La notte dei leoni
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La notte dei leoni

  1. 196 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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La notte dei leoni

Informazioni su questo libro

C'è un'Africa di tragedie e carestie, corruzione e guerra. E poi c'è il continente che ha evocato nei viaggiatori un'inesplicabile necessità di ritornare, il luogo che ha conservato ciò che la maggior parte del mondo ha perduto: spazio e radici. Tradizioni, una bellezza eccezionale, panorami selvaggi, animali rari, gente straordinaria. È questa l'Africa cha canta Kuki Gallmann ne La notte dei leoni: un luogo che le ha strappato il marito e il figlio, ma che non smette di amare. Anzi, sono proprio gli spiriti di Emanuele e Paolo che tornano nelle pagine, struggenti e suggestive, di questo diario, ad accompagnare l'autrice nelle sue avventure, a spronarla a impegnarsi con slancio rinnovato e fiducia nel futuro verso quello che è ormai diventato lo scopo della sua vita: la conservazione della natura e degli animali della sua Africa, un'immensa cattedrale dello spirito nel cui abbraccio torna a vivere dopo la tragedia.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2014
Print ISBN
9788804473596
eBook ISBN
9788852055003
Parte prima

STORIE DELLA RIFT VALLEY

1

L’estate dei gamberi

Per mio padre
Looking on the happy autumn fields,
and thinking of the days that are no more
.1
ALFRED TENNYSON, The Princess
Sulla sponda opposta due cammelli brucavano lenti con labbra prensili, mordicchiando delicatamente le foglie cerate del rhus. Si spostarono flemmatici e languidi, e in pochi attimi scomparvero del tutto. Formiche contadine, indaffarate a trasportare semi d’erba, zigzagavano in una processione frettolosa, sparendo dentro le loro tane.
Accovacciata per terra, il sole dell’Equatore caldo sul dorso della mia camicia kaki e sulle mie gambe nude, stavo pescando. La superficie bruna dell’acqua s’increspò e una larga chela fangosa emerse e afferrò il pezzo di carne imputridita legato alla stringa di corda che reggevo in mano.
«L’ho preso!» gridai esultante, e con uno strappo lanciai la creatura fuori dell’acqua.
Ed ecco là, sulla riva della diga di Ol Maisor, un minuscolo mostro del mondo delle profondità fangose, bruno e viscido d’alghe, le antenne frementi che saggiavano il nuovo ambiente, le zampe arrancanti nell’aria che già cercavano di strisciare via all’indietro verso il lago, questo strano, grosso crostaceo d’acqua dolce.
Sull’altra sponda un piccolo branco di zebre emerse dai cespugli di lelechwa. Stettero immobili un attimo, si guardarono intorno, e trottarono a testa bassa a bere, mentre il loro maschio faceva la guardia, sferzando l’aria con la coda per scacciare invisibili mosche. Non un alito di vento interrompeva le onde tremolanti di calura che si alzavano dal suolo riarso, e dalle cime spinose degli alberi veniva il canto gioioso e sonoro degli uccelli africani a mezzogiorno.
Un mulinello di vento turbinò come un folletto e presto svanì.
«Il più grosso gambero che abbia visto da molto tempo» commentò Paolo. «Straordinario come crescono in questo clima. Credevo che si potessero sviluppare solo al freddo.»
Ne raccogliemmo un secchio intero in meno di due ore e tornammo a Ol Ari Nyiro alla sera, inseguendo un branco di oryx che correvano a grandi balzi lungo la pianura sconfinata, sullo sfondo di un tramonto infuocato, cantando una canzone italiana, e l’erba della savana era alta e venata di mistero nella luce del crepuscolo.
L’indomani guidai fino alla diga di Ngobitu e cerimoniosamente liberai tutti i gamberi.
«Un giorno vi catturerò ancora» gli feci sapere. «Voi e tutta la progenie che riuscirete a produrre negli anni a venire.»
Sparirono nell’acqua color ruggine, lasciando solo qualche bollicina sulla superficie torbida.
