HOLLY BLACK
CASSANDRA CLARE
l’anno di ferro
Traduzione di Beatrice Masini
Per Sebastian Fox Black,
a proposito del quale nessuno ha scritto
messaggi minatori nel ghiaccio
Da lontano, l’uomo che arrancava su per il fronte bianco del ghiacciaio poteva somigliare a una formica che zampetta lentamente sul bordo di un piatto. La baraccopoli di La Rinconada era una manciata di puntini sparsi molto più giù; il vento aumentava via via che lui saliva, soffiandogli sbuffi polverosi di neve sul volto e ghiacciando gli umidi ricci neri. Nonostante gli occhiali d’ambra, il suo viso era contratto in una smorfia per la luminosità del tramonto riflesso.
L’uomo non aveva paura di cadere, anche se non usava corde o ancoraggi, ma solo ramponi e un’unica piccozza. Il suo nome era Alastair Hunt ed era un mago. Modellava e plasmava la materia gelata del ghiacciaio mentre saliva. Appigli per mani e piedi comparivano via via che procedeva con grande fatica.
Quando raggiunse la caverna, a metà del massiccio, era semiassiderato e sfinito: aveva impegnato tutta la propria forza di volontà nel domare il peggiore degli elementi. Praticare la magia così a lungo gli risucchiava le energie, ma non aveva osato rallentare.
La caverna si apriva come una bocca nel fianco della montagna. Impossibile vederla da sopra o da sotto. Lui si issò oltre l’imboccatura e trasse un profondo respiro, quasi un rantolo, maledicendosi per non essere arrivato prima, per essersi lasciato ingannare. A La Rinconada la gente aveva visto l’esplosione e sussurrato interpretazioni sul suo significato: il fuoco dentro il ghiaccio.
Il fuoco dentro il ghiaccio. Doveva essere un segnale di emergenza… o un attacco. La caverna era piena di maghi troppo vecchi per combattere o troppo giovani, feriti e malati, nonché madri di bambini molto piccoli che non potevano essere lasciati soli − come sua moglie e suo figlio. Erano stati nascosti lì, in uno dei luoghi più remoti della Terra.
Magister Rufus aveva insistito perché così si facesse: altrimenti sarebbero stati vulnerabili, ostaggi della sorte, e Alastair si era fidato di lui. Poi, quando il Nemico della Morte non si era presentato per affrontare la paladina dei maghi, la giovane Makar nella quale avevano riposto tutte le loro speranze, Alastair aveva compreso il proprio errore. Si era precipitato a La Rinconada più veloce che poteva, coprendo quasi tutta la distanza a dorso di un primitivo d’aria. Dalla baraccopoli aveva poi proseguito a piedi, dal momento che il Nemico esercitava su tutti i primitivi un potere imprevedibile e saldo, e non poteva più fidarsi della sua cavalcatura. Più saliva, più la paura aumentava.
“Fa’ che stiano tutti bene” ripeté tra sé. Si tirò in piedi ed entrò nella caverna. “Ti prego, fa’ che stiano tutti bene.”
Si sarebbe dovuto sentire il pianto dei bambini, il basso brusio delle conversazioni nervose e il ronzio della magia controllata. Invece si udiva solo l’ululato del vento che spazzava la cima desolata della montagna. Le pareti della caverna erano di ghiaccio bianco, macchiato di rosso e bruno dove il sangue era schizzato e si era raggrumato. Alastair si tolse gli occhiali d’ambra e li lasciò cadere a terra, poi avanzò, aggrappandosi alle ultime stille della sua energia per reggersi in piedi.
Le pareti emanavano un inquietante brillio fosforescente. Lontano dall’ingresso era la sola luce, e forse per questo inciampò nel primo corpo e quasi cadde in ginocchio. Si ritrasse con un urlo, poi trasalì sentendo il proprio grido tornare indietro in forma di eco. La maga caduta era carbonizzata, irriconoscibile, ma indossava il braccialetto di pelle con la banda di rame che la identificava come una studentessa al secondo anno del Magisterium. Non poteva aver avuto più di tredici anni.
