Effusione preliminare
«Soltanto chi lavora ha da mangiare», dice un vecchio proverbio ispirato al mondo esterno e visibile e, strana cosa, male adatto a quella sfera che è appunto la sua. Perché il mondo esterno è sottoposto alla legge dell’imperfezione. Vi si può vedere costantemente che anche l’ozioso vi trova nutrimento; e chi dorme, assai meglio di chi lavora. Ogni cosa del mondo visibile, asservita alla legge dell’indifferenza, è nelle mani di chi possiede. A chi possiede obbedisce lo spirito dell’anello, ora Nuredin ora Aladino. E chi detiene i tesori del mondo ne è signore, quale che sia il modo con cui li ha ottenuti. Non accade però la medesima cosa nel mondo dello spirito, dove regna un ordine eterno e divino. Là, non piove egualmente sul giusto e sull’iniquo. Là, non brilla indifferentemente il sole sui buoni e sui malvagi. Là, si può dire veramente che solo il lavoratore ha il pane, che soltanto l’angosciato trova il suo riposo, che soltanto chi scende agli inferi salva la sua amata, che soltanto chi leva il coltello riceve Isacco. Là, non c’è pane per chi non lavora; egli viene ingannato come venne ingannato Orfeo dagli dei che gli dettero un fantasma invece di Euridice e che lo delusero perché era un effeminato senza coraggio, un suonatore di cetra e non un uomo. Là non serve avere Abramo per padre o diciassette quarti di nobiltà. Chi rifiuta di lavorare si vede applicare la parola della Scrittura che concerne le vergini di Israele: partorirà vento. Ma chi vuol lavorare genererà il proprio padre.
Una temeraria dottrina pretende ora introdurre nel mondo dello spirito quella medesima legge dell’indifferenza sotto il cui peso geme il mondo esterno. Basta sapere, essa afferma, quel che è grande, senza bisogno d’altra fatica. E quindi essa non riceve pane e muore d’inanizione vedendo mutarsi in oro ogni cosa. E poi, che cosa sa, finalmente, quella dottrina? In Grecia, migliaia di contemporanei e poi innumerevoli moltitudini di posteri hanno conosciuto i trionfi di Milziade, ma uno solo ci fu, che ne perdette il sonno. Innumerevoli generazioni hanno saputo a memoria, e parola per parola, la storia di Abramo; ma a quanti essa ha provocato l’insonnia?
Quella storia ha la strana virtù d’esser sempre magnifica, per quanto poveramente la si voglia comprendere, a condizione tuttavia di voler lavorare e darsi da fare. Ma si pretende, invece, comprenderla senza fatica. Si parla in gloria di Abramo. Ma come? Si indica tutta la sua condotta con una espressione generica: «Fu grande per avere amato Iddio al punto di avergli sacrificato quanto aveva di meglio». Certo: ma quel «meglio» è assai vago. Pensando e parlando, si identificano tranquillamente Isacco e «il meglio», e intanto colui che medita può, a piacer suo, fumare la pipa mentre compie le sue riflessioni e colui che ascolta può comodamente sgranchirsi le gambe. Se il giovane ricco, che Gesù incontrò cammin facendo, avesse venduto tutto il suo e ne avesse distribuito ai poveri il ricavato, noi loderemmo la sua condotta come ogni azione grande, pur non potendo comprenderla appieno senza lavoro e fatica. Tuttavia, egli non sarebbe divenuto un Abramo per il fatto di aver sacrificato quanto aveva di meglio! Quel che si omette, nella storia del patriarca, è l’angoscia. Perché, mentre non sono legato da alcun obbligo morale verso il denaro, il padre è legato dal più nobile e dal più sacro di quegli obblighi verso suo figlio. Ma l’angoscia è pericolosa per i delicati. Per questo la si tace, e tuttavia si pretende parlare d’Abramo. Si perora; e, sempre discorrendo, si mescolano le due parole, «Isacco» e «il meglio». Tutto fila benissimo. Ma se fra gli ascoltatori vi è alcuno che soffra di insonnia, si rischia allora il tragicomico del più profondo e del più spaventoso malinteso. Il nostro uomo ritorna a casa, desideroso di imitare Abramo. Il suo figliolo non è forse il meglio che abbia? Se