Rimase a lungo disteso a quel modo. Di tanto in tanto quasi si destava, e in quegli attimi si rendeva conto che era ormai notte da un pezzo, ma non gli veniva nemmeno in mente di alzarsi. Finalmente s’accorse che ormai cominciava a far giorno. Era disteso supino sul divano, ancora intorpidito dal recente assopimento. Fu bruscamente raggiunto da grida tremende, disperate, che provenivano dalla strada, e che egli d’altronde udiva ogni notte sotto la sua finestra, verso le due. Adesso erano stati questi urli a destarlo. “Ah! Ecco che gli ubriachi stanno già uscendo dalle bettole” pensò “sono le due” e all’improvviso saltò in piedi, proprio come se qualcuno l’avesse strappato via dal divano. “Come! Già le due!” Sedette sul divano, e allora ricordò tutto quanto! All’improvviso, in un attimo, ricordò tutto quanto!
In un primo momento pensò di impazzire. Un freddo tremendo si impadronì di lui; ma il freddo era causato anche dalla febbre, che da un pezzo l’aveva assalito nel sonno. Adesso, invece, all’improvviso fu colto da un tale brivido, che per poco non gli saltarono via i denti di bocca, e cominciò a tremare tutto. Aprì la porta e si mise in ascolto: la casa era completamente immersa nel sonno. Con stupore si guardò tutt’attorno, nella stanza, e non riuscì in alcun modo a capire come avesse potuto, il giorno precedente, entrare senza richiudere la porta col gancio, e buttarsi sul divano non solo senza spogliarsi, ma persino col cappello in testa, che poi era scivolato e adesso giaceva sul pavimento, accanto al cuscino. “Se fosse entrato qualcuno, che avrebbe potuto pensare? Che ero ubriaco, ma…” Si precipitò alla finestrella. Di luce ce n’era a sufficienza, e in tutta fretta egli si esaminò dalla testa ai piedi, compresi tutti gli indumenti, per vedere che non ci fossero tracce. Ma a quel modo non era possibile venire a capo di nulla: tremando per i brividi, si levò ogni cosa di dosso e la passò nuovamente in esame. Rivoltò ogni indumento, fino all’ultimo filo e all’ultimo brandello, e, non fidandosi di sé, ripeté l’esame tre volte.
Ma, a quanto pareva, non c’era nulla, non c’era alcuna traccia; solo nel punto in cui i pantaloni sbrindellati pendevano a frangia, proprio su questa frangia erano rimaste dense tracce di sangue raggrumato. Egli afferrò il coltello a serramanico e tagliò via la frangia. Sembrava che non ci fosse null’altro. All’improvviso ricordò che il borsellino e le cose che aveva portato via dal bauletto della vecchia, fino a quel momento erano ancora tutte nelle sue tasche! Fino a quel momento non aveva nemmeno pensato di tirarle fuori e nasconderle. Non se ne era rammentato nemmeno adesso, mentre esaminava il vestito! Com’era possibile? In un batter d’occhio si precipitò a tirarle fuori, e le buttò sul tavolo. Dopo aver tirato fuori tutto e aver persino rovesciato le tasche per accertarsi che non vi fosse rimasto qualcos’altro, trasportò l’intero mucchio in un angolo. Lì, proprio nell’angolo, in basso, c’erano i resti della tappezzeria strappati dalla parete; immediatamente s’affrettò a cacciar dentro tutto nel buco sotto la carta: “C’è entrato! Adesso è tutto fuori dai piedi, anche il borsellino!” pensò con gioia, sollevandosi e fissando ottusamente l’angolo, dove il buco s’era come un poco allargato. Improvvisamente trasalì tutto dal terrore: “Dio mio” sussurrò in preda alla disperazione “che mi succede? Come posso pensare di aver nascosto qualcosa a quel modo? È forse così che si nasconde la roba?”.
A dire il vero non aveva calcolato che potessero esserci degli oggetti; pensava che ci sarebbero stati soltanto soldi, e per questo non aveva preparato in anticipo un posto adatto. “Ma adesso, adesso che motivo ho d’essere allegro?” pensava. “È forse così che si nasconde la roba? La ragione mi sta davvero abbandonando!” Spossato sedette sul divano, e di nuovo un brivido insopportabile ricominciò a scuoterlo. Macchinalmente tirò a sé il vecchio cappotto invernale da studente, che giaceva accanto alla sedia, caldo ma ridotto in brandelli, ci si avvolse dentro e subito il sonno e il delirio ebbero il sopravvento su di lui. Si assopì.
