Le avventure di Augie March
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Le avventure di Augie March

  1. 644 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Le avventure di Augie March

Informazioni su questo libro

Pubblicato nel 1953, Le avventure di Augie March rappresenta una delle vette della produzione romanzesca di Saul Bellow, la sua prima opera importante: un romanzo di formazione dalla forte componente autobiografica, popolato da una miriade di personaggi pittoreschi colti nel loro incessante movimento, in cui rivivono echi della tipica narrazione americana, soprattutto il tema twainiano della fuga, delle peripezie e dell'iniziazione dell'eterno adolescente. Ambientato in una brulicante, indimenticabile Chicago degli anni Venti, il racconto segue le avventure del giovane Augie, che, costretto ai margini della società, si ingegna in tutti i modi a sopravvivere passando da un mestiere all'altro. Con la partenza per il Messico, spinto da una amante che lo convince ad accompagnarla ad addestrare aquile, inizia la sua picaresca avventura nel mondo; un viaggio rivelatore, fatto di mille incontri inaspettati, in cui anche le vicende belliche diventano occasione per scoprire le verità più riposte dell'esistenza umana.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2014
Print ISBN
9788804567097
eBook ISBN
9788852056482

1

Sono americano, nato a Chicago – Chicago, quella cupa città – e affronto le cose come ho imparato a fare, liberamente, e narrerò questa storia a modo mio: chi bussa per primo sarà il primo a entrare; ora un colpo innocente, ora un po’ meno. Ma il carattere di un uomo è il suo destino, dice Eraclito, e alla fin fine non è possibile mascherare la natura dei colpi né foderando la porta di materiale isolante né rivestendo di guanti le nocche.
Tutti sanno che la soppressione dei fatti va a scapito della chiarezza e della precisione; se nascondi una cosa, nascondi anche quella che viene dopo.
I miei genitori non contarono molto, per me, anche se a mia madre volevo bene. Era una donna semplice, e quello che ho appreso da lei non è tanto quello che insegnava, quanto ciò che s’impara dall’esempio pratico. Non aveva molto da insegnare, povera donna. I miei fratelli e io le eravamo molto affezionati. Parlo a nome di tutti e due; per il maggiore so di non sbagliarmi; per il più piccolo, Georgie, devo rispondere io – era nato deficiente – ma non c’è bisogno di tirare a indovinare, perché aveva una canzoncina che cantava mentre correva, strascicando i piedi nel suo rigido trotto da idiota, su e giù lungo la rete metallica del cortile:
Georgie Mahchy, Augie, Simey
Winnie Mahchy, tutti voglion bene a Mamma.
Aveva ragione, fatta eccezione per Winnie, il barboncino di Nonna Lausch, una vecchia cagna bolsa e ipernutrita. Mamma era la serva di Winnie, come Winnie lo era di Nonna Lausch. Ansimante e spetezzante, giaceva accanto allo sgabello della vecchia signora su un cuscino col ricamo di un berbero che puntava il fucile contro un leone. Winnie era proprietà privata della Nonna, apparteneva alla sua corte; noi eravamo i sudditi, e Mamma in particolar modo. Mamma passava alla Nonna il piatto del cane, e Winnie riceveva il suo cibo ai piedi della vecchia signora, dalle mani della vecchia signora. Mani e piedi erano piccoli; sulle gambe la Nonna indossava delle calze increspate di filo di Scozia, e le sue pantofole erano grigie – ah, il grigio di quel feltro, quel dispotico grigiore sulle anime –, grigie con nastri rosa. Mamma, invece, aveva piedi grandi, e in casa portava scarpe da uomo, di solito senza lacci, e un fazzoletto o una cuffia di cotone che faceva pensare alla forma, o alla caricatura, di un cervello. Era lunga e mansueta, con gli occhi tondi come quelli di Georgie: occhi tondi verdi e dolci, e una dolce freschezza di colori sul viso cavallino. Aveva le mani arrossate dal lavoro, le restavano pochissimi denti – per rispondere ai colpi come vengono – e lei e Simon portavano le stesse giacche di maglia sfilacciate. Oltre ad avere gli occhi tondi, Mamma portava degli occhiali circolari che andavo a prendere con lei al dispensario gratuito di Harrison Street. La mia parte era quella del bugiardo, ammaestrato da Nonna Lausch. Ora so che non era poi così indispensabile mentire, ma allora ne erano