La festa parmigiana
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La festa parmigiana

  1. 280 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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La festa parmigiana

Informazioni su questo libro

Un mosaico di storie e di emozioni da cui emerge la più misteriosa, ammiccante, passionale delle donne: la Parma di Bevilacqua. "Città femmina", come la definisce lo scrittore, essa lega con la medesima grazia rievocativa Maria Luigia, scandali di corte e cronache di alcove, follie di ieri e di oggi. Il lettore viene coinvolto in una "festa parmigiana" che non cessa di sorprendere dall'inizio alla fine.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2014
Print ISBN
9788804361190
eBook ISBN
9788852056543

IV

Maria Amalia

1
Per la Duchessa Maria Amalia, chiamata Madama Reale, il potere era un complesso e raffinato ordito di corruzione. Esso si nutriva di reticenze e di parole d’ordine; di comandi freddamente impartiti e di ambigue preghiere; di artifici della mente e di colpi di vita.
Da ragazzo, mi recavo spesso alla Galleria Nazionale, per indagare il ritratto della Duchessa, eseguito da Johann Zoffany; trovavo giusto che il suo volto, stretto ed esangue, non fosse bello. La descrizione più confacente sta in una nota della Quintavalle, che così ne fissa i tratti: “Lungo naso, con gli occhi di pallido miosotis, la bocca serrata in un gesto di decisa volontà e i grossi pendenti di diamanti alle orecchie, quasi coperte dalle soffici bande della parrucca bianca, su cui troneggia un gran cappello verde con trina nera e nastri rosa a righe, che sembra un monumento, in contrasto al tono chiaro della veste, col colletto di velo trasparente, ed alle mani affusolate che reggono con indifferenza il ventaglio”.
Capivo che l’asimmetria dell’apparenza corrispondeva a quella intima, e gli occhi gelidi si intonavano al carattere, definito terribile e volitivo, quanto nascosto, spesso, “sotto una subdola apparenza di sottomessa remissività”. Ne avevo conferma, ripeto, da ciò che leggevo: cercando nei rapporti ufficiali, in cronache e libelli.
“L’altro giorno” annotava lo Sgavetti “Maria Amalia si divertì pel Po, tutto un tempo vide schierati alla riva dilà i regimenti facendo esercizio e sbaro ed aprosimandosi fece ricerca del Comandante chiedendogli in grazia del condannato a morte sugeriteli dal Sig. Co. Miguori. Il Comandante ci pensava ma essa ci disse che a donna gravida non si negano grazie regalando i soldati e invitando a pranzo vari ufficiali oltre il capo; partì acompagnata da stromenti e sbari (3 agosto 1770).”
Ma lo Sgavetti tace sul seguito, d’eccezione, che il pranzo ebbe; pensando opportunamente a descriverlo un ignoto cronista di Pieve, che ne annotò i fatti nella lingua di Cicognara, piena di ariose ironie.