Erano i primi tempi a Laikipia. Erano giorni di esplorazione, di avventura, di amore e di meraviglia, quando scoprivamo la nuova terra che avevamo scelto, e noi stessi. Erano giorni di giovinezza e di allegria, quando il domani era ancora dorato, quando la felicità erano gli uccelli del mattino e le nuvole della sera, lucertole turchesi su pietre calde, uccelli tessitori che intrecciavano i loro nidi sulle acacie della febbre gialla, scarabei stercorari che facevano rotolare grosse palle faticosamente in mezzo ai sentieri, profumi intensi di gelsomino selvatico e fiore della luna, e le donne pokot, a seno nudo e con lunghe gonne di pelle, che camminavano sinuose e fiere lungo i confini di Ol Ari Nyiro, a testa alta, badando le loro vacche. Quando mi meravigliavo, guardando i bufali che si rotolavano nei bagni di melma, gli elefanti che si muovevano silenziosi come ombre nelle radure, a pochi metri di distanza, senza curarsi di noi. Quando stavo in piedi la notte in fondo al mio giardino, quasi esattamente nel punto dove ora sono le tombe, il lungo scialle a proteggermi dal gelo improvviso della brezza dell’Est, le orecchie all’erta a percepire il richiamo delle iene e il canto di caccia ritmico e rauco del leone o del leopardo oltre le colline notturne. Quando la mia famiglia era ancora unita e i miei uomini con me.
Nei mesi e anni che vennero, tanti fatti si susseguirono e dimenticai i gamberi.
Era l’estate del 1981: Paolo era da un anno nella sua tomba, e l’albero che avevo piantato su di lui metteva i primi germogli e il bambino di cui era padre, ma che non aveva mai visto, cominciava a parlare. Fu allora che mi ricordai di colpo dei gamberi e dissi a Emanuele: «Proviamo a vedere se ci sono gamberi nello stagno di Ngobitu? Se non sono tutti morti dovrebbero essercene parecchi. Quando li abbiamo messi lì? Cinque, sei anni fa?».
Non riuscimmo a ricordarcene. Ma Emanuele, un ragazzo dalle gambe lunghe e dagli occhi seri e canzonatori, saltò sulla sua nuova motocicletta, portando come esca carne appena scongelata, e sparì in un polverone gridando:
«Se ci sono li troverò. Prepara la maionese e il dill, Pep!»
Tuttavia non credevo veramente che ne avremmo trovati. Nessun guscio essiccato e schiarito dal sole era stato mai scoperto lungo le rive, avanzo del pasto di un airone o di una cicogna, a denunciarne la presenza. Né, quando uscivamo a pescare tilapie o black bass,2 avevamo mai intravisto le strane ombre in agguato sul fondo.
Così fui immensamente sorpresa quando Emanuele apparve, trionfante, tenendo in mano il più grosso e robusto gambero d’acqua dolce che avessi mai visto.
«Ce ne sono miliardi laggiù» annunciò. «Dobbiamo metterli nel menu.»
E così feci.
Il mio cuoco Simon Itot protestò debolmente, con orgoglio turkana, contro l’invasione di quei bizzarri crostacei nella sua cucina, ma si arrese infine quando gli strani piccoli di aragosta, adesso piacevolmente rosso vivo e coronati di sedano e spicchi di limone nei piatti da portata d’argento, gli valsero nuovi complimenti per la sua già rinomata cucina.
Fu così che divenne un’abitudine, nei lunghi pomeriggi al ranch, andare a pescare i gamberi, e nessun risotto agli scampi veneziano fu mai più gustoso e prelibato di quello ai gamberi di Laikipia, che perfezionammo con molto pepe fresco e prezzemolo e un goccio di cognac come tocco finale.
Ma non era questione solo di soddisfare il palato. Il loro sapore e aspetto facevano scattare in me un ricordo istantaneo, una memoria gioiosa di altri giorni felici. E anche ora, quando vedo i gamberi sulla mia tavola, provo un’immediata nostalgia e torno indietro nel tempo e nello spazio ai giorni in cui ero una bambinetta con le treccine e gli occhi vispi, eccitata e avida d’avventura, e all’indimenticabile estate dei gamberi.
La prima estate che ricordo con mio padre.
Vivevamo ancora dove eravamo stati sfollati durante l’ultima guerra, in campagna, nel Veneto, in un paese che si chiama Crespano del Grappa, ai piedi di pendii coperti di pini, castagni e cornioli, dove mio nonno possedeva una filanda di seta. Lì il mio giovane padre, appena tornato dalla Seconda guerra mondiale – dove ottenne qualche medaglia, perse la maggior parte dei suoi amici e dei suoi sogni, ma non il suo desiderio di esplorare e di scoprire – faceva il medico all’ospedale locale.
Ero una bambina curiosa, piena di domande, e il periodo della mia prima infanzia, trascorso in campagna, con tutto lo spazio e la libertà di un grande giardino affascinante, con un bosco, un frutteto, una vigna e una stalla, era destinato a lasciare la sua impronta sul resto della mia vita. Per sempre, in seguito, avrei agognato di vivere all’aperto, e amato il mondo della fantasia, della campagna, delle cose vive, delle foglie e dei boccioli, dei nidi nascosti, dei germogli, dei semi, dell’odore d’erba e delle creature timide e selvatiche.
