
- 224 pagine
- Italian
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eBook - ePub
L'incendio nell'oliveto
Informazioni su questo libro
In una rievocazione quasi fiabesca della terra sarda, il tema del fragile e febbrile amore degli adolescenti che svanisce al primo insorgere delle difficoltà della vita. Un argomento delicato magistralmente descritto.
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Informazioni
Print ISBN
9788804469568eBook ISBN
9788852056024V
Si era verso Pasqua e la domanda di Stefano non arrivava ancora. Neppure zio Predu, dopo una breve visita cerimoniosa di ringraziamento per le gentilezze ricevute, non s’era più fatto vedere, forse per non destare una vana emozione con la sua presenza; ma ogni volta che incontrava Agostino gli diceva:
«Oh, preparami un bicchiere di vino buono perché devo venire a visitare nonna tua.»
E tutti aspettavano questa visita; ma il tempo passava, e c’erano dei giorni nei quali un’aria di tristezza gravava sull’intera famiglia, come se non si dovesse sperare più in nulla; giorni grigi, quando Nina, taciturna e di cattivo umore, sembrava d’un tratto invecchiata e trascurava le faccende domestiche come una serva stanca, e la nonna pensava che Stefano esitasse a fare la domanda perché forse informato da qualche maligno della relazione di Annarosa col figlio del fabbro, e si faceva anche lei triste, più severa del solito; e Annarosa sentiva tutto il peso di questa tristezza, di questa diffidenza, e aspettava la domanda di matrimonio come il carcerato colpevole e confesso aspetta la sua condanna: almeno tutto sarà finito e ci si rassegnerà. Ma come anche in fondo al cuore del colpevole c’è la speranza del miracolo dell’assoluzione, così in fondo ella sperava in qualche cosa di straordinario che impedisse a Stefano di fare la domanda.
Nulla però accadeva; i giorni passavano eguali; anche Gioele non dava segno di vita. Annarosa non cessava di pensare a lui, e si sentiva sempre fitte nel cuore le parole dell’ultima lettera; a volte si sorprendeva ad aspettarlo dietro i vetri, o correva ad aprire la porta, se qualcuno picchiava, con la speranza e la paura che fosse lui; ma anche con la paura e la speranza che fosse zio Predu.
Un giorno che il fabbro venne per accomodare un ferro del portone, ella gli si avvicinò, con la speranza angosciosa ch’egli parlasse di Gioele. L’uomo però lavorava in silenzio, senza badare a lei: era scarmigliato, nero e sporco come un vero zingaro, con la camicia aperta sul petto villoso. Mentre batteva il ferro e apriva e chiudeva il portone guardandolo attentamente da una parte e dall’altra, alcuni ragazzi della strada si offersero a tenergli la borsa di pelle con gli strumenti; egli lasciava fare, senza inquietarsi, con un chiodo in bocca.
«Questo è dunque quel diavolo chiamato grimaldello» disse un ragazzo traendo dalla borsa un ferro sottile con la punta a uncino. «Amici vecchi siete, con questo, zio Michele, oh! Raccontateci di quando andavate ad aprire per ridere le porte delle chiese, e la gente diceva che erano gli spiriti, oh!»
Egli sorrise, stringendo il chiodo fra i denti; ma un altro ragazzo osservò:
«Per ridere! Per ridere! Forse era sul serio che le apriva!»
Allora egli sputò il chiodo; e Annarosa fuggì per non sentirlo a giustificarsi e a raccontare le sue avventure.
Finito il lavoro, il fabbro entrò per ricevere la mercede: la nonna lo invitò a sedere, perché faceva così con tutti, anche per curiosità di sentire le notizie del vicinato, e gli scalò qualche cosa sul prezzo del lavoro eseguito.
Egli protestava, contando le monete con le sue dita nere.
«Lei sta bene, qui seduta nella sua scranna come una regina, ma lo so io quanto costa adesso il ferro, con la guerra!»
«Sei diventato avaro, Michele Sanna! Vuoi arricchire?»
«E le imposte che pago? E quell’altra imposta di mio figlio? Io, almeno, non avrò fatto molto onore ai miei genitori, ma spese non ne davo. Vossignoria mi darà un altro franco.»
«Come sta il tuo ragazzo?» domandò la nonna. «Ti darà spese, sì, ma ti farà onore.»
«Chi ne sa niente?» egli disse contrariato; «l’onore servirà per lui, le spese le ho io, e so io come tutto costa, adesso, con la guerra. Dunque quest’altro franco non me lo dà? Lo metteremo in conto per un’altra volta. Sì» disse poi, buttandosi le monete dentro l’apertura della camicia, «Gioele verrà per Pasqua.»