2

Maria Amalia, ben conoscendo le bizzarre macchine della tortura che a Po si praticava – dando miserabile trionfo a soldati senza guerra, i cui sbari erano piuttosto rivolti a inermi frodatori, accusati di sedizioni impossibili – comandò che, per suo decoro e soddisfazione, le fosse mostrato il condannato.
Benché la informassero che al giovane, di nome Tanzi, si ascrivevano colpe di varia natura, dai saccheggi incendi e incursioni a capo di selvaggi attentatori, a epidemie e terremoti, quasi incarnasse un lucifero di barena, e non già un barcaro semplicemente intemperante, Maria Amalia restò ferma nella sua pretesa. Perciò il Comandante, a sua volta, ordinò che la carrucola girasse e alle corde si mettessero tre soldati robusti, dato che sollevare il Tanzi, immerso fino alla bocca nella lanca di Roncadello, equivaleva al traino di un gigante.
Da più giorni egli veniva tenuto a mollo, la gola e le spalle avvolte da cinghie chiodate, di quelle che stringono il collo dei mastini, e queste appese a un gancio, e il gancio a un salice. I suoi piedi s’erano rappresi nella fanghiglia e nella vegetazione acquatica: staccarli sfiancò i soldati.
Il corpo emerse, lentamente raggiungendo i più alti rami del salice. Sul volto, nient’altro che un vago sorriso faceva capire che si trattava di un uomo, dalle proporzioni di un fusto di cannone; ché altrimenti, dato lo scafandro di mota che l’imprigionava, lo si sarebbe scambiato per uno storione o un balenotto insabbiatosi per capriccio di Dio dalle parti di Cicognara.
Girò il gran pupazzo su se stesso, spenzolando sulle mense. Subito presa dalle fattezze e dalla nudità del condannato, nonché dalla crudele umiliazione a cui avevano assoggettato la sua forza non comune, la Duchessa batté le mani in un applauso che tutti, con diversa intensità, furono indotti a raccogliere.
Ordinò di ripulirlo con cura. E che prendessero a lavarlo da sotto la cinta: laddove il membro, annota il cronista, “più che ozélo e manego, similmente parve colérica e rodomontante crescenza, pongone imperializio, cojonante torrione, serpastro a ghigno e sonagli: soldatesche palle mai avute da’ soldati”; e descrivendolo uscire dai liquami, il testimone di Pieve riferisce che il torcerone finalmente si sciolse dalla spirale a lumaca, riprendendo il corso verticale.
Una voce di terremoto sembrò chiamare, non già alla distruzione generale temuta dal Comandante, ma alla procreazione d’uomini pesci ed uccelli.
Passato con bende imbevute d’aceto, il corpo si modellò; e si trattò come di un dipinto che riprendesse luce di genio, tolte le deformità di qualche crostarolo ignorante. Riacquistò guizzo l’occhio azzurro, gioja armonica la vasta fronte; riebbero vigore le scultoree gambe e braccia, eleganza le dita, splendore i denti, sfida le spalle.
Appeso infine trionfalmente al salice, restò il San Sebastiano d’Antonello, e «il Po tutto ammirandolo» riconobbe che nessun arabo o normanno, siculo o greco, aveva mai visto dondolare sotto il sole della sua terra un siffatto “amplesso de le seculari beltà, l’una con l’altra in avviluppo d’amore”. Il Cronista racconta che Madama Reale citò al Comandante anche il Leonardo della Zuffa tra drago e leone, capolavoro che il militare ignorava, paragonando il Tanzi ad entrambe le bestie e affermando che la sua testa all’indietro sulla cinghia aveva la suggestione del Battista “sangonante in sul piatt d’or”.
«Lei crede» chiese Maria Amalia «che si possa dar morte a tanta perfezione?»
Il Comandante s’inchinò: «Mi consenta di crederlo».
«La ragione?»
«È appunto punendo la perfezione, che l’imperfetto si corregge.»
«Lei dovrebbe limitarsi a castigare l’imperfetto.»
«Dobbiamo immaginare, invece, che i nemici dello Stato sanno celarsi sotto la bellezza della forma, conoscendola e praticandola.»
Maria Amalia gli lanciò un ironico sguardo.
«Immagini ciò che vuole. Ma se il suo giudizio corrispondesse al vero, si dovrebbe convenire che lei, per come Dio testardamente l’ha fatto, mai potrebbe essere nemico dello Stato.»
«Mai lo sarò, infatti» il Comandante simulò un sorriso. «E praticando le correzioni della giustizia...»
«La giustizia, amico mio, non serve a correggere, ma a essere corretta. Non altro piacere resta a chi comanda e dispone. Tenga presente, comunque, che se il nemico è tanto intelligente, o favorito di natura, da possedere o praticare ciò che lei chiama la bellezza della forma, che in realtà è ben altro, accetto il rischio, e non più nemico lo reputo, ma tutt’al più rischioso amico... E un amico, mi creda, val bene un delitto.»

