Le teste scambiate / La legge / L'inganno (Mondadori)
  1. 368 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

Informazioni su questo libro

Una leggenda indiana dai risvolti tragico-grotteschi; la figura biblica di Mosè, profeta e guida del popolo ebreo; una borghese di mezza età che si illude di aver ritrovato la giovinezza: questi i motivi conduttori dei tre racconti.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2014
Print ISBN
9788804404231
eBook ISBN
9788852054891

Le teste scambiate

Leggenda indiana
1940
Traduzione di Ervino Pocar

I

La storia dei fatti accaduti a Sita dai bei fianchi, figlia di Sumantra, l’allevatore di vacche oriundo di sangue guerriero, e ai due mariti, se così può dirsi, di lei, pone, crudele e sanguinosa com’è, le massime esigenze alla forza d’animo di chi ascolta e alla sua capacità di tener testa con l’intelligenza alle tragiche fantasie della maya. Sarebbe augurabile che gli ascoltatori prendessero esempio dalla fermezza del narratore perché il raccontare una siffatta storia richiede quasi più ardimento che l’udirla. Dal principio alla fine essa si svolse come segue.
Ai tempi quando il ricordo montava nelle anime degli uomini come se un vaso lustrale si empisse lentamente, dal fondo, di bevanda inebriante o di sangue; quando il grembo della severa osservanza religiosa si apriva al seme dei primordi lontani, e il nostalgico anelito verso la Madre circondava di novelli brividi i vecchi simboli e faceva ingrossare i cortei di pellegrini che in primavera si affollavano verso le dimore della grande Nutrice del mondo: a quei tempi due giovani poco diversi di età e di casta, ma molto differenti per incarnazione, vivevano in stretta amicizia. Il minore si chiamava Nanda, l’altro, più anziano, Shridaman. Quegli aveva diciott’anni, questi già ventuno ed entrambi, ciascuno nel suo giorno, erano stati cinti del sacro cordone e accolti nella comunità dei “Nati due volte”. Abitavano nel medesimo tempio-villaggio chiamato “Prosperità delle Vacche” e in tempi remoti, per assegnazione divina, avevano preso domicilio nella terra di Cosala. Era circondato, quel villaggio, da una siepe di fichidindia e da una staccionata; a proposito delle sue porte, volte ai quattro venti, un girovago conoscitore dell’Essere, iniziato della dea Eloquenza, il quale non diceva parola che non fosse giusta ed era stato rifocillato nel villaggio, aveva pronunciato l’augurale benedizione, affinché stipiti e architravi sgocciolassero di miele e burro.
L’amicizia dei due giovani era fondata sulla diversità delle loro nozioni dell’io e del mio, e quelle dell’uno tendevano verso quelle dell’altro. L’incarnazione, infatti, crea l’isolamento, l’isolamento crea la diversità, la diversità crea il confronto, il confronto crea l’inquietudine, l’inquietudine crea lo stupore, lo stupore crea l’ammirazione, l’ammirazione però il desiderio di scambio e di unione. Etad vai tad. Ciò è questo. E la dottrina si attaglia specialmente ai giovani quando l’argilla della vita è ancora tenera e le nozioni dell’io e del mio non sono ancora irrigidite nella scissione dell’Uno.
Il giovane Shridaman era mercante e figlio di un mercante, Nanda invece fabbro e vaccaro insieme, poiché suo padre Garga maneggiava tanto il martello quanto l’ala di volatile per avvivare il fuoco, e d’altro canto allevava bestiame cornuto nel chiuso e ai pascoli. Il genitore di Shridaman, di nome Bhavabhûti, faceva risalire la sua origine, in linea maschile, a una stirpe di brahmani esperti dei Veda, mentre Garga e suo figlio Nanda ne erano ben lontani. Eppure nemmeno loro erano sudra, ma quantunque un po’ camusi appartenevano alla società umana. Per Shridaman, d’altronde, e già per Bhavabhûti il brahmanesimo non era che un ricordo, poiché già il padre di quest’ultimo si era volutamente fermato sul gradino di vita del padre di famiglia che viene dopo il gradino del discente, e in tutta la vita non era salito a quello dell’eremita e dell’asceta. Aveva disdegnato di vivere soltanto delle pie offerte che gli venivano dalla sua conoscenza dei Veda o non se n’era appagato, e aveva esercitato un degno commercio di mussolina, canfora, sandalo, sete e tele. Così anche il figlio, che aveva messo al mondo per il servizio divino, era diventato un vânidja, ossia mercante nel villaggio Prosperità delle Vacche e il figlio di lui, cioè Shridaman, aveva seguito le medesime orme, non senza aver dedicato alcuni anni dell’adolescenza, sotto la tutela di un guru o maestro spirituale, alla grammatica, all’astronomia e ai rudimenti dello studio dell’Essere.
