Buongiorno don Antonio!
Sono un sacerdote come te, ho 70 anni, sono parroco in un paesino dell’Umbria.
Non ho mai amato la tecnologia, mi sono sempre rifiutato di avere il telefonino e il computer. Capisco che sono cose utili, ma non fanno per me.
Io sono per i rapporti umani, per una stretta di mano, per gli occhi negli occhi. Preferisco parlare con la gente, andare a casa dei miei parrocchiani, prendere un caffè con loro al bar nella piazzetta centrale.
Anche la macchina non mi serve: per andare a trovare le mie famiglie, mi basta la bicicletta. Anzi, pedalando, pedalando… mi mantengo pure in forma!! Sì, lo so, il mondo va avanti, è giusto rimanere al passo con la tecnologia, con il progresso…
Spesso, però, mi ritrovo a pensare al ruolo di noi sacerdoti, a come dovremmo veramente essere per mantenere fede alla nostra vocazione, e sono arrivato alla conclusione che troppi agi, troppe comodità … non ci facciano bene.
Anzi, rischiano di allontanarci dalle persone, soprattutto in un momento di crisi come quello che stiamo vivendo. Non è una critica agli altri, è anche un’autocritica, perché io stesso ho più di quello che mi serve, a partire dal mio appartamento, non molto grande ma nuovissimo.
Tu che cosa nei pensi?
Un caro saluto,
DON SILVANO
Caro don Silvano,
sull’argomento «sacerdozio e agi», siamo sulla stessa lunghezza d’onda!
Il Signore ha detto di non avere nemmeno una tana, un nido, un tetto, un sasso su cui posare il capo….
Vorrei tanto che accadesse anche a noi, preti moderni, di non avere una cucina nella quale mangiare, un salotto nel quale vedere la tv, una cantina «aggiornatissima», una camera con un letto da una piazza e mezza, una cambusa per gli amici, un ufficio parrocchiale con computer, telefono, telefonino, fax, fotocopiatrice…
Noi, caro don Silvano, siamo ormai profeti delle fotocopie, del giornalino parrocchiale, della telecamera, del microfono al collo…
Il Signore ha detto: «Lasciate che i morti seppelliscano i loro morti, andate ad annunciare il Regno di Dio».
Noi siamo preti che vanno alle Canarie.
In questi giorni penso spesso al mio sacerdozio. Essere prete o fare il prete? Qui sta l’equivoco.
I laici ci fanno tornare «a fare i preti» in chiesa. Non hanno capito che o si è preti sempre e dovunque, o fare il prete imbroglia noi e i fedeli. C’è un ulteriore passaggio ancora più radicale che i laici non conoscono: la diversità tra essere preti ed essere religiosi.
Il primo a vivere di persona la dimensione «extramuraria» è stato Cristo. Ha rovesciato non solo le bancarelle davanti al tempio, urlando «la mia casa non è una casa di mercanti», ma tutto il suo apostolato l’ha vissuto fuori dal tempio.
Che preti siamo? Questo mondo che preti vorrebbe? Cristo, se tornasse, quante bastonate ci darebbe? Una sera, mentre riflettevo e pregavo, ho immaginato Pietro l’apostolo, alle prese con la sua prima messa. Te lo racconto.
Altre notti della sua vita, erano state pesanti... Ma c’era sempre stato Lui. Stanotte, invece, Lui se n’era andato in cielo.
Beato Lui! Pietro, con il naso in aria, incredulo, aveva aspettato vari minuti. Sperava in una specie di scherzo.
Non si era trasfigurato e poi era tornato?
Non era morto addirittura e poi è uscito, non si sa come, dal sepolcro? Niente...
No! Non s’era mai sentito così solo. La stuoia era lì, già distesa, ma il suo corpo si rifiutava di adagiarvisi.
Pietro, tra il seduto e l’inginocchiato, non voleva chiudere occhio.
Si ripassava le parole di Gesù, ricordava quelle tre volte dei: «Pasci... Pasci... Pasci...».
Cosa vado a pascolare, se sono io colui che dovrebbe essere pascolato?
A un tratto gli balenò un’idea.
Si rivide nel Cenacolo, al momento della frazione del pane.
Più che i gesti, gli si erano impresse nella testa le parole del Maestro: «Fate questo in mia memoria».
Che testone! Solo adesso aveva capito, il Pietro peccatore, che si poteva ripartire da lì.