tutti convinti, e in particolare Nonna Lausch, che era uno di quei Machiavelli dei bassifondi di cui furono pieni i miei anni verdi. Così la Nonna, che aveva preparato la storiella prima che noi uscissimo di casa e che doveva averci messo delle ore a concertarla in pensieri e parole, distesa nella sua gelida stanzetta e rannicchiata sotto il piumino, me la insegnava a colazione. Perché pensava che Mamma non fosse abbastanza furba per arrangiarsi da sola. Che magari non fosse necessario essere furbi era un’idea che nemmeno ci sfiorava; la nostra era una lotta. Al dispensario avrebbero voluto sapere per quale motivo le Opere Pie non pagavano gli occhiali. Dunque non si doveva far parola delle Opere Pie, ma raccontare che qualche volta arrivavano dei soldi da mio padre e qualche volta no, e che Mamma aveva dei pensionanti. Il che, in un certo qual modo arzigogolato e capzioso, ignorando e omettendo certi fatti di ordine generale, era vero. Era abbastanza vero per loro, e a nove anni io ero già perfettamente in grado di rendermene conto. Più di mio fratello Simon, che era troppo brusco per queste manovre e che per giunta si era fatto, sui libri, un concetto dell’onore degno di uno scolaretto inglese. Tom Brown’s Schooldays esercitò su di noi per molti anni un’influenza che non potevamo permetterci.
Simon era un ragazzo biondo con zigomi grossi e grandi occhi grigi e aveva le braccia di un giocatore di cricket: mi baso sulle illustrazioni; noi non giocavamo altro che a softball. A contrastare lo stile britannico c’era la sua ira patriottica nei confronti di Giorgio III. A quei tempi il sindaco di Chicago aveva ordinato alle scuole di procurarsi dei libri di storia che trattassero il re con maggiore asprezza, e Simon ce l’aveva a morte con Cornwallis. Io ammiravo questo ardore patriottico, il suo terribile odio personale verso il generale inglese e la sua soddisfazione per la resa di Yorktown, che lo animava spesso a pranzo mentre mangiavamo i nostri panini con la mortadella. A mezzogiorno la Nonna desinava con un pezzo di pollo lesso, e qualche volta c’era il magone per il piccolo e ispido Georgie, che ne andava pazzo, e che soffiava su quella carne grinzosa più per coccolarla che per raffreddarla. Ma l’orgoglio di Simon, quest’orgoglio marziale e intransigente, lo rendeva inadatto all’arduo compito da portare a termine al dispensario; Simon era troppo sprezzante per dire bugie, e anzi c’era il rischio che si mettesse a tuonare contro tutti. Su di me, invece, si poteva contare, perché io mi divertivo. Facevo volentieri un po’ di strategia. E avevo i miei entusiasmi; quello di Simon, anche se Cornwallis non mi aveva mai fatto molta impressione; e quello di Nonna Lausch. Quanto alla sincerità delle dichiarazioni che dovevo fare, be’, che avessimo un pensionante era un fatto. Il nostro pensionante era Nonna Lausch, che con noi non aveva alcuna parentela. Era mantenuta da due figli, uno a Cincinnati e uno a Racine, nel Wisconsin. Le nuore non la volevano e lei, vedova di un importante uomo d’affari di Odessa – una divinità, per noi: calvo, baffuto, con un grosso naso, strizzato nella pesante armatura di una redingote, con un panciotto a doppiopetto, poderosamente abbottonato (la sua fotografia azzurrognola, ingrandita e ritoccata dal signor Lulov, appesa in salotto, era riflessa tra le colonne della specchiera, con la cupola della stufa che cominciava dove finiva il busto) –, preferiva abitare con noi perché da tantissimi anni era abituata a dirigere una casa, a comandare, governare, amministrare, progettare, architettare e intrigare in tutte le lingue. Oltre al russo, al polacco e allo yiddish, sosteneva di conoscere il francese e il tedesco; e chi, se non il signor Lulov, il maestro del ritocco di Division Street, avrebbe potuto verificare la sua pretesa di conoscere il francese? Era un imperturbabile fanfarone pure lui, quel valoroso bevitore di tè dalla tripla spina dorsale. Ma aveva fatto il tassista a Parigi, una volta, e se su questo punto diceva la verità era anche possibile che conoscesse il francese, tra le altre cose che sapeva fare, come suonarsi motivetti sui denti con la matita o cantare e tenere il tempo con una manciata di monete che faceva tintinnare tamburellando col pollice sul tavolo, o giocare a scacchi.
