Un mare di nulla
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Un mare di nulla

  1. 224 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Un mare di nulla

Informazioni su questo libro

Un uomo dalla vita avventurosa e affascinante. Affabulatore, prestigiatore, "maestro dei nodi e signore degli imbrogli", incantatore di uomini e soprattutto di donne, il protagonista di questo romanzo forse fu il padre dell'autore. Partendo da questo dato biografico, memoriale, la scrittura di Riccarelli, vorticando pagina dopo pagina, genera un intero universo di storie. Una costante della sua narrativa è infatti mostrare come l'esistenza di ognuno si intrecci sempre con quella di tutti gli altri: così, raccontare di un padre diventa subito l'occasione per evocare una nonna, giovanissima spigolatrice, un nonno capomastro posato e riflessivo, un bisnonno marinaio dai lineamenti scavati dal sole e dall'acqua salmastra, uno zio spregiudicato e opportunista e un altro poetico, inconcludente inventore. Da un paesino ai piedi delle Alpi le loro storie si dipanano fino al bagliore del deserto d'Africa, mescolate a quelle di giovani soldati ingenui e smarriti, di sadici aguzzini, di beduini pazienti e generosi, trafitte dagli occhi incantatori di una donna berbera, due lame di luce azzurra.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2014
Print ISBN
9788804572169
eBook ISBN
9788852056710