l’oratore lo viene a sapere, certo si precipita dietro di lui, raccoglie tutta la sua dignità di prete e grida: «Uomo abbietto, rifiuto della società! Quale demone ti possiede e ti spinge a uccidere la tua creatura!». E quel prete, che il sermone su Abramo non ha né riscaldato, né fatto sudare, stupisce della potenza e della giusta collera con la quale ha folgorato quel poveruomo. È contento di sé, perché mai ha parlato con tanta forza e persuasione. Dice a se stesso, e ripete a sua moglie: «Ho il dono della parola. Finora, non mi è mancata che l’occasione. Domenica, quando ho predicato su Abramo, non ero affatto preso dal mio argomento». Se quel predicatore avesse una qualche particella di ragionevolezza da perdere, penso che la perderebbe quando il peccatore gli rispondesse con calma dignità: «Ma è quanto tu stesso ci hai detto domenica nella tua predica». D’altronde come avrebbe potuto immaginare il prete una cosa simile? Eppure non c’era davvero nulla di sorprendente. L’errore suo era soltanto quello di non sapere quel che si dicesse. Come mai non si trovano poeti capaci di affrontare risolutamente situazioni di questo genere, invece delle sciocchezze che gonfiano commedie e romanzi! Qui, il tragico e il comico si incontrano nell’infinito assoluto. In sé, la predica del prete è indubbiamente piuttosto ridicola, ma lo diventa infinitamente per via del suo effetto, d’altronde affatto naturale. Sarebbe anche possibile mostrare il peccatore convertito dal sermone del pastore, senza obiettare nulla; e lo zelante pastore tornarsene tutto allegro a casa sua pensando che, se tocca così il suo uditorio dall’alto del pergamo, è soprattutto irresistibile nella cura delle anime, perché la domenica trascina l’accolta dei fedeli e il lunedì, simile a un cherubino che brandisca una spada di fiamma, si presenta di fronte all’insensato che vorrebbe smentire con i suoi atti il vecchio proverbio, secondo il quale le cose della vita non vanno come predica il prete.1
Al contrario, se il peccatore non è stato persuaso, la sua situazione è piuttosto tragica. Egli, molto probabilmente, viene condannato a morte o mandato in un manicomio. Diventa insomma infelice di fronte alla cosiddetta realtà; e, beninteso, in un senso diverso da quello nel quale Abramo l’ha reso felice. Perché chi lavora non perisce.
Come spiegare la contraddizione del nostro predicatore? Si potrà dire forse che Abramo ha acquisito per prescrizione il titolo di grand’uomo, sicché un atto come il suo è nobile, se compiuto da lui, mentre invece è un rivoltante peccato, se compiuto da un altro? In questo caso, non ho la minima voglia di sottoscrivere un elogio tanto assurdo. Se la fede non può giustificare il fatto di voler uccidere il proprio figliolo, Abramo cade sotto il giudizio comune. Che poi, se non si ha il coraggio di andare fino in fondo al proprio pensiero e dichiarare Abramo un assassino, è meglio sempre acquistare quel coraggio piuttosto che perdere il tempo in panegirici immeritati. Dal punto di vista morale, la condotta di Abramo si esprime dicendo ch’egli volle uccidere Isacco; e dal punto di vista religioso, dicendo che volle sacrificarlo. È questa la contraddizione angosciosa capace di produrre l’insonnia e senza questa angoscia, tuttavia, Abramo non è l’uomo che è. E fors’anche egli non ha affatto compiuto ciò che si racconta di lui. Forse il suo atto, spiegandolo con i costumi del tempo, fu tutt’altro. In questo caso, dimentichiamoci del patriarca. A che cosa può servire, infatti, ricordare il passato che non può diventare un presente? O forse il nostro oratore ha dimenticato un elemento corrispondente alla dimenticanza etica del dovere paterno. Quando, infatti, si sopprime la fede riducendola a zero, resta solo il fatto bruto che Abramo volle uccidere suo figlio, condotta assai facile ad imitare da parte di chiunque non abbia quella fede, che gli rende difficile il sacrificio.
