Il tempo dell'onestà
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Il tempo dell'onestà

  1. 294 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Il tempo dell'onestà

Informazioni su questo libro

In questo diario, tenuto tra il suo settantasettesimo e settantottesimo compleanno, P.D. James ricostruisce la sua storia personale e la storia del secolo in cui è vissuta. La "signora britannica del giallo" affronta, sempre con deliziosa eleganza, gli argomenti più disparati: dai ricordi sulla Seconda guerra mondiale agli aneddoti sulla BBC, dall'infanzia a Cambridge alle riflessioni sulla vita, la morte e il sesso. Passando per l'analisi del mestiere di scrittore e la storia della letteratura poliziesca, la James dà una sua personale interpretazione del motivo per cui le donne, da Agatha Christie a Patricia Cornwell, eccellono nella crime fiction. Seguendo il filo della memoria, coinvolge il lettore in un originale affresco della vecchia Inghilterra, di cui rappresenta una delle ultime e più autorevoli protagoniste.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2014
Print ISBN
9788804495369
eBook ISBN
9788852053030

DIARIO 1997

Agosto

Domenica, 3 agosto

Sto scrivendo in uno scompartimento di prima classe quasi deserto del treno delle 15,32 da Newton Abbot a Paddington. Osservo la campagna rossa del Devon avvolta nella nebbia, che pare dissolversi nella pioggia; persino il tanto atteso tratto di costa a Dawlish e Teignmouth ha mancato di esercitare il suo solito fascino.
Ma, nonostante oggi sia piovuto in continuazione, è stato un weekend felice. Sono andata a Paignton per la festa delle nozze d’oro di Dick e Mary Francis. L’ha organizzata il figlio Felix nell’albergo che la famiglia frequenta da oltre quarant’anni; più di sessanta tra amici e parenti si sono riuniti per celebrare con Dick e Mary mezzo secolo di unione felicissima e proficua. Fortunatamente ieri ha smesso di piovere per l’evento principale, il ricevimento, e così dal salone siamo potuti uscire in terrazza a bere champagne e a goderci il panorama di Tor Bay.
L’albergo è un esempio tipico del genere che preferisco, un finto castello progettato da un colonnello vittoriano in preda a un eccesso di esaltazione alcolica o imperialista, ma con stanze confortevoli e un personale di servizio, per la maggior parte dipendenti che lavorano lì da anni, che dà l’impressione di amare il proprio lavoro e di trovare realmente gradevole la presenza degli ospiti. Sulle scale è appeso il ritratto a olio del progettista-fondatore, dipinto, ho il sospetto, da lui stesso. Mi è stata assegnata una stanza con un balcone sul mare e ho potuto dormire con le finestre aperte, ascoltando il rumore delle onde e i richiami dei gabbiani.
Sabato mattina, seduti nel salone, Mary ci ha mostrato l’album con le fotografie del loro matrimonio. Quanti ricordi di cerimonie in tempo di guerra! Gli abiti rimediati con abilità – la mussola color avorio era un espediente cui si ricorreva spesso, poiché non si potevano sprecare i buoni delle tessere e comunque non si trovava la stoffa per abiti più tradizionali – gli enormi bouquet, i cappellini con la veletta delle invitate, i tailleur con le spalle esageratamente imbottite, lo sposo e il testimone in uniforme. È stato interessante cercare di riconoscere gli invitati dalle foto di cinquant’anni fa, i volti lisci ed entusiasti, non ancora toccati dalle distruzioni della guerra né dalle vicissitudini della pace. Solo Dick e Mary, sorridenti davanti all’obiettivo, non sembrano cambiati.
Sabato pomeriggio ho approfittato di una pausa del brutto tempo e ho fatto una passeggiata da sola in giro per la cittadina; la strada principale pullulava di residenti che facevano la spesa settimanale e di turisti che affollavano le solite botteghe di souvenir e articoli da mare. Ho trovato un negozio di antiquariato dove ho acquistato una brocchetta e una ciotola di Doulton come ricordo del weekend.
Essendo una scrittrice, preferisco le cittadine di mare in autunno e in inverno. C’è qualcosa di nostalgico e vagamente malinconico, oltre che deprimente, nel lento morire della stagione che fa delle località marine a fine estate la valida ambientazione per un romanzo poliziesco: la passeggiata spazzata dal vento, gli ultimi boccioli avvizziti sui cespugli di rose dei giardini pubblici sistemati con cura, le sale giochi chiuse e abbandonate, la pittura scrostata, i padiglioni deserti. Ho usato una cittadina come questa in una scena di Una notte di luna per lispettore Dalgliesh quando il serial killer, il Fischiatore, si suicida in uno squallido albergo, il crepuscolo dell’anno a simboleggiare la sua fine patetica e non compianta. Per me l’ambientazione, il personaggio e la narrazione sono sempre interdipendenti.