Annarosa, in piedi presso la tavola, ebbe l’impressione ch’egli si volgesse a guardarla: arrossì e fuggì via anche di lì, spinta da un senso di gioia e di umiliazione.
«È inutile che torni; è inutile» diceva ad alta voce, correndo giù per l’orto come per fuggire Gioele; poi rientrò per dire alla nonna che versasse dunque al fabbro il prezzo che egli pretendeva; ma il fabbro era già andato via.
La sera del giovedì santo venne finalmente, inaspettato, zio Predu Mura. Camminava forte sul suo bastone, e andò dritto verso la nonna, alla quale Mikedda con fretta silenziosa accomodava i piedi sulla pietra del focolare.
«E dove sono gli uomini?» domandò guardandosi attorno. Poi sedette e sputò sul fuoco senza tanti complimenti, come faceva a casa sua, cosa che nelle visite precedenti non s’era mai permesso.
Infine disse:
«Ebbene, ce la date questa signorina?»
Annarosa stava seduta sotto la finestra e guardava il gattino che le scherzava intorno. Aveva un’aria distratta, ma il cuore le batteva forte. Le parole di zio Predu le parvero la sua sentenza di condanna.
Eppure pensò che bastava una parola sola per liberarsi; ed ebbe desiderio di dirla, questa parola. Sentì un gran caldo alla testa e come un’onda di nebbia avvolgerla. Poi rivide tutto chiaro nella stanza illuminata dalla lampada; la tavola lucida con un riflesso d’oro, la figura tozza di zio Predu, seduto sulla sua ombra, sullo sfondo rosso del camino, la matrigna pallida e composta come una statua: sentì l’odore di selvatico che il vecchio, sebbene pulito e vestito con un costume nuovissimo da vedovo, spandeva intorno: e pensò quello che sarebbe accaduto se rispondeva di no.
Zio Predu forse, sebbene offeso, fingerebbe di prender la cosa in ridere. La nonna crollerebbe come un muro vecchio all’urto del piccone.
«Annarosa, vieni qui.»
Era la voce della nonna che la richiamava completamente dal suo cattivo sogno. Si alzò e si avanzò rigida, obbediente, mentre zio Predu volgeva il viso a guardarla: un viso grande, barbuto, con gli occhi nerissimi cerchiati e la grossa bocca carnosa, con un’espressione di maschera satirica che pure incuteva rispetto e quasi timore.
Nell’andare incontro a quello sguardo vivo che la esaminava da capo a piedi e pareva la spogliasse, Annarosa ebbe l’impressione che zio Predu, pure assumendo un tono serio, si burlasse un po’ di lei.
Infatti le domandò:
«Ebbene, sei disposta ad alzarti presto, la mattina?»
«Quando non ho sonno, sì!» ella rispose fissandolo negli occhi: ma subito lo vide aggrottare le sopracciglia e le sembrò di sentire la nonna palpitare di spavento. No, non erano momenti da scherzare, quelli! Abbassò gli occhi e le parve di avvolgersi in un velo, come la monaca che va a fare i voti.
«Annarosa s’è sempre alzata presto, la mattina» assicurò la vecchia. «Ragazza solerte è.»
Ma adesso fu zio Predu a scoraggiarla.
«Bada, Annarosa, che da fare ce n’è, in casa mia. Moglie mia, Paschedda, non riposava un momento, eppure diceva che alla notte, appena fatto il primo sonno, si svegliava pensando di aver dimenticato qualche cosa. Era una donna robusta, abituata all’antica. Tu sei sottile come uno stelo. Non metterti in mente di entrare in casa di signori. La roba, c’è, grazie al Signore, ma badarci bisogna, altrimenti non si campa. Stefene ama la vita semplice, oh, bada! La vita che abbiamo sempre fatto, da famiglia di gente all’antica. Non dico che tu debba fare il pane d’orzo e andare a cogliere le olive, ma, infine, alzarsi presto la mattina bisogna.»
Ella rispose, quasi sottovoce, con una umiltà che nascondeva a stento un fondo di amarezza:
«E la vita nostra com’è? Tutti lavoriamo. Non c’è altro da fare.»
Il viso del vecchio si illuminò, per un momento, mentr’egli diceva:
«Oh, bada, Stefene è un buon ragazzo: ti accorgerai chi è lui, quando lo conoscerai.»
Poi subito riprese la sua aria di lieve derisione.
«Perché stai così, a occhi bassi? Prendi dunque una sedia e mettiti qui a sedere.»