“Ormai dovresti essere abituato alla morte” si disse. Erano in guerra con il Nemico da un decennio che a volte pareva un secolo. All’inizio era sembrato impossibile: un solo giovane − certo, un Makar, ma solo − deciso a vincere la morte. Poi però, mentre il potere del Nemico cresceva e il suo esercito di creature del caos aumentava, la minaccia era diventata sempre più terribile… fino a culminare in quello spietato massacro dei più indifesi, dei più innocenti.
Alastair si alzò e si spinse più a fondo nella caverna, cercando disperatamente un volto fra tutti. Si fece strada oltre i corpi di anziani esponenti del Magisterium e del Collegium, oltre i bambini di amici e conoscenti, oltre i maghi feriti in battaglie precedenti. Tra loro giacevano i corpi spezzati delle Creature del Caos, gli occhi turbinosi spenti per sempre. Anche se i maghi erano stati colti di sorpresa, dovevano aver reagito con forza per aver ucciso tanti soldati del Nemico. Con l’orrore che gli rimescolava le viscere, mani e piedi ormai insensibili, Alastair avanzò barcollando. Finché la vide.
Sarah.
La trovò distesa sul fondo, contro una nebulosa parete di ghiaccio. Aveva gli occhi aperti, fissi sul nulla. Le iridi erano torbide e le ciglia incrostate di ghiaccio. Si chinò e le passò le dita sulla guancia fredda. Inspirò bruscamente, e il suo singhiozzo bucò l’aria.
Ma dov’era il figlio? Dov’era Callum?
Sarah stringeva nella destra un pugnale. Era abilissima nel plasmare i metalli recuperati dal profondo del suolo. Aveva forgiato lei quella lama l’ultimo anno di Magisterium e le aveva dato un nome: Semiramis. Alastair sapeva che Sarah aveva molto cara quell’arma. Se devo morire, voglio morire stringendo il mio pugnale, gli diceva sempre. Ma lui non voleva assolutamente che morisse.
Sfiorò di nuovo con le dita la guancia gelida.
Un pianto lo fece voltare di scatto. In quella caverna traboccante di morte e silenzio, un pianto.
Un bambino.
Cercò affannosamente la fonte di quel flebile gemito. Sembrava arrivare da un punto più vicino all’ingresso. Tornò indietro di corsa, inciampando sui cadaveri, alcuni rigidi come statue, finché all’improvviso un altro volto familiare non lo fissò dalla carneficina.
Declan. Il fratello di Sarah, ferito nell’ultima battaglia. Sembrava essere stato soffocato da una forma particolarmente feroce di magia d’aria; aveva il volto blu, gli occhi iniettati di sangue. Un braccio era teso e sotto, con una coperta di tessuto a proteggerlo dal gelo del suolo, c’era il figlio di Alastair. Mentre lui lo fissava sbigottito, il neonato aprì la bocca ed emise un altro debole gemito, quasi un miagolio.
Come in trance, tremante di sollievo, Alastair si chinò a raccogliere suo figlio. Il bambino lo guardò con i grandi occhi grigi e accennò un altro lamento. La coperta cadde, e Alastair capì la ragione del pianto. La gamba sinistra del piccolo penzolava in modo innaturale, come un ramo spezzato.
Alastair cercò di evocare una magia di terra per curare il bambino, ma aveva a stento le energie residue per alleviare un po’ il dolore. Con il cuore in tumulto, riavvolse stretto il bimbo nella coperta e tornò nel punto della caverna dove giaceva Sarah. Tenne il piccolo come se lei potesse vederlo e le s’inginocchiò accanto.
«Sarah» sussurrò, un nodo di lacrime in gola. «Gli dirò che sei morta per proteggerlo. Lo crescerò nella memoria del tuo coraggio.»
Gli occhi di lei lo fissarono, vuoti e pallidi. Alastair strinse il bimbo più forte e si protese per sfilarle Semiramis dalla mano. Nel farlo notò che il ghiaccio accanto alla lama era segnato come se lei l’avesse graffiato durante l’agonia. Ma i segni erano troppo marcati. Si avvicinò e vide che erano parole: parole che sua moglie aveva inciso nel suolo della caverna con le ultime forze prima di morire.