Non passa compleanno senza che io ripensi a quell’evento che nessuno di noi può ricordare, almeno consciamente: il momento della propria nascita. La mia avvenne in casa, come la gran parte in quei tempi, a Oxford, al 164 di Walton Street. Ero la prima figlia, a lungo desiderata, arrivata dopo tre anni di matrimonio e dopo che mia madre si era sottoposta a ogni possibile cura per favorire il concepimento. Mio padre avrebbe di gran lunga preferito un bambino, ma credo che fosse comunque contento di avere una figlia e sperasse nella nascita di un maschio in seguito. Fu un travaglio lungo e difficile cui assistette il dottore, fatto insolito a quei tempi se la famiglia non era ricca. Qualcuno deve avermi detto l’ora della mia nascita ma l’ho dimenticata e, poiché i presenti sono ormai morti da tempo, è una di quelle cose che non saprò mai. Ricordo però che mia madre mi raccontava di una torta preparata da un’amica per l’occasione, che il dottore e mio padre mangiarono durante le lunghe ore della notte passate nell’attesa. Questo farebbe presupporre che io sia nata alle prime ore del mattino. Ogni tanto mi scopro a desiderare di conoscere l’ora esatta, dettaglio così irrilevante che la mia curiosità può essere dettata solo da una forma di egocentrismo.
Il ricordo getta una luce capricciosa e mutevole. Il suo raggio illumina violento le vette più alte – amore, matrimonio, nascite di figli, lutti – ma sfiora incerto gli altipiani oscuri e perduti tra queste. Il mio primo ricordo è di un fatto avvenuto quando stavo imparando a camminare. Forse è proprio questo che ha fatto sì che il raggio lo illuminasse, perché altrimenti non ci sarebbe nulla di eccezionale. Dovevo avere meno di diciotto mesi e mia madre mi aveva portato a Winchester dai suoi genitori. Mio nonno, Edward Hone, era direttore della Choir School, che sarebbe diventata in seguito la Pilgrims School. I ragazzi facevano lezione in giardino, in uno speciale padiglione dedicato alle aule. Liberatami dalla stretta di mia madre, caracollai dentro, dove i ragazzi mi accolsero con una fragorosa risata. Ricordo che il nonno era seduto dietro un’alta cattedra di fronte alla scolaresca; si avvicinò immediatamente, mi prese per la mano e mi riconsegnò a mia madre, che era entrata tutta confusa dalla porta e si profondeva in scuse. La mamma parlava sempre della sua infanzia come di un periodo felice, ma non so fino a che punto questo corrispondesse alla realtà. Era una donna che credeva nei sentimenti appropriati e dubito che le sia mai passato per la mente di criticare i genitori, né il loro stile di vita.
Le uniche informazioni che ho a proposito della Choir School vengono da A History of the PilgrimsSchool scritta da John Crook e pubblicata nel 1981, di cui alcuni anni fa uno dei miei zii mi inviò una copia. La trovo interessante, non solo per la luce che getta sui primi anni di vita di mia madre, ma perché la scuola deve essere stata un esempio tipico dei convitti meno famosi di quel periodo. Mio nonno assunse l’incarico di insegnante nel 1887. Il suo predecessore, un certo William Southcott, era stato costretto a rassegnare le dimissioni in seguito a un’accesa discussione sulle prove di canto durante la quale lui e l’organista erano venuti alle mani. Colebrook House era sicuramente uno splendido posto nel quale crescere. Era, ed è ancora, un grande edificio del Sedicesimo secolo rivolto verso il lato est della cattedrale, con un ruscello che attraversa il giardino. Mio nonno insegnava ai coristi, praticamente senza alcun aiuto a parte quello di un assistente, e di quando in quando cantava come solista nel coro: aveva una bellissima voce da tenore. La nonna mandava avanti il convitto. Edward Hone riceveva quindici sterline per ogni corista e cinquanta sterline di gratifica come direttore del convitto, che venivano ridotte di cinque sterline per ogni convittore non corista oltre i dieci che gli era concesso accogliere. Sembra fosse un accordo complesso e affatto soddisfacente, e di certo i soldi non bastavano mai. Le cose migliorarono leggermente nel 1905, quando Colebrook House fu trasformata in convitto aperto a tutti gli studenti e la gratifica di mio nonno venne considerevolmente aumentata.
