di un ancestrale senso dell'onore che la porterà a drammatiche e dolorose rinunce.
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Informazioni
Print ISBN
9788804190165eBook ISBN
9788852056192Parte seconda
I
Dopo la morte del signor Sulis la casa diventò più triste di un convento. Il lutto doveva essere rigidamente osservato almeno per due anni, e durante i primi sei mesi le finestre verso la strada dovevano restare chiuse. Gavina si consumava di tristezza. Ella aveva veduto suo padre morto; pallida e ansante s’era curvata sul viso calmo di lui, guardando entro quegli occhi glauchi socchiusi, come entro un luogo misterioso, un lago vitreo senza luce né moto; e aveva avuto l’impressione che quello spazio immobile e freddo fosse, non l’abisso della morte, del nulla, ma l’abisso della vita. Ecco, tutto finiva così! Suo padre, che ieri ancora sorrideva e scherzava, adesso stava immobile e muto per tutta l’eternità. Che cos’è la vita umana! Un volo d’uccello. Ed ella andò ad appoggiarsi ai vetri della finestra chiusa, e pianse pensando che ella, col suo peccato, aveva forse affrettato la morte di suo padre.
Con tutto questo, non solo non si ribellava al Dio vendicatore che la castigava in modo così crudele, ma lo adorava col terrore e l’ammirazione primitiva dei selvaggi per tutto ciò che è forza distruggitrice. La morte di suo padre, avvenuta in quella circostanza, fu per l’anima di lei come uno di quegli uragani estivi che purificano l’aria ma devastano i giardini. La piccola anima si fece pura ed arida come una cima alpina. Ella non pensò più a Priamo che per procurarsi la triste voluttà di scacciare questo pensiero; e mentre trasaliva ogni volta che vedeva Michela, per paura che l’amica le portasse una lettera, desiderava di ricevere questa lettera per lacerarla senza leggerla. La solita preghiera – Dio fatemi soffrire – diventò in lei una specie di idea fissa.
Ogni tanto si esaminava se soffriva davvero, e le pareva di non soffrir mai abbastanza. Fu così che si sviluppò in lei, spontaneamente, una forza d’analisi sempre più acuta.
Otto giorni erano passati, dopo la morte del signor Sulis, e ancora la vedova, imbacuccata in uno scialle nero, seduta in un angolo della saletta ove un soffio di morte pareva avesse spento anche la luce, riceveva le barbare visite di condoglianza.
Tutti ripetevano:
«Pazienza! siamo nati per morire!»
E la vedova, immobile, pallida, non piangeva, non parlava più, quasi che a forza di sentirselo dire si fosse ormai convinta che bisogna vivere pazientemente solo per aspettar la morte.
Accanto a lei stava Luca, vestito di nero, grasso, cascante, con gli occhi spalancati, simile ad un vecchio di sessant’anni. Anche Gavina sedeva nell’angolo fra la “console” e il divano, ma la gente che passava nella saletta semibuia come in una strada lugubre pronunziando parole di morte, non badava a lei.
Passarono tutti i borghesi della piccola città, i ricchi paesani, i preti, i canonici; il canonico Felix fu l’unico a parlare di vita.
«Signora Zoseppa, coraggio! Vede, i suoi figli le fanno compagnia, e hanno bisogno di lei. Sono giovani, la vita li attende; sì, hanno proprio bisogno di lei.»
Ma poi venne il canonico Bellìa, accigliato, funebre, ad occhi bassi:
«Siamo nati per morire. Tutto muore, quaggiù: è destino; e noi siamo polvere che il vento disperde…»
E Gavina si ripiegò su sé stessa come urtata dal vento funebre di cui parlava il suo confessore. Nella saletta la penombra si addensava, e sulla “console” anche la Venere pareva triste, convertitasi davvero in una melanconica Madonna.
Intanto in cantina zio Sorighe e il servo rimettevano il mosto nelle botti, procurando di non far rumore. Al vecchio rincresceva molto di non poter canticchiare, ma qualche verso di tanto in tanto lo borbottava; all’imbuto rivolse questo complimento:
Non bi at imbriagolu in custu mundu,chi biat cantu a tie in d’unu die…3
Paska piangeva, ma sorvegliava i due servi, perché in cantina c’era una botte ancora piena di vino vecchio, – e osservava una cosa strana. Luca scendeva di tanto in tanto in cantina, in punta di piedi, s’avvicinava alla botte, si curvava per aprire la cannella; ma poi, come colto da un terrore improvviso, si allontanava ed usciva senza aver bevuto.