Per conto mio, ho il coraggio di andare fino in fondo a un’idea. Fino a oggi, nessun’idea mi ha fatto paura e se una se ne presentasse che mi spaventasse, spero che avrei almeno la franchezza di dire: quest’idea io la temo, essa agita qualcosa di sconosciuto in me stesso, mi rifiuto di esaminarla; e se così facendo avrò torto, sarò certo punito. Se riconoscessi l’espressione della verità nel giudizio che fa di Abramo un assassino, non so se potrei far tacere la pietà ch’egli mi ispirerebbe. Ma, se lo pensassi, certo tacerei, perché non si devono iniziare gli altri a simili considerazioni.
Ma Abramo non è un’apparizione; non ha acquistato la sua celebrità dormendo, né la deve a un capriccio del destino.
È possibile parlare francamente di Abramo senza correre il rischio di sviare chi volesse far come lui? Se questo coraggio io non ce l’ho, meglio varrà tacere affatto di Abramo. Soprattutto non lo abbasserò, facendo di lui un laccio per i deboli. Perché, se si fa della fede un valore totale; se la si prende per quel che è, credo sia allora possibile parlarne senza pericolo, in questi nostri tempi che tanto poco si occupano della fede. Infatti, soltanto nella fede si può assomigliare ad Abramo, non nell’assassinio. Se si considera l’amore un sentimento fuggitivo, un voluttuoso moto dell’anima, parlando delle imprese di questa passione non si fa che tendere lacci ai deboli. Tutti hanno di questi sentimenti fuggitivi; ma se tutti credessero di poter ricominciare l’atto tremendo che l’amore ha santificato in un gesto immortale, allora ogni cosa va perduta, e il gesto e l’imitatore.
Dunque, è possibile parlare d’Abramo. Perché le grandi cose, qualora siano considerate nella loro sublimità, non possono nuocere mai. Sono come una spada a due tagli, che uccide e salva. Se toccasse a me parlarne, mostrerei anzitutto l’uomo pio e timorato del Signore, che Abramo fu, degno d’esser chiamato l’Eletto dell’Eterno. Solo un uomo simile può esser sottoposto a una simile prova; ma chi è come lui? Poi, direi il suo amore per Isacco. E finalmente, pregherei l’aiuto di tutti gli spiriti perché mi assistessero, infondendo al mio discorso il fuoco dell’amore paterno. Io raffigurerei tanto bene quell’amore (o lo spero) che non vi sarebbero nel regno di Danimarca troppi padri capaci di sostenere un confronto. Ma se il loro amore non fosse come quello di Abramo, la sola idea di sacrificare Isacco produrrebbe una crisi religiosa. Si potrebbe cominciare con l’intrattenere l’uditorio per diverse domeniche di seguito, senza affrettarsi. Se l’argomento venisse trattato convenientemente, il risultato sarebbe che molti padri non avrebbero bisogno di ascoltar altro, e, provvisoriamente, sarebbero felici d’esser giunti ad amare quanto Abramo amava. E se poi uno fra di loro ne rimanesse che, dopo aver ascoltato la descrizione della grandezza ma anche dell’orrore dell’impresa di Abramo, s’avventurasse tuttavia in cammino, io sellerei la mia cavalcatura per andar con lui. A ogni fermata, prima di giungere al monte Moriah, gli spiegherei ch’egli è ancora libero di tornare indietro, di pentirsi dell’equivoco che lo fa credere chiamato a sostenere un simile combattimento, di confessare la propria mancanza di coraggio, lasciando libero Iddio di prendersi Isacco, se ne abbia voglia. Sono persuaso che un uomo simile non è maledetto, che anzi può giungere alla beatitudine con tutti gli altri, ma non nel tempo.
Anche nelle epoche più ricche di fede, non sarebbe egli forse giudicato così? Conobbi un uomo che avrebbe potuto, un giorno, salvarmi la vita, se fosse stato magnanimo. Costui, senza perifrasi, diceva: «Vedo bene quel che potrei fare, ma non l’oso. Temo di non avere, in seguito, la forza necessaria, credo di pentirmene». Mancava di coraggio. Ma chi mai gli sarebbe per ciò meno affezionato?