Non così Nanda, figlio di Garga. Il suo karman era diverso né mai, indottovi dalla tradizione o dal sangue misto, egli aveva coltivato cose spirituali, ma era come era, figlio del popolo, allegro e ingenuo, una figura di Krishna, perché scuro di pelle e capelli, e sul petto aveva persino il ricciolo “Vitello della fortuna”. Al mestiere del fabbro doveva le braccia robuste, alla vita pastorale il rimanente ottimo sviluppo: infatti il suo corpo che gli piaceva ungere con olio di senape e ornare con collane di fiori campestri o anche con gioielli d’oro, era ben costrutto, in armonia col grazioso viso imberbe che, come si è detto, era se mai un po’ camuso e aveva, diciamo pure, le labbra tumide, ma l’una cosa e l’altra in modo simpatico; e i suoi occhi neri solevano ridere.
Di tutto ciò Shridaman si compiaceva quando faceva il confronto con sé stesso; aveva infatti testa e membra di alcune gradazioni più chiare di Nanda, e anche il viso diverso. Il dorso del naso aveva sottile come una lama, e occhi dolci di pupilla e di palpebre e, inoltre, sulle guance una morbida barba a ventaglio. Tenera aveva anche la persona, non foggiata dall’opra del fabbro e del pastore, ma piuttosto da brahmano e da mercante: col petto esile, un tantino floscio e con un po’ di adipe sulla pancetta, ma per il resto era irreprensibile, belli i piedi e belli i ginocchi. Era uno di quei corpi che possono ben servire da complemento e appendice a una testa nobile e sapiente che nell’insieme è certo la cosa principale, mentre in Nanda il corpo era, per così dire, la cosa principale e la testa soltanto un grazioso complemento. Tutto sommato, quei due erano come Shiva quando si sdoppia e da una parte, barbuto asceta, giace come morto ai piedi della dea, dall’altra, giovane florido e ritto, si stira le membra a lei rivolte.
Ma siccome non erano uno come Shiva che nella Madre è vita e morte, universo e eternità, bensì due diverse creature in terra, formavano oggetto di contemplazione reciproca. In ognuno il “senso del mio” si annoiava di sé stesso e pur sapendo che in fondo tutto consta di difetti, si guatavano a vicenda per via della loro diversità. Shridaman con le belle labbra sotto i baffi si compiaceva della possente figura krishniana di Nanda dalle labbra tumide; e questi – un po’ sentendosene lusingato, un po’, anzi più ancora, perché gli facevano molta impressione il colore più chiaro di Shridaman, il suo nobile capo e la proprietà del linguaggio che, come è noto, va di pari passo con la saviezza e la conoscenza dell’Essere e vi è fusa fin dall’inizio – non sapeva niente di più bello che frequentare l’altro, di maniera che divennero amici inseparabili. È vero che nella loro reciproca simpatia c’era anche un po’ di ironia in quanto Nanda prendeva in giro Shridaman per l’adipe chiaro, il naso sottile, il linguaggio preciso, e Shridaman a sua volta burlava in confidenza Nanda per il naso camuso e la garbata bonarietà. Ma questa specie di motteggio è per lo più frutto del confronto e dell’inquietudine e rappresenta un tributo al senso dell’io e del mio che non pregiudica affatto il desiderio della maya da esso derivante.

II

Ora, nell’amena stagione di primavera, tutta gorgheggi di uccelli, accadde che Nanda e Shridaman facessero insieme un viaggio a piedi, ciascuno per un motivo particolare. Nanda aveva ricevuto da suo padre Garga l’incarico di acquistare una certa quantità di ferro grezzo da un gruppo di individui di bassa condizione, vestiti soltanto con un grembiule di giunchi, avvezzi e capaci di fondere il minerale di ferro. Nanda sapeva trattare con loro. Vivevano in villaggi alcune giornate di marcia a occidente del paese dei due amici, non lontano dalla cittadina di Kuruksheta, situata a sua volta un poco a settentrione della popolosa Indraprastha, sul fiume Djamna, dove aveva da fare Shridaman. Là, infatti, presso un corrispondente della sua casa, anche lui brahmano arrestatosi al gradino di padre di famiglia, doveva scambiare il più vantaggiosamente possibile una partita di tessuti colorati, lavorati in casa dalle donne con filo di buona qualità, contro pile da riso e una specie di fiammiferi molto pratici dei quali a Prosperità delle Vacche si era notata la scarsità.