Anche così, però, la vita a Colebrook House doveva essere dura. In ogni periodo dell’anno i ragazzi venivano svegliati alle sette e dovevano lavarsi con l’acqua fredda. La colazione, alle otto, consisteva nel toke, spesse fette di pane spalmate con grasso animale sciolto o, di quando in quando, pasta di pesce o marmellata d’arance. L’unica mattina in cui veniva offerta una colazione calda era l’ultimo giorno del trimestre, quando ai ragazzi veniva servito un uovo sodo prima di affrontare il viaggio verso casa. Ovviamente il nonno desiderava che la scuola emulasse le più famose preparatory schools e i ragazzi indossavano uniformi simili a quella di Eton, tocchi e stivali tirati a lucido. In fila per due si avviavano verso la cattedrale per le prove e i mattutini, che duravano tre quarti d’ora ed erano seguiti dalle lezioni fino all’una.
Pare che il pranzo fosse più soddisfacente della prima colazione. Veniva servito in un’elegante sala sul retro dell’edificio. Il nonno tagliava la carne, la nonna e le due figlie servivano le verdure. Forse perché era un pasto consumato con la famiglia, Crook lo definisce “tollerabile”. Al pranzo facevano seguito le lezioni pomeridiane fino alle 15,45, a meno che non fosse bel tempo, nel qual caso i ragazzi andavano a giocare fuori. Alle quattro veniva recitata la preghiera della sera, cui seguivano altre esercitazioni di canto fino all’ora del tè. Anche questo, come la prima colazione, era un pasto più che frugale: consisteva in tè e pane con melassa scura, che si era sparsa su tutto il piatto su cui era stata servita prima dell’arrivo dei ragazzi. (Questa era un’abitudine che mia madre mantenne per tutta la nostra infanzia. La prima colazione consisteva sempre in pane, burro, melassa e tè, e la melassa veniva versata nei piatti la sera precedente, cosicché la mattina dopo copriva completamente il piatto fino all’orlo. Da bambini mangiavamo un uovo, solo uno e solo in rare occasioni, talvolta la domenica mattina.)
I ragazzi di Colebrook House andavano a letto presto. Mia madre o sua sorella, la zia Marjorie, portavano un piatto di pane e una brocca di cioccolata calda nell’aula e, dopo questa cena leggera, i ragazzi salivano nei dormitori. Come prevedibile, la domenica era una giornata particolarmente impegnativa per i coristi. La prima funzione era il mattutino delle undici, seguito talvolta da una comunione cantata. La funzione più importante della domenica, però, era la preghiera della sera, alle 15,30, che comprendeva un interminabile inno. Dovevano passare ancora molti anni prima che in cattedrale la Santa Comunione diventasse la funzione più importante.
Inevitabilmente l’istruzione dei ragazzi risentiva delle esigenze della cattedrale, ma mio nonno era un direttore scrupoloso e faceva del suo meglio. Non so se ricordo realmente il suo aspetto o se l’immagine che ho impressa nella memoria deriva dall’unica foto che esiste di lui. Lì assomiglia molto a Edoardo VII: corporatura massiccia, barba, occhiali. Era un bravo insegnante di inglese e aveva un vero talento per la musica, ma era un direttore severo. Fortunatamente per i suoi allievi, questa severità era mitigata dal suo assistente, Percy Spillett. Ricordo che mia madre parlava di lui con grande affetto. Sembra essere stato uno di quegli insegnanti eccentrici, dall’animo gentile, tipici di quel periodo: scapolo, alto, magro, con i baffi, un uomo dai modi pacati, erudito e appassionato di reperti dell’era paleolitica. Con lui le passeggiate della domenica pomeriggio su St Catherine’s Hill si trasformavano in una caccia a tesori preistorici che però non venivano mai alla luce. Insieme, Edward Hone e Percy Spillett sembrano aver fornito ai loro alunni la miglior cultura di base possibile, considerate le circostanze.
Entrambi i miei nonni erano direttori di scuola privata ed entrambi amavano la musica. Mio nonno paterno, Walter James, era anche un valido linguista e per anni collaborò con la British and Foreign Bible Society. Di lui so poco, ma ricordo una visita fatta ai nonni quando avevo dieci anni e loro vivevano a South-sea, in una casetta a schiera. Lui era ormai in pensione, ma faceva l’organista alla Garrison Church. Alcuni degli inni che compose per il coro vennero pubblicati ma, che io sappia, nessuno è giunto fino a noi. Credo che fosse in massima parte autodidatta; di sicuro ricordo un diploma incorniciato, appeso in corridoio, che credo gli fosse stato conferito dalla London University quando si laureò come studente esterno. Ho sempre pensato che fosse gallese, anche se nessuno me lo disse mai. Di certo, rivedo con chiarezza il suo volto e quello di mio padre ogni volta che mi trovo nel Galles. Mio padre nacque a Reading, ma non ho idea di cosa facesse là il nonno in quel periodo. So per certo che alcuni dei suoi fratelli e una sorella nacquero all’estero e che per alcuni anni Walter James fu l’istitutore dei figli del ragià di Sarawak.