Le lesse, e fu come ricevere tre pugni nello stomaco.
UCCIDETE IL BAMBINO.
Callum Hunt era una leggenda nella sua cittadina del North Carolina, ma non in senso buono. Insuperabile a smontare i supplenti con battute sarcastiche, se la cavava alla grande anche quando si trattava di irritare preside, bidelli e addette alla mensa.
Gli psicologi scolastici partivano sempre animati dal desiderio di aiutare quel povero ragazzo che aveva perso la madre… e finivano per sperare di non rivederlo mai più sulla soglia dei loro uffici. Era molto imbarazzante non riuscire ad avere la risposta pronta per rimettere al suo posto un dodicenne perennemente arrabbiato.
Il cipiglio costante di Call, la chioma nera arruffata e i sospettosi occhi grigi erano ben noti ai suoi vicini. E non aveva giovato ai buoni rapporti il fatto che, mentre si cimentava con lo skateboard, fosse finito diverse volte contro le loro auto, tuttora segnate. Spesso lo si vedeva appostato davanti alle vetrine della fumetteria, della sala giochi o del negozio di videogame. Perfino il sindaco lo conosceva: difficile dimenticarlo, visto che durante la Parata del Primo Maggio Call si era intrufolato nel negozio di animali locale, aveva eluso la sorveglianza del commesso e rapito una talpa nuda destinata a finire nella pancia di un boa constrictor. Call aveva provato pena per quella creatura cieca e rugosa dall’aria indifesa, e per amor di giustizia aveva liberato anche tutti i topi bianchi destinati a seguirla nel menu serale del serpente.
Certo, non aveva previsto che i topi si precipitassero tra i piedi della gente che sfilava, ma evidentemente i roditori non sono molto svegli. Lo aveva stupito di più che gli spettatori si dessero alla fuga per dei semplici topolini, ma nemmeno la gente è troppo sveglia, come aveva commentato alla fine suo padre. Insomma, non era colpa di Call se la parata era stata un disastro, eppure tutti – sindaco in testa – si comportavano come se lo fosse. In più, il papà l’aveva costretto a restituire la talpa nuda.
Il padre di Call non approvava il furto.
A suo parere, era sbagliato quasi quanto la magia.
Callum aspettava dondolandosi sulla rigida sedia davanti allo studio del preside e chiedendosi se l’indomani sarebbe tornato a scuola, e se in caso contrario qualcuno avrebbe sentito la sua mancanza. Ripassò ancora una volta tutti i metodi per farsi bocciare alla Prova dei maghi, e nel modo più spettacolare possibile. Suo padre gli aveva elencato più e più volte le alternative per ottenere una bocciatura certa: Svuota del tutto la mente. Concentrati su qualcosa che sia il contrario di ciò che vogliono quei mostri. Pensa alla prova di un altro invece che alla tua. Call si strofinò il polpaccio, che quella mattina in classe gli faceva male ed era tutto un crampo; qualche volta gli succedeva. Più cresceva in altezza, più gli faceva male. Be’, almeno la parte fisica nella Prova dei maghi – di qualunque cosa si trattasse – sarebbe stata facile da fallire.
Sentiva in lontananza gli altri ragazzi correre in palestra − le scarpe da ginnastica che scricchiolavano sul parquet lucido, le voci alte, gli insulti urlati. Gli sarebbe piaciuto partecipare almeno una volta: forse non era veloce come i compagni, o altrettanto in grado di mantenere l’equilibrio, ma traboccava di energia. Invece era esonerato da educazione motoria proprio per via della gamba. Sin dalle elementari, quando lui cercava di correre, saltare o arrampicarsi, all’intervallo, uno dei bidelli arrivava sempre a ricordargli che doveva darsi una calmata o si sarebbe fatto del male, e che se avesse continuato così l’avrebbe costretto a rientrare.
Come se qualche livido fosse la cosa più terribile che potesse succed...