1

Quando sbarcò in Africa, mio padre era già una sorta di mago, capace di estrarre a sorpresa quello che ogni persona tiene nascosto dentro di sé, nei taschini sconosciuti che cuciamo sotto la pelle delle mani, dietro gli occhi durante i sogni, nelle pieghe delle labbra. In quei ripostigli segreti era capace di infilare le parole come una zingara ti avrebbe infilato le dita tra i fermagli della catenina d’oro, e forzare con una rosa di verbi o aggettivi ogni resistenza accarezzandoti con un complimento e così costringerti al sorriso – anche se davanti avevi solo deserto e sassi, e pane poco o niente.
I suoi grimaldelli erano proprio le parole, e parole le sue mani da prestigiatore con cui in fondo scriveva il mondo e le cose e i desideri che, lui si immaginava, gli altri avrebbero voluto realizzare.
Mentre sulla banchina della stazione le madri piangevano salutando i figli aggrappati alla tradotta, le ragazze stringevano i fazzoletti umidi di lacrime e a ognuno dei giovani in partenza si aggrappava alla gola un grumo di nostalgia pesante come una roccia, lui era forse l’unico a srotolare un tappeto di saluti allegri verso sua madre, a scardinarle la tristezza dagli occhi obbligandola a sognare per i panorami che le dipingeva, a sorridere di fronte alla descrizione dei luoghi e alle storie che ancora non era partito e già le raccontava.
L’Africa, vista dal loro paesino ai piedi delle Alpi, sembrava una distesa d’oro e d’avventure, regno del possibile e della conquista, dove il puzzo delle osterie, il fiato marcio del lavoro degli ubriachi, il passo pesante del freddo e del gelo non trovavano posto, scacciati da odalische e cammelli, distese di sabbie roventi e finissime, donne e terre di conquista per un impero da dare subito a tutti.
Dalla curva che girava appena dietro la stazione del loro paesino, un treno un giorno portò con sé le vite di ragazzi vestiti in uniforme, fucile in spalla come gli era stato insegnato nelle adunate del sabato fascista, a mezzo tra la guerra e la sagra paesana. Seduti, sdraiati sulle panche, ancora presi tra il dubbio dell’imminente trionfo e la paura sottile della lontananza, all’unisono i giovani soldati rivolsero gli sguardi verso mio padre e a lui, alla sua abilità di prestigiatore, chiesero senza domandarlo di prenderli per mano in quel viaggio verso l’oro e il buio.
Lui sentì su di sé quegli sguardi, sguardi di pietra di gente di campagna, di chi sapeva abitare di fronte ai monti maestosi e duri di quelle parti, prendere vita e sangue dalla terra, dalla pesantezza del fango in inverno e dalla polvere in estate. Gente per lo più schiva, taciturna, che preferiva sotterrare i sogni piuttosto di sbandierare al mondo d’essere viva, che preferiva annegarli nel vino, nella bestemmia, nel legno tagliato con un solo colpo d’accetta. Lui sentì su di sé gli sguardi e capì che in quel vagone, oltre al macchinista che probabilmente sapeva dove andare, l’unico ad avere un’idea dell’Africa che il regime aveva loro regalato era proprio lui, che mai a quell’idea aveva creduto.
Così, tra lo sferragliare d’acciaio e gli scricchiolii del legno delle panche, prese su di sé l’ennesimo dovere del suo potere magico e cominciò a spiegare a quella truppa il modo in cui i berberi cavalcano puledri che fanno innamorare i sassi, e come nel deserto la luna piange di notte per il freddo che la sabbia le rispedisce, dopo che il sole ha cotto ogni respiro. A loro spiegò l’aroma del sandalo, il carcadè, descrisse le case di sabbia e il profilo degli occhi di donne solo da intuire dietro veli leggeri come l’aria.
Dalla stazione sotto le montagne, accompagnati dal rollio dei vagoni e cullati da carovane di storie, i giovani del paesino ai piedi delle Alpi scesero scivolando verso un’Italia che avevano soltanto sentito nominare e loro che mai avevano visto il mare, confusi dallo splendere di un taglio di luna sul Tirreno, nel dormiveglia impastato di parole credettero d’essere ormai in vista della costa d’argento di Tunisi, o su un bastimento alla fonda di Tripoli bel suol d’amore, e ancora in punto di morte, trafitti da una scheggia o squarciati da un ventaglio di mitraglia, avrebbero assaporato come ultimo boccone il gusto salmastro di una distesa d’acqua domestica che in quella notte avevano creduto un esotico paradiso lontano.
Seduto a cavalcioni di una panca, quasi fosse a cassetta di una diligenza da governare, mio padre prese con le sue mani le redini delle paure di quei ragazzi e pur non avendo idea di come fare, pur non sapendo da che parte cominciare, li guidò per tutta la notte e il giorno appresso lungo il cammino che li avrebbe portati quasi tutti alla rovina, coricando le loro ansie sopra immagini colorate, levigando odori, tramutando il sapore aspro del loro vino rosso con i nettari che senz’altro avrebbero assaporato, sdraiandoli accanto alle donne e paragonando leoni a muli, scimmie a cavalli, cammelli e uomini tra loro, uomini e fratelli.
Quella, in fondo, fu la prima grande magia che mio padre seppe regalare loro, accompagnando quel treno fino a che il porto di Napoli non gli si spalancò di fronte con una bellezza che parve a tutti sfrontata, e la vista del cono del Vesuvio, unica cosa che ricordò loro una familiarità appena abbandonata, inquietò gli animi di chi non aveva mai pensato che una montagna si potesse elevare dritta verso il cielo partendo dal muoversi continuo e preoccupante dell’acqua che le stava davanti, una distesa piena di barche, navi, navigli, uomini, cose, in una confusione di luce e di azzurro che tutti chiamavano il mare.