Mio padre non parlava mai della sua infanzia, ma non credo sia stata facile. Pare che i soldi non bastassero mai. Di sicuro abbandonò gli studi appena possibile ed entrò nell’ufficio brevetti, all’età di sedici anni, credo. È un tipico esempio dello spreco di intelligenza tollerato nella prima metà di questo secolo. Allo scoppiare della guerra deve aver avuto un lavoro a Winchester, o nell’ufficio brevetti, cosa che sembra improbabile, o presso il locale ufficio delle imposte. Fu a Winchester che conobbe mia madre. Questo non mi sorprende, poiché lei amava moltissimo la musica ed era quindi naturale che assistesse alle funzioni in cattedrale. Si fidanzarono durante la guerra e si sposarono, credo, nel 1917, quando lui era un giovane ufficiale nel corpo dei mitraglieri. La mamma aveva venticinque anni, un’età in cui, a quei tempi, una ragazza cominciava a temere di restare zitella.
Credo che il periodo del fidanzamento sia stato per loro uno dei più felici. Qualche anno fa trovai una foto di mio padre insieme ai suoi uomini, un giovane esile, di bell’aspetto, i capelli pettinati con la riga nel mezzo come era di moda allora, i tre galloni di sergente sulla manica. Sul retro c’è scritto: “Alla mia adorata ragazza, la prossima volta te ne mando una migliore”. Un tempo doveva esserci amore tra loro, o quello che loro credevano fosse amore, ma erano male assortiti. Mia madre era una donna romantica, espansiva, vivace, impulsiva, ma poco intelligente e, pur avendo una possente voce da contralto e amando la musica sacra che tanta parte aveva avuto nella sua infanzia, non la comprendeva né la apprezzava quanto mio padre. Lui era intelligente, riservato, sarcastico, allergico ai sentimentalismi, pignolo e incapace di esternare affetto. Non credo abbia mai ricevuto molte dimostrazioni di tenerezza nella sua infanzia, e ciò che un bambino non riceve raramente potrà darlo in seguito. Penso che i primi anni insieme siano stati felici, ancora di più col mio arrivo, la prima figlia tanto attesa. Diciotto mesi più tardi nacque mia sorella Monica e, diciotto mesi dopo la sua nascita, arrivò il maschio tanto desiderato. Venne battezzato Edward, come Edward Hone.
I bambini vivono in un territorio occupato. I coraggiosi e i temerari si ribellano apertamente all’autorità, sia essa severa o benevola. Ma la maggior parte procede cautamente, adattandosi in apparenza a consuetudini e imposizioni a loro estranee e vivendo in segreto la loro esistenza inquieta e sovversiva.
Credo che tutti e tre ci rendemmo conto molto presto di essere frutto di un matrimonio infelice. L’unione durò, ovviamente: a quei tempi le unioni, per quanto infelici, duravano. Il divorzio era ancora considerato non solo un disonore, ma un fallimento sociale, e per mia madre, profondamente religiosa, sarebbe stato un grave peccato. Ma c’erano anche considerazioni di ordine materiale. Per mio padre non sarebbe stato possibile mantenere due case e mia madre – che non possedeva alcuna qualifica, a parte l’esperienza come infermiera, ovviamente volontaria, acquisita durante la Prima guerra mondiale – non aveva assolutamente alcun mezzo per guadagnare il necessario per sé e tre figli. Questi fattori limitanti valevano per tutti tranne che per i ricchi e per chi era così forte da sfidare le convenzioni.
In tutti i miei anni di scuola, dalle elementari alle superiori, non ho mai avuto una compagna i cui genitori fossero separati o divorziati. Senza dubbio questo nascondeva molti matrimoni profondamente infelici e altri che per le mogli erano appena meglio di uno stato di schiavitù istituzionalizzata. Questa stoica sopportazione, però, dava i suoi frutti. Le coppie, sapendo di dover restare unite per tutta la vita, spesso si accontentavano di ciò che avevano. Chi riusciva a sopravvivere agli anni più turbolenti della giovinezza e della mezza età, in vecchiaia veniva ricompensato dalla compagnia rassicurante e confortante del coniuge. Certo, allora non si avevano grandi aspettative di felicità e non si considerava questa un diritto. Tutte le nostre illuminate riforme sociali, la rivoluzione sessuale avvenuta dopo la guerra, il divorzio facile, la fine del disonore legato all’illegittimità presentano anche lati negativi. Oggi abbiamo una generazione di giovani maggiormente affetti da turbe psichiche, più infelici, con atteggiamenti criminali e suicidi più diffusi che in ogni altro periodo storico precedente. La libertà sessuale degli adulti è stata conquistata a caro prezzo e non sono stati gli adulti a pagarlo.