Fossero gli scacchi o il klabyasch, Nonna Lausch giocava come Tamerlano, con una sorniona asprezza palatale e lampi dorati negli occhi. A klabyasch giocava col signor Kreindl, uno dei nostri vicini che le aveva insegnato le regole. Kreindl era un uomo massiccio con le mani tozze e un gran pancione, che schiaffeggiava il tavolo con quelle mani dure buttando giù le carte e gridando: «Shtoch! Yasch! Menél! Klabyasch!». La Nonna lo guardava sardonicamente. Spesso diceva, quando era andato via: «Se hai un amico ungherese non ti occorre un nemico». Ma non c’era nulla di ostile nel signor Kreindl. Aveva solo l’aria minacciosa, qualche volta, per via di quegli urli da sergente istruttore. Era stato un coscritto nell’esercito austroungarico e gli era rimasto qualcosa di militaresco: un collo che si era teso nello sforzo di spingere le ruote dei pezzi di artiglieria, un rosso da veterano sulla faccia, una grinta poderosa nelle mascelle e nei denti d’oro, occhi verdi e strabici e capelli morbidi e corti; una figura napoleonica, nel complesso. A parte i piedi storti, incarnava l’ideale di Federico il Grande, ma gli mancavano una trentina di centimetri alla statura richiesta per i granatieri della Guardia. Aveva un’imperiosa aria d’indipendenza. Lui e la moglie – una donna tanto quieta e modesta per i vicini quanto violentemente litigiosa a casa sua – e il figlio, che studiava da dentista, abitavano sul davanti, in quello che la gente chiamava il «seminterrato inglese». Il figlio, Kotzie, la sera lavorava nel drugstore all’angolo, e andava a scuola dalle parti dell’Ospedale di Contea, ed era stato lui a dire alla Nonna del dispensario gratuito. O meglio, la vecchia lo aveva mandato a chiamare per scoprire cosa si poteva tirar fuori da quelle istituzioni statali e municipali. Mandava sempre a chiamare la gente, il macellaio, il droghiere, il fruttivendolo, e li riceveva in cucina per spiegare che ai March bisognava fare lo sconto. Mamma, di solito, doveva limitarsi ad assistere. La vecchia diceva loro: «Vedete com’è: devo dire di più? Manca un uomo in questa casa, e ci sono dei bambini da tirar su». Questo era il suo tema più frequente. Quando Lubin, l’assistente sociale, venne a trovarla e si sedette in cucina, paterno, pelato, con gli occhiali d’oro, il peso comodamente distribuito sulla seggiola, la bocca paziente, lei gli saltò addosso: «Come crede che si tirino su i bambini?». E intanto lui ascoltava, cercando di non scomodarsi ma assumendo a poco a poco l’aria di un uomo deciso a non farsi scappare di mano una cavalletta. «Be’, mia cara, la signora March potrebbe aumentarle l’affitto» disse. Spesso lei doveva avergli risposto – poiché c’erano dei momenti in cui ci mandava tutti fuori per restare sola con lui – più o meno così: «Ma lo sa cosa succederebbe senza di me? Sono io che tengo insieme questa famiglia, e lei mi dovrebbe ringraziare». Sono sicuro che diceva anche questo: «E quando morirò, signor Lubin, vedrà cosa si troverà sul groppone». Ne sono sicuro al cento per cento. A noi non veniva mai detto niente che, lasciandocene intravedere la fine, potesse indebolire la sua tirannia. Inoltre, udire una cosa simile ci avrebbe sconvolto, e