2

Il giorno in cui nacque, mio padre nel mare se la stava dormendo tranquillo, al riparo dentro il ventre di mia nonna, senza nessuna intenzione di uscire nel mondo. A me avrebbe poi raccontato con quel suo fare svagato, come se fosse una cosa naturale, dei ricordi di quando se ne stava arrotolato in quella quiete calda, ad ascoltare i rumori attutiti che venivano da fuori, la voce di violino di sua madre che cantava mentre se ne andava per i campi a spigolare. A sentir lui, persino il sapore dell’attimo d’amore da cui era nato ricordava, un gusto dolce e aspro allo stesso tempo, fatto dei sospiri di una donna ancora ragazzina e dell’ansia imbarazzata di un uomo, il capomastro, che se ne prese la verginità con delicatezza e passione. Un groviglio di respiri, mi raccontò, un calore e un senso di pericolo, piacevole come una corsa a perdifiato lungo una discesa, un tuffo nell’acqua, l’arrivare del sonno dopo la stanchezza. Un languore fortissimo e urgente, spiegava, qualcosa che gli era rimasto appiccicato addosso per tutta la vita, che spesso avrebbe provato al posto della paura, di fronte alle canne spianate del plotone di esecuzione come agli occhi pieni di collera di un’amante tradita. Sosteneva di sentire ancora attorno a sé, anche a distanza di tanti anni, l’abbraccio forte di suo padre che si aggrappava all’amore e l’emozione tremante di sua madre mentre diventava donna, affogata dalla sorpresa e dal piacere: uno slancio, un colpo forte e secco come una fucilata che l’aveva lanciato in quel nido di carne ad aspettar nove mesi per nascere.
E io, bambino, ragazzo, uomo, lo stavo ad ascoltare sforzandomi di immaginare quel momento, mordendomi le labbra dall’invidia e dal rimpianto per non avere nulla di simile con cui affrontare l’imprevedibilità del vivere. E poco mi importava se dalla bocca di mia nonna il racconto di come aveva conosciuto l’amore non coincidesse per nulla con le sensazioni d’ambra e corallo di mio padre, visto che secondo lei quella prima volta era stata un tramestio di baci e toccate consumati in fretta, troppo distratta dalla paura e dall’inesperienza per provare qualsiasi cosa non fosse altro che confusione. Certo il capomastro le piaceva, alto e con quelle mani grandi, gentile nei modi e nelle parole, e ricordando indietro tra la nebbia del tempo, senz’altro doveva averlo amato se al solo suono del suo nome dopo così tanti anni gli occhi le diventavano lucidi e tristi, e la voce le si rompeva in un leggero tremito che era un misto di rabbia e rammarico per tutto quanto la sua scomparsa prematura le aveva impedito di vivere. Ma l’amore, e soprattutto quel sapore che mio padre si ostinava a descrivermi con dovizia di particolari, lampo di luce nel mare della tranquillità in cui nuotava, quell’amore nei racconti di mia nonna non lo sentivo, sommerso forse dal tempo, dal peso delle cose della vita e della solitudine che aveva dovuto affrontare, di tutto quanto lei allontanava da sé con una breve esclamazione piena di dubbio e un gesto veloce della mano, come a scacciare dalla sua vista qualcosa che non meritava attenzione e non aveva importanza per essere rivangato.