Quando avessi così parlato e commosso i miei ascoltatori al punto da far loro sentire i combattimenti dialettici della fede e la sua gigantesca passione, mi guarderei bene dall’indurli a pensare: «Quanta fede ha dunque costui! A noi può bastare di tenerlo per il lembo della veste». E infatti aggiungerei: «Non ho affatto la fede. La natura mi ha dotato di un cervello robusto, e la gente del mio genere ha sempre grandi difficoltà a compiere il movimento della fede. Tuttavia, in sé e per sé, non attribuisco nessun valore a quella difficoltà che, una volta superata, conduce un cervello robusto al di là del punto cui, con tanto minor fatica, perviene chi sia anche il più semplice in spirito».
Pure, l’amore trova nei poeti i suoi sacerdoti; e talora s’ode una voce che sa cantarlo. Ma la fede non ha cantore: chi mai parla in lode di quella passione? La filosofia va oltre. La teologia sta, imbellettata, alla finestra; e, mendicando i favori della filosofia, le offre le sue grazie.
Dev’esser difficile comprendere Hegel; ma Abramo! Uno scherzo. Superare Hegel, è un prodigio. Ma superare Abramo, nulla di più facile! Quanto a me, ho impiegato gran tempo nello studio del sistema hegeliano, e credo anzi di averlo abbastanza capito. Sono persino tanto temerario da credere che, quando, malgrado tutti i miei sforzi, non arrivo ad afferrare il suo pensiero in taluni passaggi, ciò voglia dire che il mio autore non è abbastanza chiaro con se medesimo. Io compio quello studio assai facilmente, in modo affatto naturale, né esso mi dà il mal di capo. Ma, quando mi metto a riflettere su Abramo, sono come annientato. A ogni istante i miei occhi cadono sull’inaudito paradosso ch’è la sostanza della sua vita. A ogni istante sono respinto indietro e, malgrado il suo appassionato accanimento, il mio pensiero non può penetrare quel paradosso neppure per un capello. Tendo ogni muscolo nella ricerca di una via di uscita. E, simultaneamente, sono paralizzato.
E tuttavia io conosco le azioni che il mondo ammira come grandi e magnanime; esse risuonano nell’anima mia, certo come sono, in tutta umiltà, che l’eroe ha combattuto anche per me. Iam tua res agitur, mi dico, contemplandolo. Penetro il pensiero dell’eroe; ma non quello di Abramo; giunto alla vetta, cado di nuovo in basso, perché quel che mi viene offerto è un paradosso. Non ne deriva affatto che la fede sia, per me, cosa mediocre; ma anzi, sublime fra tutte; e penso che sia indegno della filosofia sostituirle qualcos’altro o deriderla. La filosofia non può, né deve, dare la fede; ha per compito di comprender se stessa, di sapere che cosa offre. Essa nulla deve togliere all’uomo; e soprattutto non deve far scomparire una cosa come se non avesse importanza. Conosco le vicissitudini e i pericoli della vita; non li temo e li affronto coraggiosamente. Ho esperienza di cose terribili; la memoria mi è sposa fedele e la mia immaginazione è quel che io non sono, una coraggiosa fanciulla che passa la giornata curva sui suoi lavori, dei quali, a sera, sa parlarmi tanto bene che non posso fare a meno di dar loro un’occhiata, anche se quei quadri non rappresentano sempre paesaggi, fiori o idilli campestri. Ho visto con i miei propri occhi cose terribili e non sono indietreggiato per spavento; ma so benissimo che, se le ho affrontate senza paura, il mio coraggio non è quello della fede e non è nulla al suo confronto. Io non posso fare il movimento della fede, non posso chiudere gli occhi e gettarmi a testa bassa, pieno di fiducia, nell’assurdo. Ciò mi è impossibile; ma non me ne glorio. Ho la certezza che Dio è amore. Questo pensiero ha per me un valore lirico fondamentale. Quando esso è presente, sono indicibilmente felice; quando è assente, sospiro per esso più di un amante per l’oggetto del suo amore. Ma non ho la fede. Non ho quel coraggio. L’amore di Dio è, per me, in proporzione insieme diretta e inversa, incommensurabile a ogni realtà. Non sono però tanto vile da diffondermi in lamenti, ma neppure ho la perfidia di negare che la fede non sia qualcosa di ben più alto. Posso abbastanza bene adattarmi a vivere a mio modo, felice e contento; ma la mia felicità non è quella della fede ed è infelice, in paragone a quella. Non importuno Iddio con le mie piccole preoccupazioni, i particolari non mi affannano, ho gli occhi fissi soltanto sul mio amore, la cui fiamma verginale io serbo pura e luminosa; la fede è sicura che Iddio si prende cura delle minime cose. Sono contento d’esser sposato, in questa vita, con la mano sinistra; la fede è pur abbastanza umile per sollecitare la destra. Perché, ch’essa lo faccia in umiltà, io non lo nego né lo negherò mai.