lei, con la miracolosa conoscenza che aveva di noi, capace com’era di avvicinarsi ai nostri pensieri – sovrana che sapeva esattamente quali erano le proporzioni di amore, rispetto e timore nei suoi sudditi – capiva che per noi sarebbe stato un colpo troppo grande. Ma a Lubin, perché quella era la sua linea, e anche perché doveva esprimere sentimenti che certamente aveva, a Lubin doveva averlo detto. Lui mostrava, quando era con lei, la stanca pazienza di chi pensa tra sé e sé “liberatemi da questi clienti”, anche se cercava di far credere di avere il controllo della situazione. Teneva la bombetta tra le cosce (i suoi completi dai calzoni sempre troppo striminziti rivelavano calzini bianchi e scarpe a punta quadra, grinzose, nere e gonfie nella parte anteriore) e guardava dentro il cappello come se si stesse domandando se era il caso di lasciare quella cavalletta libera di correre un pochino sulla fodera.
«Pago quello che posso permettermi» diceva lei.
Tirava fuori il portasigarette da sotto lo scialle, tagliava a metà una Murad con le forbici da lavoro e prendeva il bocchino. Questo, in un’epoca in cui le donne ancora non fumavano. Tranne l’“intellighentsia”: termine che applicava a se stessa. Col bocchino tra le piccole gengive scure da cui usciva tutta la sua astuzia, malizia e autorità, aveva le migliori ispirazioni strategiche. Era grinzosa come un vecchio sacchetto di carta, un autocrate gesuitico e con la pelle dura, una bolscevica, un vecchio sparviero dagli artigli aguzzi, con i grigi piedini adorni di nastri immobili sul poggiapiedi-cassetta per le scarpe fabbricato da Simon a scuola durante le lezioni di lavoro manuale, con la vecchia Winnie, sudicia e lanosa, il cui puzzo riempiva l’appartamento, sul cuscino accanto a lei. Che l’intelligenza e l’incontentabilità non vadano necessariamente insieme, non fu dalla vecchia che lo appresi. Su ogni cosa lei trovava da ridire. Kreindl, per esempio, sul quale potevamo contare, Kreindl che portava su il carbone quando Mamma stava poco bene e che ordinava a Kotzie di non farci pagare le ricette, lei lo chiamava «quella nullità», oppure «il maiale ungherese». Kotzie lo chiamava «la mela cotta»; chiamava la signora Kreindl «l’oca segreta», Lubin «il figlio del ciabattino», il dentista «il macellaio», il macellaio «il truffatore timido». Non poteva soffrire il dentista, che aveva cercato invano, parecchie volte, di metterle la dentiera. Quando prendeva i calchi lo accusava di bruciarle le gengive, ma il fatto è che non lo lasciava lavorare. Assistetti a tutta la scena, un giorno: lo stolido, quadrato dottor Wernick, con due braccia che avrebbero potuto tenere a bada un orso, pieno di ansiose premure per lei, concentrato, attento ai suoi strilli soffocati e rassegnato ai suoi graffi. Vederla dibattersi a quel modo non mi piacque, e anche al dottor Wernick seccava la mia presenza, lo so, ma Simon o io dovevamo scortarla ovunque andasse. Qui, soprattutto, le occorreva un testimone della crudeltà e dell’imperizia di Wernick, oltre a una spalla cui appoggiarsi quando tornava a casa barcollando. A dieci anni ero già alto quasi come lei e abbastanza grosso per reggere il suo scarso peso.