Mettere attorno al tavolo i discepoli, gli altri apostoli, le donne e fare... quello che il Maestro aveva fatto.
D’un attimo cambiò umore.
Sentì l’adrenalina arrivargli dalla punta dei piedi a quella dei capelli. E s’agitò, come di solito.
Prese del pane, cercò l’ampolla del vino, stese la stuoia, una tovaglietta di lino, e iniziò le prove.
La notte era fonda, la lampada faceva più fumo che luce. Grande imbarazzo nel cuore di Pietro. Un ostacolo insormontabile si era posto tra le sue mani e la sua bocca. Avrebbe dovuto ripetere la formula che a lui sembrava sacrilega.
«Come posso dire: questo è il mio Corpo... questo è il mio Sangue... Fate questo in mia memoria?»
Lui, il traditore, lo spergiuro, l’uomo che viaggiava con lo stiletto alla cintura.
Era stato vicino a Cristo, il più vicino, il predestinato a fondare la sua Chiesa. Ma non si era mai sognato di poter fare quello che si apprestava a fare.
Aveva capito male. Tremava come una foglia. C’erano i pezzi di pane, lì sulla tovaglia, c’era l’ampolla del vino... ma dalla bocca non uscivano quelle parole.
Si coagulavano tra i denti e le labbra, o meglio, bruciavano troppo.
Nemmeno quando aveva spergiurato, in quella stramaledetta notte, si era sentito così male. Sudava come se agonizzasse, rantolava, spingeva sulla lingua, ma già lo stomaco si rivoltava tutto.
Come possono un pezzo di pane e due gocce di vino, per opera sua, di Pietro il traditore, diventare il corpo e il sangue del suo Maestro?!
Ma quale nuovo potere gli aveva dato Lui quella sera, nel Cenacolo?
Al colmo dello spasimo diede un gran calcio a tutto, alla tovaglia, alle candele, al pane e al vino.
«Basta! Via, via... sto troppo male!
«Non è vero.
«È un altro atto della mia superbia!
«Io sono un povero peccatore, sacrilego!»
Si rannicchiò nell’angolo della stanza. Pianse amaramente, come la notte degli spergiuri.
Uno sconfinato senso di colpa calò pesantemente su di lui. Vomitò anche l’anima. Uscì nella notte per spegnere un pochino il dubbio che lo stava distruggendo.
Si risvegliò... in casa, in pieno giorno, attorniato dai «dieci», con Maria. Tutto era pronto: la tovaglia, il pane, il vino, la lampada.
Pietro capì... prese il pane, lo benedisse, lo spezzò e dissero insieme: «Questo è il mio Corpo. Questo è il mio Sangue. Fate questo...».
Finita la frase, un silenzio intensissimo calò.
Pochi attimi dopo, Maria si mise a battere le mani e tutti incominciarono e non smisero più di battere le mani.
«Popoli tutti, battete le mani, perché Gesù è ancora tra noi.»
Pietro si liberò dell’incubo. Capì che il più grande miracolo di Cristo non era stata la resurrezione di Lazzaro, e forse nemmeno la sua resurrezione, ma... l’Eucarestia.
Se noi, preti e religiosi, riuscissimo a capire che Cristo è diventato «pane spezzato» per il mondo, tutto si trasformerebbe in Eucarestia, dentro e fuori la Chiesa.
Caro don Silvano, tornando al cuore della tua lettera, sono d’accordo con quello che dici… Sono convinto che noi sacerdoti dobbiamo essere pane spezzato per il mondo.
Pronti a uscire dalle nostre chiese, per incontrare gli altri!
Pronti a farci mangiare da chi ne ha bisogno!
Noi siamo qui per incontrare, per aiutare…
La tecnologia può essere molto utile, molto positiva, soprattutto per le nuove generazioni di preti che sanno davvero come usarla, e che, usandola, riescono a comunicare con i più giovani…
Un conto però è la tecnologia, un conto sono gli agi e i piaceri, che ci allontanano dai cuori e dalle anime della gente.
Ecco, degli agi e dei piaceri, come dici tu, abituiamoci a farne a meno. Non sono certo utili alla vocazione per cui noi sacerdoti siamo qui, su questa terra.
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Non mollare
di Antonio Mazzi
Published by arrangement with Delia Agenzia Letteraria
© 2014 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano
Ebook ISBN 9788852055829
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