La nonna disse con voce turbata:
«Annarosa, pensa di dar da bere a questo vecchio.»
«Oh, vecchio! Vecchio! Protesto! È più vecchio il diavolo, di me!»
Annarosa andò a prendere il vino, dall’armadio di cucina; lo versò piano, guardando il bicchiere, pensò che le sarebbe toccato di vivere chi sa quanti anni con quell’odore di selvatico attorno, e ne provò un senso d’angoscia. Poi mise il vassoio sopra la cappa del camino e sedette fra la nonna e zio Predu. Ecco, era già prigioniera: zio Predu teneva il bicchiere fermo sopra il pomo del bastone e d’un tratto s’era messo a parlare con la nonna, ricordando un loro incontro, in una festa campestre, e un fatto strano quivi accaduto.
«Ti rammenti, Agostina Marini? C’era un cavallo malato di bolsaggine, condotto da uno straniero; di un tratto un uomo si avvicina e dice: “Questo cavallo è mio, mi è stato rubato dalla tanca”. Lo straniero gridava e protestava: fece vedere il bollettino come aveva comprato il cavallo, ma l’uomo diceva: “Io il tuo bollettino lo metto ad accender la pipa; il cavallo è mio”. E prese la testa della bestia fra le mani, lo guardò negli occhi, disse: “Mi riconosci?”. Il cavallo nitrì; tutti noi si sentì un brivido. Ma lo straniero non si voleva arrendere. Ebbene, disse l’altro, facciamo una prova: “Io monto il cavallo e lo faccio correre nonostante la sua bolsaggine”. Lo straniero acconsentì. L’altro montò il cavallo e il cavallo si mise subito a correre. In un attimo sparvero cavallo e cavaliere: il bello è che non tornarono indietro e lo straniero, imbambolato, continuò, se gli piacque, il viaggio a piedi. Ti ricordi, Agostina Marini?»
«Ricordo bene, Predu Mura!»
Zio Predu bevette e fece atto di sollevarsi per rimettere il bicchiere che Annarosa fu pronta a togliergli di mano. Egli parve gradire quest’attenzione; tornò a guardarla e rivolse il discorso a lei.
«Eppure il cavallo, comprendi, ragazza, apparteneva proprio allo straniero. Questo si è saputo dopo. Tu dirai: “Che uomo svelto, il ladro!”. E io ti rispondo: “Tutti i ladri sono svelti”. Che cosa t’immagini, ragazza? Sono uomini di talento i ladri: e faticano, per il loro scopo. Ebbene, e poi c’è un’altra cosa: che scontano sempre: dacché mondo è mondo il male si è sempre scontato, o in un modo o nell’altro. In quella festa, dunque, molti deridevano lo straniero e quasi quasi invidiavano il ladro. Ebbene, ti dico, ragazza, io amo piuttosto essere derubato e malmenato, che rubare e malfare io. Anche per la coscienza, oh, intendiamoci, non per il solo timore del castigo. Poi ti dico un’altra cosa; che il ben fare vien sempre compensato. È un pregiudizio il credere che i malfattori e gli uomini di cattiva coscienza siano fortunati e i buoni no. Non è vero! Lo affermo! Avrei mille esempi da contare.»
E infatti raccontò parecchi di questi esempi. La vecchia ascoltava con attenzione, approvando col capo; Annarosa aveva l’impressione ch’egli parlasse così per incoraggiarla nel suo sacrificio, e si annoiava; ma sentiva anche una vaga speranza che le promettesse davvero una misteriosa ricompensa.
Empì nuovamente il bicchiere e zio Predu lo accettò senza farsi pregare; questa volta però lo tenne in mano anche dopo vuotato, e si rivolse a Nina. Gli occhi gli brillarono.
«Dunque, ce la date questa signorina?»
La donna ch’era stata sempre silenziosa e ferma al suo posto, sorrise, un sorriso scintillante, ma non rispose.
Non toccava a lei rispondere.
E Annarosa tentò di prender la cosa allegramente.
«Prendetemi pure» disse, poi impallidì e non parlò più.
La nonna allora tese la mano sana: zio Predu gliel’afferrò, la scosse un poco entro la sua, gliela rimise in grembo: ella sentì tante promesse in quel gesto, la sicurezza del patto stretto; e lagrime di gioia le riempirono ...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- Introduzione
- L’INCENDIO NELL’OLIVETO
- I
- II
- III
- IV
- V
- VI
- VII
- VIII
- IX
- X
- XI
- XII
- XIII
- XIV
- Copyright