Non più tardi di cinque minuti dopo saltò nuovamente in piedi e sull’istante, furioso, si precipitò di nuovo verso il suo vestito. “Come ho potuto addormentarmi un’altra volta quando non è ancora stato fatto nulla! Infatti, è proprio così: non ho ancora levato il cappio da sotto l’ascella! Me ne sono dimenticato, mi sono dimenticato di una cosa simile! Di una prova del genere!” Strappò via il cappio e in tutta fretta lo lacerò in tanti pezzi, ficcandoli poi sotto il cuscino, tra la biancheria. “Dei pezzi di tela strappata non desteranno in alcun caso dei sospetti: credo proprio che sia così, sì, che sia così!” ripeté, fermo in mezzo alla camera, e con un’attenzione tesa fino alla sofferenza si mise nuovamente a guardarsi attorno, sul pavimento e dappertutto, per vedere se non aveva per caso dimenticato qualche cosa. La certezza che tutto, persino la memoria, persino la semplice capacità di comprendere le cose, l’avrebbero presto abbandonato, cominciava a tormentarlo in modo intollerabile. “Possibile che stia già cominciando, possibile che sia già la punizione che incombe? Ecco, ecco, è proprio così!” E in effetti i ritagli della frangia che aveva tagliato via dai pantaloni se ne stavano lì sul pavimento, in mezzo alla stanza, perché li vedesse il primo venuto! “Ma cos’è che mi sta succedendo?” gridò nuovamente, come smarrito.
A quel punto gli passò per la testa uno strano pensiero; che, forse, tutto il suo vestito era insanguinato, che, forse, di macchie ce n’erano molte, solo che lui non le vedeva, non le notava, perché la sua capacità di capire le cose era indebolita, era come offuscata… l’intelletto era ottenebrato… All’improvviso ricordò che anche sul borsellino dovevano esserci delle tracce. “Perbacco! Allora anche nella tasca deve esserci del sangue, perché io mi sono ficcato in tasca il borsellino ancora umido!” Sull’istante rovesciò la tasca e – era proprio così – sulla fodera della tasca c’erano delle tracce, delle macchie! “Dunque la ragione non mi ha ancora abbandonato del tutto, dunque c’è ancora una certa comprensione delle cose, e la memoria, se io stesso mi sono accorto dell’errore e ho saputo correggerlo!” pensò con esultanza, riempiendosi i polmoni con un respiro profondo e gioioso “Si tratta semplicemente di un indebolimento da febbre, del delirio di un momento” e strappò via tutta la fodera della tasca sinistra dei pantaloni. In quell’istante un raggio di sole illuminò il suo stivale sinistro: sulla calza, che sporgeva dallo stivale, sembravano esserci dei segni. Si levò lo stivale: “Effettivamente ci sono dei segni! Tutto il bordo della calza è imbevuto di sangue” imprudentemente doveva essere andato a finire col piede in quella pozza… “Ma adesso che me ne faccio di questa roba? Dove vado a ficcare questa calza, la frangia, la tasca?”
Raccolse il tutto in una mano e rimase fermo in mezzo alla camera. “Nella stufa? Ma è proprio nella stufa che vanno subito a rovistare. Bruciarli? Sì, ma come? Non ci sono nemmeno i fiammiferi. No, meglio andare da qualche parte e buttar via tutto. Sì! La cosa migliore è buttarli via!” ripeté, tornando a sedere sul divano “e adesso, in questo stesso istante, senza perder tempo!…” Ma invece di farlo, la testa gli si piegò nuovamente sul cuscino; di nuovo l’agghiacciò quel brivido intollerabile; di nuovo si tirò addosso il cappotto. E a lungo, per alcune ore, continuò a essere assalito a ondate successive dal pensiero che “subito, senza perder tempo, doveva andare da qualche parte e buttar via tutto quanto, per levarsi tutto dai piedi, in fretta, in fretta!”. Tentò di sollevarsi dal divano alcune volte, voleva alzarsi, ma non ci riusciva. Lo svegliò definitivamente un colpo forte alla porta.
«Su, apri, sei vivo o morto? E continua a dormirsela!» gridava Nastas’ja, picchiando alla porta col pugno. «Se la dorme per giornate intere, come un cane! Ed è proprio un cane davvero! Apri, dunque. Sono le undici.»
«Ma forse non è in casa!» disse una voce maschile.
“Perbacco! È la voce del portinaio… Cosa vuole?”
Saltò su e sedette sul divano. Il cuore gli batteva al punto da fargli male.
«E chi è che ha chiuso col gancio?» replicò Nastas’ja. «Ma guarda, ha cominciato a chiudersi dentro! Ha paura che lo portino via? Apri, zucca vuota, svegliati!»
“Che vogliono? Perché il portinaio? Sanno tutto. Devo opporre resistenza o aprire? Ma che vada tutto in malora…”
Si sollevò, si piegò in avanti e tolse il gancio.
L’intera stanza aveva una dimensione tale che era possibile levare il gancio senza alzarsi dal letto.
Era proprio così: si trattava del portinaio e di Nastas’ja.
Nastas’ja lo guardò in modo strano. Egli guardava il portinaio con aria insolente e disperata. Questi in silenzio gli porse un pezzo di carta grigio, piegato in due, sigillato con della ceralacca color verde bottiglia.
«Una citazione, dall’ufficio» proferì, consegnandogli la carta.