Dopo aver camminato un giorno e mezzo tra la gente per le vie maestre, ma anche per boschi solitari e per deserti, portando ciascuno il proprio carico sulle spalle – Nanda una cassetta di noci di betel, conchiglie e rosso d’alta spalmato su carta di cocco per colorare le piante dei piedi, tutta roba con cui contava di pagare il ferro grezzo di quegli umili; Shridaman, i tessuti cuciti entro una pelle di capriolo, che però Nanda, per amicizia, aggiungeva talvolta al proprio carico – arrivarono a un bagno sacro a Kâlî. Questa è Colei che tutto abbraccia, la Madre di tutti i mondi e di tutti gli esseri, la sognante ebbrezza di Vishnù. Il bagno era nel fiumicello “Mosca d’Oro” che come una cavalla sciolta cala gaio dal grembo dei monti, poi modera il corso e in un punto sacro confluisce dolcemente col fiume Djamna; questo a sua volta, in un punto ultrasacro, sfocia nell’eterno Gange che, molteplice, sbocca nel mare. Numerosi bagni celeberrimi orlano le rive e i confluenti del Gange; essi lavano ogni macchia, e chi vi attinge l’acqua della vita e si tuffa nel loro grembo ottiene la rinascita. Dove altri fiumi si riversano nella terrestre Via Lattea, o dove altri ancora si uniscono a questi, come fa col Djamna la Mosca d’Oro, figlioletta delle nevi, dappertutto si incontrano siffatti luoghi di purificazione e di ritrovo, accessibili a ognuno per sacrifici e comunioni, provvisti di sacri gradini per l’entrata, affinché i devoti non debbano scendere nel grembo senza le debite forme, sguazzando tra il loto e i giunchi della riva, ma possano andar giù dignitosamente a bere e ad aspergersi.
Ora il bagno che gli amici trovarono non era uno dei grandi e ricchi di grazia che, secondo gli esperti, compiono miracoli, e dove nobili e umili (benché in ore diverse) si accalcano a frotte. Era un angolino quieto e nascosto, non situato a una confluenza, ma in un punto qualunque sulla riva della Mosca d’Oro, la quale riva a pochi passi dal fiume si elevava a collina; sulla cima sorgeva un tempietto, di legno soltanto e un po’ cadente, ma ricco di figure intagliate, dedicato alla Signora di tutte le brame e le gioie, con una torre a strapiombo sopra la cella. Anche i gradini che portavano al bacino erano di legno, logori ma sufficienti per una discesa dignitosa.
I giovani manifestarono l’un l’altro la gioia di aver trovato quel posto che offriva ad un tempo occasione di raccogliersi in devozione, di rinfrescarsi e di riposare all’ombra. Faceva già molto caldo a metà del giorno; pur essendo primavera si sentiva l’estate precoce e greve, e di fianco al tempietto, sull’alto della riva, si stendevano macchie e boschetti di manghi, alberi di tek e di kadamba, magnolie, tamerici e palme tala, al cui riparo sarebbe stato bello rifocillarsi e riposare. Gli amici assolsero anzitutto i doveri religiosi, per quanto le circostanze permettevano. Non c’era alcun sacerdote che potesse offrir loro olio o burro sciolto per annaffiare i marmorei lingam collocati sulla terrazzina anteposta al tempio. Con un mestolo che vi trovarono attinsero acqua dal fiume e mormorando le parole del rito eseguirono l’atto devoto. Poi giungendo le mani cave scesero nel bacino verdognolo, bevvero, si aspersero opportunamente, si tuffarono e resero grazie, si trattennero ancora un poco nel bagno per mero diletto, più di quanto fosse ritualmente necessario, e sentendo in tutte le membra il benessere del congiungimento, si recarono al luogo di riposo che avevano scelto sotto gli alberi.