Il giorno in cui mio padre nacque, comunque, lui se la stava dormendo tranquillo dentro il riparo di mia nonna, senza nessuna intenzione di uscire fuori nel mondo, e almeno in questo i racconti coincidevano, visto che il tempo canonico del parto era ormai trascorso da un paio di settimane buone e nulla lasciava presagire una nascita. Mia nonna portava quel fardello pesante sbuffando e inarcando la schiena per controbilanciarne il peso, borbottando contro quel pigro mascalzone di un figlio come contro un fastidioso inconveniente, pesante intralcio al suo lavoro di spigolatrice, all’andar per campi a tirare su quello che rimaneva dopo le raccolte, dai carciofini alle carote, ai resti del mais o anche alle tenere cicorie e ad altre erbe buone per le zuppe. Per niente avrebbe rinunciato, lei, al piacere di quel ricercare, dello starsene ore e ore a capo chino, piegata, a scrutare tra l’erba, a rovistare cespi, a rigirare zolle e grumi di terra per costruirsi piano piano un tesoro da regalare al capomastro, spartendolo con lui sulla tavola della cucina sotto forma di minestre, pinzimoni, insalate e conserve.
Dunque anche con quell’imbarazzo che le sfondava i reni, aiutandosi soltanto con un bastone per non stare sempre china, mia nonna se ne andò ugualmente a spigolare, e proprio in mezzo al prato dietro la chiesa un giorno di dicembre inciampò in un cavolo grosso quanto un pallone, che sembrava aspettarla. Lo vide solitario, turgido, luccicare in mezzo alla terra scura del campo e stranamente non pensò a una zuppa ma a un oggetto strano che fosse caduto dal cielo a piantarsi in quell’orto, una stella aperta alla luce del giorno. Un sole. Si avvicinò e rimase a guardare le venature che segnavano le foglie chiuse più bianche, le sfumature di colore e le grandi lame scure aperte come mani attorno alla sfera, qualcosa che possedeva un’armonia e un equilibrio che la mise di buonumore.
Così si scordò per un attimo il fastidio del suo ventre e si inchinò per toccare con la mano quella perfetta scultura e sentirne sui polpastrelli la consistenza di carne. Le sue dita sfiorarono il reticolo di vene, percepirono una materia allo stesso tempo tenera e robusta e lei provò una specie di brivido lungo tutto il corpo, qualcosa che le ricordò un sogno, un luogo che non avrebbe saputo descrivere, un tempo di cui non capì la durata.
Solo riemergendo da quella sorta di stordimento si accorse che mio padre si era svegliato e stava uscendo da lei quasi senza sforzo, dolcemente e tanto di fretta quanto fino ad allora era stato quieto e senza alcuna intenzione di muoversi. Così ebbe appena il tempo di sedersi a terra e già il suo primo figlio protestava la propria nascita con urla e singhiozzi. Si guardò attorno e per un momento si sentì persa, da sola, con quel coso insanguinato tra le gambe, senza nessuno a dirle come fare e a portarle un aiuto. Pensò di mettersi a urlare, ma poi ebbe paura di spaventare il piccino e allora si fece coraggio, si sdraiò completamente sulla terra e lo tirò a sé, portandoselo sul petto.
Fu in quel momento che incrociò gli occhi di suo figlio e vide il suo inizio e la sua fine, vide le donne che lo avrebbero amato e vide i suoi tradimenti, vide la sua vigliaccheria e la generosità infinita delle sue bugie, lo vide partire per la guerra e lo vide tornare, lo vide imbastire i suoi traffici, i trucchi, le malizie, lo vide piangere di rabbia e ridere sorpreso, vide con i suoi occhi l’Africa e il bagliore del deserto, vide queste e mille altre cose e sentì tutta la leggerezza e il peso di avergli dato, insieme, la vita e la morte, tutto quanto ora le stava interamente fra le mani, racchiuso in quel grumo tremante e singhiozzante, sfiorato dalle foglie verdi di un ortaggio meraviglioso.
Tutto attorno era in silenzio. Nessuno pareva essersi accorto di quello che era accaduto. Soltanto il cielo sopra di lei la degnò di attenzione cominciando a lasciar cadere qualche incerto fiocco di neve. Lei strinse ancora più forte a sé quel suo figlio e sorridendo pensò che davvero i bambini nascono sotto i cavoli.