«Hai visto come mi metteva le zampe sulla faccia, che non riuscivo quasi a respirare?» diceva. «Dio l’ha creato per fare il macellaio. Perché è diventato dentista? Ha le mani troppo pesanti. Il tocco è tutto, per un dentista. Se non ha le mani a posto, non dovrebbero lasciarlo esercitare. Ma sua moglie ha sgobbato per farlo studiare da dentista. E così io devo andare a farmi bruciare da lui.»
Noi dovevamo andare al dispensario – che era come il sogno di una moltitudine di poltrone da dentista, centinaia e centinaia in uno spazio grande come una piazza d’armi, e bacinelle verdi con disegni molati di grappoli d’uva, trapani sospesi a zigzag come zampe d’insetti e fiammelle di gas sui piatti girevoli di porcellana –, un tonante Averno, in Harrison Street, di palazzi municipali e pesanti tram rossi con reti metalliche ai finestrini e gli imponenti baffoni di ferro dei paraurti davanti e dietro. Passavano lenti e sferraglianti, e le scatole dei freni ansimavano nel bruno fangoso di un pomeriggio invernale o nel bruno della pietra nuda di un pomeriggio d’estate, insaporito dalla cenere, dal fumo e dalla polvere della pianura, con lunghe soste davanti agli ospedali per far scendere zoppi, mutilati, gobbi, gente col bastone, gente con le stampelle, malati d’occhi e di denti, e tutti gli altri.
Così, prima di andare a prendere gli occhiali, ricevevo sempre istruzioni dalla vecchia e dovevo sedermi ad ascoltare con la massima attenzione. Era necessaria anche la presenza di mia madre, perché non dovevano esserci equivoci. A lei bisognava insegnare a tenere la bocca chiusa. «Ricordati, Rebecca» ripeteva la Nonna per l’ennesima volta, «lascia che risponda a tutto lui.» Al che Mamma era fin troppo obbediente per dire di sì, e si limitava a stare là seduta intrecciando le lunghe dita delle mani sull’iridescenza da scarabeo dell’abito che la vecchia le aveva fatto mettere. Sanissima e uniforme, la sua complessione; nessuno di noi aveva ereditato da lei questo colorito così vivo, né la forma del naso che, con le narici rivolte all’insù, mostrava un po’ del setto. «Tu non t’immischiare. Se ti chiedono qualcosa, guarda Augie in questo modo.» E le mostrava come doveva girarsi verso di me, con una straordinaria precisione, fosse stata capace, appena appena, di perdere l’abituale maestà. «Tu non dire niente. Rispondi solo alle domande» diceva a me. Mia madre ci teneva che io fossi rispettabile e fedele. Simon e io eravamo i suoi miracoli o accidenti; era Georgie la vera opera sua, con la quale tornava al suo destino dopo felici e immeritati successi. «Augie, ascolta la Nonna. Senti cosa dice»: ecco tutto ciò che si azzardava a dire quando la vecchia svelava il suo piano.
«Se ti chiedono: “Dov’è tuo padre?” rispondi: “Non lo so, signorina”. Non importa quanti anni ha, non dimenticare di dire “signorina”. Se vuol sapere dov’era l’ultima volta che hai avuto sue notizie, devi dirle che l’ultima volta che ha spedito un vaglia è stato circa due anni fa da Buffalo, nello Stato di New York. Non dire mai niente delle Opere Pie. Delle Opere Pie non devi parlare, capito? Mai. Se ti chiede quanto è l’affitto, dille diciotto dollari. Se ti chiede da dove vengono i soldi, dille che avete dei pensionanti. Quanti? Due pensionanti. Rispondi, adesso, quanto è l’affitto?»
«Diciotto dollari.»
«E quanti pensionanti?»
«Due.»
«E quanto pagano?»
«Quanto devo dire?»