Là spartirono il viatico come fratelli, benché ciascuno avrebbe potuto mangiare il proprio cibo che poi non differiva da quello dell’altro. Quando Nanda rompeva una schiacciata d’orzo, ne porgeva una metà a Shridaman dicendo: “Prendi, caro!” e quando Shridaman apriva un frutto ne dava la metà a Nanda con le stesse parole. Mangiando, Shridaman stava seduto sul fianco nell’erba ancora verde, non arsa dal sole, con le ginocchia e i piedi accostati a sé. Nanda invece stava accoccolato in maniera piuttosto volgare, le ginocchia sollevate, i piedi davanti a sé come non resiste a lungo chi non vi sia avvezzo da generazioni. Avevano assunto siffatte positure inconsapevolmente e senza riflettere ché, se avessero badato al modo in cui stavano seduti, Shridaman, per la passione del primitivo, avrebbe sollevato le ginocchia e Nanda, per il desiderio opposto, si sarebbe seduto sul fianco. Questi portava un berrettino sui capelli neri lisci, ancora bagnati, un panno di cotone bianco ai fianchi, anelli alle braccia e, intorno al collo, attaccato a una catenella, un pendente di perline di pietra, legato con nastri d’oro entro la cui cornice gli si vedeva sul petto il ricciolo “Vitello della Fortuna”. Shridaman aveva un panno bianco attorto intorno al capo e portava una camiciola con maniche corte, anch’essa di cotone bianco, la quale gli ricadeva sul grembiulino a pieghe che lo fasciava a mo’ di calzoncini; nella scollatura gli pendeva da una catenina una borsetta di amuleti. Sulla fronte a entrambi spiccava, dipinto con la biacca, il simbolo della loro fede.
Quando ebbero mangiato misero da parte i rifiuti e stettero a chiacchierare. Il luogo era così bello che prìncipi e grandi re non avrebbero potuto stare meglio. Fra gli alberi nel cui fogliame e nelle cui infiorescenze passava un leggero fruscìo, fra gli eccelsi tronchi di calamo e bambù, si vedevano l’acqua e i gradini inferiori della scaletta. Verdi festoni tubolari di liane pendevano torno torno dai rami collegandoli graziosamente. Al gorgheggio e al cinguettio d’invisibili uccelli si accoppiava il ronzare delle api d’oro che scattavano in qua e in là sopra i fiori e vi sostavano per visite fugaci. C’era un sentore di frescura e calura vegetale, un forte profumo di gelsomino, il particolare aroma del frutto della tala e del legno di sandalo e inoltre l’odore d’olio di senape col quale Nanda, dopo il rito dell’immersione, si era di nuovo spalmato.
«Qui si sta come al di là delle sei onde di fame e sete, di vecchiaia e morte, di dolore e illusione» disse Shridaman. «Questo è un posto straordinariamente tranquillo. Pare di essere trasferiti dall’affannoso turbinare della vita al suo centro di pace dove si può trarre il respiro. Senti come tutto è in ascolto! Parlo di ascolto perché deriva dall’azione di ascoltare che è frutto del silenzio. Questo infatti ci fa tendere l’orecchio a ciò che non è del tutto muto, a ciò che il silenzio dice in sogno e che noi udiamo appunto come in sogno.»
«Sarà come dice la tua parola» rispose Nanda. «Nel brusio d’un mercato non si sta in ascolto, nel silenzio però si tende l’orecchio solo quando c’è qualcosa da ascoltare. Interamente quieto e denso di silenzio è soltanto il nirvâna e perciò non lo si può dire in ascolto.»
«No» replicò Shridaman mettendosi a ridere. «Nessuno ha ancora avuto l’idea di dire che il nirvâna stia in ascolto. A te invece l’idea in certo qual modo è venuta, sia pure in forma solamente negativa, in quanto affermi che non lo si può dire, e fra tutte le negazioni che gli si possono attribuire – del nirvâna infatti non si può parlare se non per negazioni – vai a scegliere proprio la più buffa. Tu dici spesso cose scaltre, se si può applicare la voce scaltro a qualcosa che è ad un tempo giusto e ridicolo. A me piace assai perché talvolta mi fa vibrare la pelle del ventre quasi come nel singhiozzo. Qui si vede quanto siano affini il riso e il pianto e si capisce che è illusorio fare una distinzione essenziale fra piacere e dolore affermando l’uno e negando l’altro, mentre soltanto insieme li possiamo dire buoni o cattivi. Esiste però un accoppiamento di pianto e riso che a maggior ragione si può approvare fra le agitazioni della vita. Per esso fu creata la parola commozione con la quale indichiamo una pietà serena, e se la vibrazione del mio ventre somiglia tanto al singhiozzo dipende precisamente dalla commozione e dal fatto che tu mi ispiri pietà con la tua scaltrezza.»