3

E ancora lo Sgavetti:
”... Con ciò si conosce che è una Sig.ra di gran foco (10 settembre 1771). La novità di questa serena giornata è che Madama Reale avendo dormito in città voleva alle 6 i cavali di posta per andare al Cornocchio ed essendovi andati alle 6 e mezza era tanto in colera che giunti ivi à fato bastonare i due postiglioni e regalato il sergente che li à dati cosa che à sorpreso chi che sia mentre i medesimi hanno detto non aver tardato un momento all’arrivo”.
Perché il regalo al sergente e le bastonate ai postiglioni?
La ragione del privilegio viene omessa dallo Sgavetti; ma ne dà conto il Ciarlatano che, nel suo Lunario, fa passare il sergente quale complice delle notti brave della Duchessa, descrivendo l’albeggiare che lo vedeva comparire dalla porta segreta del Palazzo, a capo di ben altro drappello, composto di quattro prestanti soldati come lui cascanti dal sonno sulle cavalcature e che “parevano sulle spalle recar le ruine dell’amorevole veglia con Madama Reale, col beretto traverso e l’ornato della giubba, cordoni e ori, non men disfatto dei visi”.
Persa la forza della staffa, “impellizzati” dalle troppe carezze ricevute, essi attraversavano i borghi con l’animo sospeso, scrutando le porte da cui qualche mano usciva a pugno, accompagnando il “Traditori!”. In quei borghi infatti, dov’erano nati e cresciuti, subivano la prima condanna morale: “Li tiene il popolo in conto veruno, e in spregio anzi, stromenti di tristo esercizio, sì da chiamarli i Crescinmano della Duchessa, appellandosi Crescinmano l’onor dell’uomo, qui condotto a disonore”. Quando raggiungevano la caserma, la sentinella rovesciava il fucile, guardandoli sfilare con finta superbia e raggiungere una camerata detta il Regno dei Morti, poiché ospitava i loro corpi che stramazzavano sulle brande.
Anche i compagni li evitavano. Pur godendo di pasti speciali, di alti compensi, ed essendo esentati dalle esercitazioni, l’ostracismo si faceva ogni giorno più insopportabile. E il Ciarlatano spiega: “Per la malizia di molti soldati eretici, essendo imbratata di eretici e sismatici la caserma, finché il più audace di costoro, tale Maiavacca, decise d’assaltare il Regno dei Morti”. Fu dato fuoco ai pagliericci e i bellissimi giovani del drappello, rientrati da poco dal Palazzo Ducale, furono denudati e condotti “a ignominia e iniuria”: preda dei piacentini, dei bresciani e dei bergamaschi.
Maiavacca sfregiò il sergente. Mentre al più superbo inflissero “la palizia tortura che ai più non va di genio corporale” – ironizza il Ciarlatano – “piacendo è noto al vescovo Grazia di Fiorenza, che fu dissipatore dei beni vescovili, e trovava leccornie sue nei fanciulli, veggendo il demonio nelle femmine tutte”. S’abbatté quindi “nel culiseo del soldato, un arbore ch’era pietra focaia, e tanto l’infissero che cadea a terra, e unghie di ferro fecero il resto”. Sfondate le porte del Regno dei Morti, gli eretici introdussero ad assistere allo scempio donne e ragazze, e ci furono “femmine, fontane di peccato, genitrici di scellerataggini, corrompimento della legge antica” che inscenarono una recita; questa rappresentava oppressori ed oppressi ai quali bastava restare scoverti, senza brache o alcun velame” per illudersi di salire al rango dei signori.
Maiavacca fu appeso a una quercia, entro un campicello, dopo un processo sommario; eseguita la sentenza, Madama Reale volle verificare di persona e si fece condurre segretamente sul posto, dove notò per prima cosa che i passeri svolazzavano tranquilli intorno all’ucciso. Ricordando l’episodio del Po, si rese conto che a questo mondo c’è impiccato e impiccato, dato che il Tanzi, dondolando nell’aria, aveva mantenuto la sua intangibile bellezza, mentre questo Maiavacca «era traverso in tale bruttezza che parte non si salvava»: all’anulare della sinistra, l’anello con gemma rubato al sergente, e che questi aveva ricevuto in dono dopo una notte di corporali trionfi.

4

«Qualche dubbio della mente...»
Il Vescovo si disponeva con rassegnazione. Gli sarebbe bastato pronunciare quelle semplici parole. Era pronto, prontissimo ad assolvere.
Maria Amalia insisteva, intenzionata a convincerlo che il sogno che in quei tempi l’ossessionava – il sogno del potere – era decisamente turpe.
«Chi può dirci» obiettava il Vescovo «cos’è mai il potere? In quale misura esso si impadronisce anche di noi, che lo amministriamo, che ne facciamo dottrina? E poi – mi chiedo – Dio davvero condanna questo, chiamiamolo, riflesso della sua grandezza, e disponibilità a disporre dell’altrui?»
«Non è semplicemente un serraglio della mente, affollato delle mie tigri e serpenti. È l’odio che nutro per ciò che è creato. È assenza d’amore.»
«E odiamolo pure, questo creato. Se per tale intendiamo, Maestà, ciò che l’uomo ha disfatto di quanto Dio dispose. È detestabile infatti, e se io vesto questa tonaca, lei regge quella corona, è per reprimere, impedire lo scempio ulteriore. Così, secondo Cristo, noi ci leviamo qualche trave dall’occhio, avendo di conseguenza la vista necessaria a togliere la pagliuzza dall’occhio del fratello.»
Una complicità di parole si formava tra i due, nel tentativo di configurare il potere, da parte di Madama Reale, come un’entità condannabile; da parte del Vescovo, come una serie di ipotesi che non potevano sconfinare nella colpa. Più Maria Amalia definiva i contorni, più l’altro li sfumava.
«Il mio sogno comincia con un volto di donna.»
«Identificabile? Una donna in realtà esistente?»
«No. Benché luminosa mi appaia all’inizio. Con ogni bellezza a cui aspiro.»
«Sognare la bellezza non è peccato, Maestà.»
«Essa, rapida, si corrompe.»
«Come si manifesta, questa corruzione?»
«Con un bacio. La testa della donna si china e mi bacia.»
«Castamente?»
«Castamente.»
«La castità» sospirava il Vescovo «è addirittura un privilegio.»
«Aspetti. Al di sotto del vol...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontispiece
  3. La festa parmigiana
  4. I
  5. II
  6. III
  7. IV
  8. V
  9. VI
  10. VII
  11. VIII
  12. IX
  13. Copyright