Non sono stata mai veramente una ragazza di città, appagata dal frastuono e dalle luci delle metropoli moderne. Sui marciapiedi affollati, pieni di estranei frettolosi e indifferenti, negli ascensori che salgono velocissimi ad altezze vertiginose, attraverso le arcate dei centri commerciali con grandiose scalinate e fontane di marmo, mi sento confusa e fuori posto.
Quando, negli anni a venire, il fato mi portò a viaggiare per le capitali del mondo, inseguendo il sogno e la crociata che il destino aveva tessuto per me, cercavo sempre una finestra dalla quale riuscissi a vedere il cielo; un luogo dove camminare scalza; piante che crescevano silenziose vicino alla paccottiglia fatta dall’uomo che mi soffocava. Quest’attitudine deriva senz’altro da quei primi tempi. Dentro di me, vivace e allegra, c’è sempre una bambina dagli occhi attenti che vuole correre verso l’inesplorato, che ama l’odore dell’erba tagliata e i fuochi di bivacco, l’acqua corrente e i ruscelli di montagna, la bassa marea, le margherite al sole e i ciclamini a ciocche, da scoprire nell’ombra fertile e umida di nascosti recessi.
L’estate dei gamberi.
Quando mia madre andava a farsi fare i vestiti dalla moglie di un contadino, che abitava fuori dal paese e si chiamava Ines, e che aveva il dono di mani fatate per cucire, spesso l’accompagnavo. Ines lavorava nella sua cucina. Era la stanza più grande e confortevole della sua casa, col soffitto alto, fresca d’estate per la brezza che soffiava, attraverso le imposte spalancate, dal pergolato di vite americana sul lato verso l’orto ombroso del retro, e accogliente d’inverno, quando la stufa a legna era sempre zeppa di pentole e tegami che sobbollivano diffondendo deliziosi aromi di salse e zuppe casalinghe.
Di conseguenza i nuovi vestiti invernali di mia madre, con sua grande irritazione, emanavano sempre un odore di minestrone. Se il tempo lo permetteva, questi abiti dovevano venire appesi all’aperto per giorni prima che potesse indossarli, e spruzzati con acqua di lavanda o con il suo profumo preferito, Fleur de Rocaille di Caron, un bouquet per me esotico, evocatore di feste, seducente e irresistibile.
Mi interessava questa strana, diversa abitazione, e ne osservavo i dettagli con immensa curiosità. Un angolo della tavola di legno era coperto da uno spesso panno grigio e da un telo bianco pulito: su questo Ines appoggiava le sagome di carta ricavate da vecchi giornali e tagliava i suoi modelli che poi, seduta su una sedia impagliata, cuciva con un’antica Singer nera a pedali.
Sul camino della cucina di Ines erano disposte foto di vecchi matrimoni, gli sposi tutti identici, con grandi baffi e giacche scure mal tagliate, strozzati da colletti alti e inamidati, cravatte a fiocco, orecchie a sventola; unica differenza tra loro la scriminatura centrale o laterale dei capelli impomatati di brillantina. Posavano rigidi, la mano su una colonna dorica di cartapesta o sullo schienale di una sedia barocca dove sedevano le spose. Anche queste erano identiche, con mascelle pesanti, occhi scuri, strizzate in corsetti che non riuscivano a nascondere la loro florida buona salute, e fissavano l’apparecchio stolidamente, con un’apatica diffidenza.
Vi erano ritratti ovali di nonne da lungo tempo scomparse, foto sbiadite di Pio X, il papa Sarto, vicino a vividi dipinti del Sacro Cuore di Gesù sanguinante e con una fiamma che scaturiva dal suo centro; un crocifisso con un ramoscello appassito d’olivo dell’ultima Domenica delle Palme; una bambola vestita di pizzo rosa, qualche cianfrusaglia di celluloide, vinta a una fiera di paese.
Per essere un’italiana di mezza età, Ines era magra, aveva la carnagione olivastra e pallida per mancanza di sole. Indossava un grembiule con la pettorina trapunta di spilli, e i suoi capelli in parte grigi erano arricciati da una permanente fatta in casa. Pollastri avventurosi qualche volta entravano dalla porta lasciata aperta, in una lama di sole con moscerini danzanti, e si avvicinavano g...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Nota dall’autore
  4. Introduzione
  5. Ringraziamenti
  6. Parte prima. STORIE DELLA RIFT VALLEY
  7. Parte seconda. SOLO POLVERE, A ARBA JAHAN
  8. Appendice. Osman, la fine
  9. Glossario
  10. Inserto fotografico
  11. Copyright