Lunedì, 4 agosto

L’inizio di un nuovo anno, sia esso il primo giorno di un anno solare, o il giorno dopo un compleanno, suscita in me il desiderio di disfarmi di tutto ciò che va buttato, di mettere ordine tra i miei libri e tirare fuori le vecchie scatole di documenti dimenticati da tempo. Questa mattina ho scoperto un album di ritagli di giornale che cominciai a conservare dopo la pubblicazione del mio primo romanzo, Copritele il volto, uscito nell’autunno del 1962. È un registro contabile rilegato che, immagino, avrò comperato a prezzo scontato pensando forse che le righe rosse e blu potessero rivelarsi utili per sistemare con maggior precisione i fogli. Non sono certo l’unica che, sull’onda dell’entusiasmo per la pubblicazione del primo romanzo, decide di conservare le recensioni e gli articoli che la riguardano. Per me l’eccitazione durò solo fino all’uscita del secondo libro. Ma mi ha fatto piacere ritrovare questo primo album di ritagli, anche se arrivato fin qui più per caso che per scelta.
Alcune recensioni erano lusinghiere e molto incoraggianti. Tutti davano per scontato che P.D. James fosse un uomo. Solo Leo Harris in «Books and Bookmen» scrisse: “Questa è una bella opera prima, e non posso fare a meno di pensare che l’autore sia una donna”. E.D. O’Brien dichiarò su «The Illustrated London News»: “È sempre piacevole, anche se non sempre possibile, lodare un’opera prima. Copritele il volto di P.D. James giustifica un tale entusiastico encomio”. E concludeva: “Fino a questo momento, poiché è un mystery, non sono ancora riuscito a risolverlo. Spero che il signor James vorrà regalarci molti altri piaceri come questo”. Francis Iles su «The Guardian» scrisse: “Copritele il volto di P.D. James è una di quelle straordinarie opere prime che sembrano entrare di prepotenza nelle stanze riservate allo scrittore affermato pur mantenendo la freschezza di approccio dell’esordiente”. Il critico dell’«Oldham Evening Chronicle & Standard» scrisse che il libro era “il genere di romanzo che fa supporre che l’autore abbia intenzione di restare in circolazione a lungo, specialmente con l’introduzione del pittoresco personaggio dell’ispettore capo Adam Dalgliesh”. Ma si lamentava per il costo del libro, 18 scellini. Per gli standard del tempo un libro in brossura a meno di una sterlina non era eccezionalmente caro, ma di certo neppure a buon prezzo per quello che il critico definiva un po’ crudelmente “questo genere di letteratura”. Un autore famoso, scriveva, avrebbe anche potuto chiedere un prezzo così alto, ma non un debuttante.
C’è persino il ritaglio di un’intervista con tanto di foto realizzata da un reporter del «Surrey Comet» che venne a parlare con mia figlia più piccola, Jane. Allora vivevamo a Kingston, al 127 di Richmond Park Road. Io lavoravo come vicedirettore nel consiglio di amministrazione del North West Regional Hospital. Sia Jane sia sua sorella maggiore, Clare, erano a casa e mio marito Connor era con noi, caso raro, tra un ricovero e l’altro. Ovviamente non si trovava in casa al momento dell’intervista, ma in ogni caso, grazie alla discrezione di Jane, l’articolo fortunatamente non fa alcun cenno alla sua malattia né alla piccola donna coraggiosa che scrive per mantenere la famiglia. Jane disse che sua madre aveva sempre desiderato scrivere, che era felicissima di veder pubblicato il suo primo romanzo e che passava la maggior parte delle serate e dei fine settimana a lavorare ai suoi libri. È una descrizione appropriata di ciò che era la nostra vita a quel tempo. L’articolo termina così: “Con l’ispettore Dalgliesh ha creato un personaggio che meriterà una maggior atte...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. IL TEMPO DELL’ONESTÀ
  3. PROLOGO
  4. DIARIO 1997
  5. DIARIO 1998
  6. APPENDICE
  7. INSERTO FOTOGRAFICO
  8. Copyright