«E perché ti ispiro pietà?» domandò Nanda.
«Perché a guardar bene sei un autentico figlio del Samsâra e della vita involuta, chiusa in sé stessa» rispose Shridaman «e non sei una di quelle anime che anelano ad emergere dal pauroso oceano del pianto e del riso come i fiori di loto si elevano sopra l’acqua aprendo il calice verso il cielo. Tu ti senti bene sul fondo dove brulicano maschere e figure in mutevole intreccio, e, poiché ti senti bene, accade che anche chi ti guarda incominci a sentirsi bene. Ma ora ti sei fitto in capo, e ti ci ostini, di occuparti del nirvâna e di fare osservazioni sulla sua negazione, dicendo per esempio che non sta in ascolto, e ciò è buffo da piangere o, per usare la parola creata apposta, è commovente perché fa stare in pena per il tuo benefico benessere.»
«Oh, senti un po’» ribatté Nanda. «Spiegati meglio. Se ti facessi pena perché preso nell’abbaglio del Samsâra e inetto a far da loto, lascerei correre. Ma se ti faccio pena, proprio perché anch’io, quanto so e posso, cerco di occuparmi un tantino del nirvâna, mi potrei offendere. E ti dirò: anche tu mi fai pena.»
«Oh, perché mai ti faccio pena a mia volta?» domandò Shridaman.
«Perché tu hai letto bensì i Veda e acquistato alcunché della conoscenza dell’Essere» replicò Nanda «ma sei vittima dell’abbaglio più facilmente ancora e più volentieri di coloro che non sono così progrediti. Ecco perché mi sento per il corpo un prurito di commozione, cioè una gaia pietà. Appena sei in un luogo che sta in ascolto come questo, ti lasci subito abbagliare dalla pace apparente, sogni di aver superato le sei onde della fame e della sete e credi di essere nel centro fermo del movimento. Eppure lo stare qui in ascolto, il poter ascoltare talune cose in questo silenzio, è precisamente indizio che v’è un affaccendarsi e muoversi di grandi attività e che i tuoi sentimenti di pace sono soltanto illusori. Questi uccelli si scambiano gorgheggi per fare l’amore, queste libellule, questi insetti volanti guizzano nell’aria per fame, nell’erba c’è un segreto brusio di mille battaglie per la vita e queste liane che con tanta grazia inghirlandano gli alberi vorrebbero cavar loro e succo e respiro pur di farsi grasse e tenaci. Tale è la vera conoscenza dell’Essere.»
«Lo so benissimo» disse Shridaman «e non mi lascio abbagliare o, se mai, soltanto per il momento e di mia spontanea volontà. Esistono infatti non solo la verità e la conoscenza dell’intelletto, ma anche l’allegorica intuizione del cuore umano che sa leggere la scrittura dei fenomeni, non soltanto nel suo primo freddo significato ma anche nel secondo, più alto, e se ne serve per contemplare la purezza e la spiritualità. Come vuoi arrivare alla percezione della pace e sperimentare nel cuore la beatitudine dell’immobilità senza che un’immagine della maya, la quale certo non è ancora la felicità e la pace, te ne offra l’appiglio? All’uomo è concesso e lecito di servirsi del reale per contemplare il vero e per questo fatto e per questa licenza il linguaggio ha coniato la parola poesia.»
«Ah, così la intendi?» rise Nanda. «Allora, a sentire te, la poesia sarebbe la stupidità che segue la saggezza, e quando uno è stupido ci sarebbe da chiedersi se lo è ancora o se lo è di nuovo. Devo ben dire che voialtri savi non ci rendete la vita facile. Si opina che bisognerebbe diventare savi, ma prima di esserlo si apprende che bisognerebbe ridiventare stupidi. Voi non dovreste mostrarci il nuovo gradino pi...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Introduzione
  4. Cronologia
  5. Bibliografia
  6. Le teste scambiate
  7. La legge
  8. L’inganno
  9. Copyright