«Otto dollari la settimana per uno.»
«Otto dollari.»
«Per questo non puoi andare da un medico privato, se prendi sessantaquattro dollari al mese. Solo le gocce per gli occhi me ne sono costati cinque, quando ci sono andata io, e me li hanno bruciati. E questi occhiali» – tamburellò sull’astuccio – «costano dieci dollari di montatura e quindici di lenti.»
Di mio padre si parlava, per necessità, solo in queste occasioni. Io sostenevo di ricordarmelo; Simon sosteneva che non me lo ricordassi, e aveva ragione. Mi piaceva immaginarlo.
«Portava una divisa» dicevo. «Certo che me lo ricordo. Era un soldato.»
«Un corno. Tu non sai niente.»
«Forse un marinaio.»
«Un corno. Guidava il furgone della lavanderia dei Fratelli Hall, in Marshfield, ecco quello che faceva. Sono stato io a dire che portava una divisa. Quello che vede, la scimmia fa; quello che sente, la scimmia dice.» Tra noi, la scimmia era alla base di molte riflessioni. Sulla credenza, sul centrino ricamato del Turkestan, con gli occhi, gli orecchi e la bocca tappata, c’erano le tre scimmiette “non vedo, non sento, non parlo”, una casalinga trinità di basso rango. Il vantaggio di avere degli dèi di umili origini è che se ne possono pronunciare i nomi come e quanto si vuole. «Silenzio in aula, la scimmia vuole parlare; parla, scimmia, parla.» «La scimmia e il bambù giocavano sull’erba…» Ma le scimmie potevano essere potenti, e anche incutere soggezione, ed erano acuti critici della società quando la vecchia, come un gran lama – perché per me lei è orientale, in fondo –, puntava il dito sul bruno terzetto accovacciato, con le bocche e le narici disegnate in un vivacissimo rosso sangue, e con saggezza profonda, mentre la sua scontrosità raggiungeva finalmente la grandezza, diceva: «Nessuno vi chiede di amare il mondo intero, ma solo di essere onesti, ehrlich. Non parlate troppo. Più amerete la gente, più vi confonderà. Un bambino ama, un adulto rispetta. Il rispetto è meglio dell’amore. E il rispetto è quello, la scimmia di mezzo». Non ci passò mai per la testa che lei stessa peccava malignamente contro quel convulso animaletto che si copriva le labbra con le mani; ma l’idea di criticarla non ci sfiorò mai, tanto meno quando la risonanza di un grande principio riempiva tutta la cucina.
Ci faceva le sue prediche da sopra la testa del povero Georgie. Lui baciava la cagna. Quella rissosa dama di compagnia della vecchia signora, una volta. Ora una bisbetica sonnolenta e sospirosa, degno oggetto di rispetto per i suoi anni di onesto, ma non proprio affezionato, servizio. Eppure Georgie le voleva bene, e voleva bene anche alla Nonna, che baciava sulla manica, sul ginocchio, stringendo braccio o ginocchio con ambo le mani e sporgendo il labbro inferiore, timido, goffo, affettuoso, dolce o diligente mentre piegava la schiena sottile, con la camiciola che gli cadeva da tutte le parti, i capelli biancastri irti e fitti come il riccio di una castagna o un girasole che ha perduto tutti i semi. La vecchia signora si lasciava abbracciare e gli parlava così: «Ehi, tu, ragazzo, bravo junge, tu vuoi bene alla vecchia Nonna...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Saul Bellow
  4. Bibliografia
  5. LE AVVENTURE DI AUGIE MARCH
  6. 1
  7. 2
  8. 3
  9. 4
  10. 5
  11. 6
  12. 7
  13. 8
  14. 9
  15. 10
  16. 11
  17. 12
  18. 13
  19. 14
  20. 15
  21. 16
  22. 17
  23. 18
  24. 19
  25. 20
  26. 21
  27. 22
  28. 23
  29. 24
  30. 25
  31. 26
  32. Copyright