Una sera il canonico Sulis, dopo aver conferito colla vedova del fratello, chiamò Gavina e Luca e disse loro:
«Vostro padre è vissuto onoratamente, lavorando per voi. Ora tocca a voi onorare la sua memoria. Egli non ha scritto il suo testamento, ma voi sapete che i suoi beni appartengono tanto a voi che a vostra madre. Ella continuerà ad essere la padrona, qui. Che ne dite? Parla tu, Gavina!»
«Sì, sì! Lei è la padrona!»
«E tu, Luca? Parla!»
E Luca parlò, commosso e piangente:
«Sì, sì, ella sarà sempre la padrona! Io obbedirò ad ogni suo cenno. Anch’io vivrò onestamente, come mio padre, lavorerò, sarò un figlio rispettoso…»
Gavina non credette ad una sola di queste parole e vedendo il canonico Sulis con le lagrime agli occhi ne provò stizza; ma per non turbare la scena commovente si alzò ed uscì nell’orto, ove poco dopo la raggiunse Michela.
«Non sai, non sai che mi è accaduto? Priamo Felix voleva darmi una lettera per te…»
«Tu l’hai presa… Tu?…» domandò Gavina, pallidissima. «No, no, vero? Guai a te, se osi tanto, guai, guai. Egli è pazzo…»
«Ma se insiste, che devo dirgli?»
«Che io… che io… non voglio sentir parlar di lui, né di altri… di nessuno, di nessuno! Io sono come morta per lui… per tutti…»
L’indomani zio Sorighe preparò la sua bisaccia per partire; andò a salutare il canonico Felix, si congedò dalla sua padrona, e dopo aversi caricato la bisaccia sulle spalle disse:
«Coraggio, signora Zoseppa! “Egli” ora è più felice di noi. Egli è arrivato, mentre noi camminiamo ancora.»
Domandò di Gavina, e saputo che era nell’orto a innaffiare i crisantemi che ella coltivava con cura per farne corone da deporre sulla tomba di suo padre, andò a salutarla.
«“Dami sa manu, bellita, bellita…”»
«Voi partite? Buon viaggio» ella rispose, e non sorrise, non lo guardò. Egli se ne andò, con la sua bisaccia sulla spalla come un pellegrino.
Un momento dopo, mentre andava a prendere l’acqua dal pozzo ella vide per terra una lettera chiusa, senza dubbio smarrita da zio Sorighe. Si curvò, prese la lettera e impallidì; era diretta a lei; ed ella riconobbe la calligrafia di Priamo. Sulle prime provò un impeto di rabbia contro zio Sorighe, ma ad un tratto la sua collera svanì per dar luogo ad una cupa tristezza. Che fare, che fare? La lettera le bruciava le dita; ella sentiva un acerbo desiderio di aprirla, ma aveva già tanta potenza su sé stessa che non solo vinceva il suo desiderio, ma lo esaminava crudelmente. Bisognava rimandare la lettera; ma come? pensò a Michela, indi respinse con sdegno questo pensiero.
Rimase a lungo pensierosa ed inquieta; la sera cadeva, tiepida e vaporosa e con l’odore delle erbe secche, dei crisantemi umidi, saliva come un vapore di ricordi. Verso quell’ora, tutti i giorni, ella pensava a suo padre morto e pregava per lui; e anche quella sera cominciò la sua interminabile fila di “requiem aeternam” ma si accorse di non pregare con abbastanza raccoglimento. Pensava sempre alla lettera, e ad un tratto si accorse con dolore che il suo desiderio di leggerla diventava sempre più intenso; allora cadde in ginocchio sbigottita e la solita preghiera le salì alle labbra:
«Dio mio, perdono: Dio mio, fatemi soffrire! Così, così, fatemi soffrire!»
E decise di conservar la lettera, di tenerla sul petto come un cilizio, per tormentarsi col desiderio di leggerla e vincere questo suo desiderio.