3

Mio padre, a sentir lui, impiegò qualche tempo per sistemarsi dentro il ventre di mia nonna e poi si dette da fare per avvertirla della sua presenza. Lei era infatti poco più di una ragazzina e alle conseguenze dell’amore, per innocenza o per sbadataggine, non dava troppa importanza. I suoi incontri con il capomastro erano fughe dagli occhi indiscreti del paese, lungo i fossi che graffiavano la campagna o, quello che lei preferiva, sulle montagnole di sabbia dei cantieri in cui lui lavorava, a sera, quando anche l’ultimo muratore se n’era andato. Per non destare i sospetti della signora Adelina, sua madre, aveva imparato a nascondere una parte della spigolatura per portarla a casa nei giorni degli incontri con l’amante e avere così il modo e il tempo per quelli che erano, per lei, veri e propri viaggi.
Stesa sull’erba o sulla rena umida che sarebbe diventata presto malta e cemento, mia nonna, più che alla soddisfazione del sesso, amava infatti abbandonarsi all’abbraccio del capomastro e lasciarsi trasportare in una sorta di volo, lontano dalla realtà dura delle ore quotidiane, di una vita nella quale l’unica soddisfazione era il vagabondare in cerca di spigolature. Così come nell’amore, solo nelle ore passate a scandagliare i campi lei riusciva a trovare un tempo tutto suo, da occupare cantando canzoni e ripetendo filastrocche che le tenevano compagnia e le regalavano buonumore. Di fronte allo spazio aperto di un prato, di una vasta campagna da guardare come si guarda il mare prima di affrontarlo in viaggio, mia nonna ritrovava una sua propria contentezza, un misto di tenera malinconia e di affetto che per lei significava il ricordo di suo padre Mondo, il marinaio, una presenza altalenante e sorprendente come un singhiozzo, un viso scavato dal sole e dall’acqua, un vento che compariva all’improvviso tra le mura domestiche per portare scompiglio, gioia e racconti, e una parvenza d’amore stretto tra gli abbracci della signora Adelina e quelli suoi, di figlia sempre in attesa: compariva e il tempo ordinato delle ore casalinghe veniva stravolto, spezzato, squassato proprio come da un singhiozzo, per poi acquietarsi all’improvviso in una dolorosa bonaccia al suo andarsene, una mattina, il sacco sulla spalla, lasciando in casa l’ingombrante presenza di un mare di silenzio.
Il volto di Mondo era solcato da segni profondi scavati dal sole, dall’acqua salata e dalle miglia che egli raccontava di aver consumato sopra gli oceani della terra, verso luoghi e destinazioni che non riuscivano a stare dentro le cataste di parole con cui occupava le sere nei resoconti dei suoi viaggi. Quel volto, per lei, era la carta geografica del mondo e il nome con cui suo padre era conosciuto in tutto il paese, fin oltre la provinciale verso la città, più che il diminutivo del suo anagrafico Edmondo, era invece l’evidente conclamazione di quello che egli era e conteneva.
Non solo, poi. Ancora bambina, seduta ai piedi di quell’uomo che profumava di petrolio e di salsedine, lei stava ad ascoltarlo mentre doppiava Capo Horn o si sfiniva, le lacrime agli occhi, nel tentativo di portare tra le ondulazioni di colline dolci come carezze la forza e l’orrore di muraglie di acqua, di flutti che assassinavano gli uomini e in un baleno cancellavano dalla mente l’idea di essere in grado di governare le proprie vite gettate in mezzo alle onde; e come di fronte a un mago stregone, lei lo guardava arrotolare corde e sartiami in nodi che egli illustrava indicandone nomi dai suoni magnifici e misteriosi. Erano Gasse d’Amante e Bocche di Lupo, incroci di funi che sapevano tenere fermi insieme pali e paranchi, gallocce e ormeggi, solidi come pugni eppure leggeri come sogni, nodi di bitta e corde doppie capaci di reggere la forza di un tifone ma anche di sciogliersi al tirare gentile di un bambino.
Seduta ai suoi piedi guardava quei grumi di canapa nascere dentro le mani del padre, ognuno con un proprio nome che, alla sua mente di piccina, richiamava luoghi e persone esotiche e lontane, campi di fiori insoliti e paesaggi stranieri: Guida, Guida doppio, nodo di Prusik, Inglese, Pugno di Scimmia, Margherita, Croce e Bandiera.
Gli occhi di mia nonna, dunque, sognavano affascinati dai movimenti rapidi e leggeri delle mani di Mondo, guardavano i nodi e dentro i nodi vedevano spazi, vedevano la forza del vento e quella del sole, lo schiaffo dell’acqua salata che taglia come un coltello malese, vedevano onde, movimento e gioco, qualcosa che non poteva essere contenuto nell’orizzonte pur largo della pianura dietro il paese, nel salire lieve delle colline di creta segnate dal profilo lontano della cava.
Innamorata dei nodi del padre, mia nonna trasmise così al proprio figlio la magica capacità di contenere dentro un’annodatura il destino della vita, di essere in grado di tenere insieme, con l’arte di dar ordine a un groviglio, l’amore e l’odio, il tradimento e la fedeltà e l’orgoglio e la vigliaccheria e la verità e l’apparenza. Di essere fissità e fuga. Dentro la tranquillità del suo ventre, durante i mesi di cui la vita ha bisogno per annodare compiutamente la carne e il sangue nella figura di un uomo, mio padre ricevette in quel modo il genio dell’inganno, la capacità di unire e sciogliere qualsiasi legaccio e costrizione, l’abilità di illudere e illudersi di essere libero da ogni prigione.
Persa nei propri sogni aggrappati all’amore del capomastro, mia nonna dunque generò suo figlio distrattamente, e lui, al riparo del ventre, si prese carico di avvertirla della propria presenza con salti e capriole, con ripetute scariche di calci che la svegliarono nel cuore della notte e, nell’inesperienza della...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. UN MARE DI NULLA
  4. 1
  5. 2
  6. 3
  7. 4
  8. 5
  9. 6
  10. 7
  11. 8
  12. 9
  13. 10
  14. 11
  15. 12
  16. 13
  17. 14
  18. 15
  19. 16
  20. 17
  21. 18
  22. 19
  23. 20
  24. 21
  25. 22
  26. Copyright