Camminavamo sul viale acciottolato lungo la Senna. Dietro di noi, le auto del venerdì sera erano in coda, avvolte nella luce dei fari e nella foschia dei gas di scarico, il rosso venefico del rientro a casa.
Passeggiavamo – tu con il maglione annodato sulle spalle – mentre quelli che facevano jogging ci superavano, evitandoci con un rapido scarto, e innamorati dal passo lento si fermavano davanti a noi, per accendersi una sigaretta o per baciarsi.
Noi non eravamo innamorate.
Non ancora.
La sera si allungava e il giorno cominciava a rilassare i suoi muscoli. Una ragazza vestita di Lycra combinava un appuntamento per la serata parlando al telefonino mentre un uomo in impermeabile lasciava squillare il suo cellulare, sorridendo ai passanti che fissavano la sua borsa trasformata in sirena d’allarme.
Accanto ai moli, le coppie aspettavano di salire a bordo di uno di quei battelli illuminati al neon che promettevano cene e serate danzanti mentre, su una chiatta, un gatto si leccava il pelo vicino al fumaiolo e una donna con un foulard in testa gettava del caffè nell’acqua.
Quante vite, al pari delle nostre, s’intrecciavano a questa notte, a questi sconosciuti. Sconosciute noi stesse.
Gli eventi più insignificanti possono rivelare nuovi mondi.
Alloggiavamo entrambe allo stesso hotel. Eravamo arrivate il giorno prima e nella hall i nostri partner si erano subito riconosciuti, abbracciandosi come due vecchi amici. Nulla di strano, dato che erano davvero vecchi amici.
Noi, invece, stavamo in disparte, imbarazzate e anche un po’ seccate da quel cameratismo che non potevamo condividere. Poi loro due si erano messi d’accordo per cenare insieme la sera seguente, in un ristorante lì vicino. I due amiconi che si erano persi di vista, se la cosa non ci disturbava – ma no, sarebbe stato un piacere – ci avrebbero precedute al ristorante e tu e io li avremmo raggiunti a piedi, facendo conoscenza durante il breve tragitto.
Semplice. Facile.
Sì.
Non conoscendoti e sapendo che le chiacchiere futili non sono il mio forte, ti raccontai la storia di George Mallory, lo scalatore dell’Everest. Ne parlo in un libro che sto scrivendo, e alla gente di solito interessa sapere come gli autori lavorano ai loro libri, così possono risparmiarsi la seccatura di leggerli.
«Allora sei una scrittrice?»
«Sì.»
«Non ho mai sentito parlare di te.»
«No.»
«Hai già pubblicato qualcosa?»
«Sì.»
«Si trova in libreria?»
«Sì.»
«Qui a Parigi?»
«Sì.»
«In francese?»
«Sì.»
«Anche in inglese?»
«Sì.»
«Davvero?»
(Ho già detto che le chiacchiere futili non sono il mio forte.)
«Allora sei una vera scrittrice?»
«Sì.»
«Che genere di libri scrivi?»
«Narrativa, più che altro.»
«Cose che inventi?»
«Sì.»
«Preferisco la realtà .»
«E perché?»
«Non riserva sorprese.»
«Non ti piacciono le sorprese?»
«Hanno smesso di piacermi dopo il mio quinto compleanno, quando mi regalarono una torta esplosiva.»
«Sei riuscita a mangiarla?»
«Le candeline erano bastoncini di dinamite e fecero volare crema e pandispagna per tutta la stanza.»
«E tu cos’hai fatto?»
«L’ho raschiata via dalle pareti. Ho cercato di comportarmi normalmente.»
«Difficile.»
«Eh, sì.»
(Fece una pausa, poi riprese…) «Per me la vita è una torta decorata da bastoncini di dinamite.»
«Non mi pare una vita senza sorprese.»
«Oh, invece lo è. Vedi, io so che prima o poi mi scoppierà in faccia.»
Camminando, la osservavo di sottecchi. Mi sembrava calma e sicura di sé, coi suoi morbidi jeans neri, la camicetta bianca, un filo di rossetto e una borsetta così piccola che poteva contenere solo la carta di credito e un pennello per stendere il trucco. Il maglione a girocollo, legato a sacco, era di cachemire a coste e le ondeggiava sulle spalle come un ballerino.
Semplice.
Costoso.
«Cosa ti porta a Parigi?» (Un bell’esempio di frase futile.)
«La Torre Eiffel.»
«Ti piacciono le torri?»
«Mi piacciono le strutture nude.»
«Okay, è un buon motto.»
«Cerco di fare in modo che le linee siano visibili. Non sul mio viso, naturalmente, ma altrove, nel mio lavoro, nella mia vita, nel mio corpo.»
(Mi invase un disperato desiderio di vedere il suo corpo ma scacciai quel pensiero.)
«Una vita limpida?» chiesi.
«Non proprio.»
«E allora cosa?»
«Uno spazio libero. La cosa più semplice al mondo è tappezzarsi dalla testa ai piedi e sistemare, dentro di sé, una poltrona.»
«Mi sembra scomodo.»
«Oh, no, al contrario. È per questo che la gente lo fa.»
«Ma non tu.»
(Mi prese la mano.) «È qui che sento le cose.»
(Mi guidò la mano sotto la cintura dei suoi jeans.) «Eccitazione, pericolo…»
(Premette la mano sul ventre.)
«Sesso. E per poter continuare a sentire ho bisogno di tenere un po’ di spazio libero.»
(D’un tratto mi lasciò la mano, che io guardai con tristezza.)
Disse: «E tu? Cosa ti porta a Parigi?».
«Una storia che sto scrivendo.»
«Su Parigi?»
«No, ma c’è dentro Parigi.»
«Di cosa parla?»
«Limiti. Desiderio.»
«Di cosa parlano gli altri tuoi libri?»
«Limiti. Desiderio.»
«Non sai scrivere d’altro?»
«No.»
«Perché venire a Parigi, allora?»
«Una città nuova. Un nuovo travestimento.»
Salimmo su un ponticello di legno, sostando appoggiate alla ringhiera metallica. L’ampia vista del fiume era come un filmino del week-end girato da un dilettante: gli innamorati che si tengono per mano, i cani, i lampioni e il solito incerto andirivieni di gente che attraversa il ponte in un senso o nell’altro, cambiando direzione, fermandosi, uscendo di campo o incombendo sull’obiettivo. La pellicola era il fluire del fiume che scorrendo si srotolava e si proiettava sul fondale del cielo aperto e sull’ostacolo dell’Île de la Cité.
Fotogramma per fotogramma, quel venerdì sera veniva ripreso, esposto e gettato, trascinato via dal fiume e dal tempo, fissato solo nella memoria ma in sé...