Veniva l’autunno, e la vita in casa Sulis diventava triste come la stagione. Finché il sole di ottobre batté sull’orto, il suo riflesso illuminò le stanze melanconiche; poi tutto fu ombra, desolazione. Il giorno dei morti la vedova e Paska, che parlavano continuamente del caro scomparso, piansero come se egli fosse morto poche ore prima; eppure fu proprio in quel giorno che Gavina sorprese di nuovo Luca in agguato presso il guardaroba. Egli, che in tutto quel tempo non aveva più bevuto, quasi avesse ancora paura di suo padre, ricadeva nel suo vizio; e Gavina, pensando che non era il caso di ricorrere a sua madre, gli si avvicinò e lo guardò con occhi selvaggi.
«Vergognati! Via, via di qui; va via subito o la farai con me. Proprio oggi vuoi ubriacarti? Così onori la memoria di nostro padre? Ti farò cacciar via di casa…»
«Tu, asina? È tua questa casa?»
«È mia! È mia! Mettiti bene in mente che d’ora in avanti voglio essere io la padrona, qui! Ricordatelo.»
«La padrona è nostra madre. Tu hai promesso…»
«E tu, tu, che cosa hai promesso, miserabile?» ella disse minacciandolo coi pugni. «Hai promesso di rovinarti e rovinarci? Ma io non lo permetterò, capisci, non lo permetterò mai… mai! Piuttosto ti farò morire di rabbia, ti caccerò via di casa. Vattene, hai capito, sì o no? Non senti come piange quella disgraziata, non senti?»
Infatti si udiva la signora Zoseppa singhiozzare, in cucina. Luca rinculò e tacque, colpito dal dolore di sua madre, e per qualche tempo parve ridiventare saggio o almeno animato da buoni propositi.
«Arriverà un giorno in cui tutti quanti voi, che ora mi tormentate pretendendo di guidarmi come un bimbo, mi rispetterete come padrone» diceva a Paska. «Vedrai, vedrai! Se mi riesce un progetto guadagnerò in una settimana ciò che tu non hai guadagnato in quarant’anni!…»
«E Dio ti esaudisca!» rispondeva Paska convinta. «Il talento ce l’hai; così tu avessi un po’ di buona volontà!…»
Ma i giorni passavano ed egli non metteva in esecuzione il suo progetto: accoccolato accanto al fuoco come una donnicciuola, si contentava di brontolare contro Paska e contro il servo lontano.
Un giorno, in dicembre, il canonico Felix e suo nipote fecero visita alla vedova Sulis, e mentre lo zio diceva, col suo placido riso: «ah, ah, oggi non ho veduto neppure una signora col ventaglio!» Priamo si guardava attorno con gli occhi foschi, aspettando Gavina che non compariva.
E l’inverno s’inoltrò, coi suoi venti feroci e le sue nevi silenziose; le montagne ne furono tutte coperte, ed anche le più lontane apparvero vicine, bianche sul cielo turchino come nuvole primaverili, o confuse fra nubi mostruose. Qualche notte la luna sorgeva dalle cime nevose, fredda e pura come se fosse stata a lungo sepolta fra la neve, e tutto il paesaggio sembrava di marmo argenteo, destinato a rimanere eternamente così. Nell’orto emergevano soltanto le cime dei cespugli, simili a strani fiori neri sbocciati sulla neve cristallina. Gavina guardava dai vetri prima di coricarsi, e pensava a suo padre, che doveva aver freddo, laggiù, nel piccolo cimitero alle falde della montagna: e una tristezza morbosa l’assaliva, ma spesso si esaltava, pensava alla morte, a Dio, contenta di soffrire, e la sua anima rifletteva la purezza fredda e desolata della notte nevosa.
Ma al principio della primavera le finestre furono riaperte ed ella poté uscire di casa. Andò in chiesa, si confessò, espresse al canonico Bellìa il suo desiderio di farsi monaca; ma con grande stupore sentì che egli la sconsigliava, imponendole di rimanere presso sua madre.
«Quale miglior chiostro della vostra casa? Andate in pace, non pensate più a queste cose, figlia mia!»
La sera del giovedì santo, sei mesi dopo la morte di suo padre, Gavina, in compagnia di Michela, andò alla processione del Cristo morto.
Sopra il len...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- Introduzione
- Antologia critica
- Bibliografia
- SINO AL CONFINE (1910)
- Parte prima
- Parte seconda
- Parte terza
- Parte quarta
- Copyright