«Da quale ufficio?…»
«Vuol dire che vi convocano alla polizia, all’ufficio. Si sa bene di che ufficio si tratta.»
«Alla polizia!… Perché?»
«E come faccio a saperlo? Se ti chiedono di andare, ci devi andare.»
Lo squadrò con attenzione, si guardò tutt’attorno e fece per andarsene.
«Allora, ti sei proprio ammalato?» osservò Nastas’ja, senza levargli gli occhi di dosso. Anche il portinaio voltò la testa per un attimo. «È da ieri che ha la febbre alta» soggiunse.
Egli non rispondeva e teneva tra le mani il pezzo di carta, senza dissigillarlo.
«Ma non vorrai mica alzarti» continuò Nastas’ja, impietosendosi, quando lo vide metter giù i piedi dal divano. «Sei malato, e quindi non ci devi andare: non c’è mica fretta, vedrai. Cos’è che hai in mano?»
Egli guardò: nella mano destra aveva i pezzetti di frangia tagliati, la calza e i brandelli della tasca strappata. Aveva dormito tenendoseli stretti in mano. In seguito, riflettendoci, rammentò che anche mentre era nel dormiveglia, in preda alla febbre, stringeva forte in mano quella roba, e poi si riaddormentava.
«Ma guarda che stracci ha raccolto, e ci dorme pure assieme, neanche fosse un tesoro…» E Nastas’ja scoppiò nella sua risata isterica. In un lampo egli ficcò tutto quanto sotto al cappotto e le piantò gli occhi addosso.
Sebbene in quel momento fosse a stento in grado di pensare qualcosa di pienamente sensato, sentiva che non l’avrebbero interpellato a quel modo se avessero voluto arrestarlo. “Ma… e la polizia?”
«Lo berresti, il tè? Ne vuoi? Te lo porto: ne è avanzato…»
«No… io vado: adesso vado» borbottò, mettendosi in piedi.
«Non ce la farai nemmeno a scendere le scale.»
«Vado…»
«Come vuoi.»
E Nastas’ja uscì, sulla scia del portinaio. Immediatamente Raskòl’nikov si precipitò verso la luce per esaminare la calza e la frangia: “Le macchie ci sono, ma non sono tanto visibili; si sono sporcate, poi si sono asciugate, e ormai è tutto scolorito. Se uno non lo sa, non se ne accorge nemmeno. Dunque da lontano Nastas’ja non ha potuto notare un bel nulla, grazie a Dio!”. Allora, con trepidazione, aprì la citazione e si mise a leggere; lesse a lungo, e finalmente capì. Si trattava di un normale invito a presentarsi il giorno stesso, alle nove e mezzo, all’ufficio del sorvegliante di quartiere.
“Ma quand’è che può essere successo? Io non ho niente a che fare con la polizia! E perché mai proprio quest’oggi?” pensò in preda a un’incertezza tormentosa. “Signore, purché sia in fretta!” Voleva gettarsi in ginocchio a pregare, ma gli venne persino da ridere: non della preghiera, ma di se stesso. Si vestì in tutta fretta. “Se sono perduto, ebbene, che sia come dev’essere, per me è indifferente! Devo mettermi la calza!” gli venne in mente all’improvviso. “Con la polvere si asciugherà ancora di più, e le tracce scompariranno.” Ma appena l’ebbe indossata, se la levò immediatamente con orrore e repulsione. La levò, ma, dopo aver riflettuto che non ne possedeva un’altra, la riprese, e se la infilò nuovamente, e nuovamente scoppiò in una risata. “Tutto ciò è convenzionale, è relativo, tutto ciò è soltanto forma” pensò di sfuggita, solo con una piccola parte del suo pensiero, mentre il corpo era scosso da un tremito “ecco, me la sono messa! È andata a finire che me la sono messa!” La risata, d’altronde, si mutò subito in disperazione. “No, non ne ho le forze…” gli venne in mente. Gli tremavano le gambe. “Per la paura” borbottò tra sé e sé. La testa gli girava e gli doleva per via della febbre. “È una mossa astuta! Vogliono attirarmi con l’astuzia, e all’improvviso farmi perdere la bussola” continuò tra sé e sé, uscendo sulle scale. “È un male che sia quasi in delirio… posso lasciarmi scappare qualche sciocchezza…”
Sulle scale si ricordò che stava lasciando tutti gli oggetti così, nel buco nella tappezzeria. “Mentre forse avrebbero approfittato per fare una perquisizione in sua assenza” gli venne in mente, e si fermò. Ma quella disperazione e quel, se così lo si può definire, cinismo della rovina si erano ormai impadroniti di lui, ed egli fece un gesto annoiato con la mano e continuò per la sua strada.
“Basta che sia in fretta!…”
Per strada c’era di nuovo un caldo insopportabile, giorni e giorni senza nemmeno una goccia di pioggia. Di nuovo polvere, mattoni e calce, di nuovo...