Ma veramente ognuno dei miei contemporanei è capace di compiere i movimenti della fede? A meno di non essermi gravemente ingannato su di essi, mi paiono piuttosto portati a inorgoglirsi per quella cosa, di cui certo non mi credono neppure capace: l’imperfetto. Seguire l’uso, tanto comune, di parlare senza umanità delle grandi cose, come se qualche migliaio d’anni fossero una distanza enorme, ecco una cosa contraria al mio carattere. È appunto di quelle cose che io parlo di preferenza, da uomo, come se fossero successe ieri; e la loro distanza, per me, è data unicamente dalla loro grandezza, nella quale è possibile trovare o la propria elevazione o il proprio giudizio.
Se, dunque, come eroe tragico (perché non posso elevarmi oltre) fossi stato invitato a intraprendere un viaggio da re, straordinario come quello di Moriah, so bene cosa avrei fatto. Non avrei avuto la viltà di restarmene a casa, nell’angolo del focolare; non mi sarei distratto per via, non avrei dimenticato a casa il coltello per procurarmi un po’ di ritardo. Son quasi certo che sarei stato pronto all’ora fissata e che ogni cosa sarebbe stata in ordine; forse, sarei anche arrivato in anticipo, per poter finire prima. Ma so anche che cosa avrei fatto, in più. Al momento di salire a cavallo, mi sarei detto: «Ormai tutto è perduto, Iddio chiede Isacco, io lo sacrifico e con lui sacrifico tutta la mia gioia; eppure Iddio è amore e continua per me a esser tale. Perché, nella temporalità, Lui e io non possiamo conversare, non abbiamo alcun linguaggio in comune».
Forse, ai giorni nostri, Tizio o Caio sarebbero tanto sciocchi, nel loro zelo per le grandi cose, da immaginarsi e da farmi credere che agendo siffattamente avrei compiuto un’impresa ancora più grande di Abramo. Perché la mia immensa rassegnazione sembrerebbe loro molto più ricca di ideale e di poesia della prosaicità di Abramo. Ed è proprio questo il massimo degli errori: la mia immensa rassegnazione non sarebbe che un succedaneo della fede. Perciò, io non potrei fare altro che l’infinito movimento per trovare me stesso e riposar di nuovo in me stesso. Non potrei neppure più amare Isacco come Abramo lo amava. La mia risoluzione di effettuare il movimento mostrerebbe, certo, il mio coraggio umano e l’amore di tutta l’anima mia per Isacco sarebbe il presupposto, in mancanza del quale tutta la mia condotta diventerebbe soltanto un delitto. Tuttavia, io non l’avrei amato come Abramo, perché altrimenti avrei resistito fino all’estremo minuto, senza perciò arrivare in ritardo al monte Moriah. Peggio, avrei rovinato tutta la storia con la mia condotta, perché, quando avessi riavuto Isacco, mi sarei trovato molto imbarazzato. Mi sarebbe stato difficile rallegrarmi nuovamente; cosa che invece non fu per nulla difficile ad Abramo. Poiché colui che, con tutto l’infinito dell’anima, proprio motu et propriis auspiciis, effettua il movimento infinito senza poter far nulla di più, conserverà Isacco soltanto nel dolore.
E che cosa fece dunque Abramo? Non venne né troppo presto, né troppo tardi. Sellò l’asino e percorse lentamente il cammino. Per tutto quel tempo egli ebbe la fede: credette che Iddio non avrebbe voluto esigere da lui Isacco, benché fosse disposto a sacrificarlo, se necessario.
Credette per assurdo, perché non si poteva trattare di un calcolo umano. E l’assurdo era nel fatto che Dio, domandandogli quel sa...