All’inizio erano soltanto loro due, Natasha e Sophie. Si erano conosciute alle medie, al Betterton Ladies’ College, quando avevano undici anni, e da quel primo giorno erano diventate amiche per la pelle. In classe si facevano notare, Natasha perché era alta per la sua età e Sophie perché era di Newcastle e parlava con un bizzarro accento cantilenante, per cui le compagne più prepotenti l’avevano subito presa di mira. Quando quelle stesse compagne avevano scoperto che il patrigno di Sophie era ricco e che lei viveva in una casa con piscina e campi da tennis, era ormai troppo tardi. L’unica a essere invitata era Natasha.
Sophie aveva un fratellastro della sua età, Marcus, figlio del suo patrigno, John. All’inizio lei ebbe ben poco da spartire con lui. Perché avrebbe dovuto fare comunella con un bambino che urlava cose tipo: “Chi l’ha fatta la raccatta” e lasciava impronte di fango per tutta la casa? Per fortuna, lui stava per lo più da sua madre, Nora, oppure alla scuola di preparazione per le superiori e più tardi a Eton.
Ma poi per Sophie e Natasha era venuto il momento di fare l’atteso ingresso nel mondo della pubertà. Si dedicavano anima e corpo a interpretare le istruzioni stampate sulle scatole degli assorbenti interni. Studiavano i grafici sulle confezioni per capire come va applicato l’ombretto. Si abbandonavano a irrefrenabili risatine sciocche sullo spettacolare George Michael e sul favoloso Rupert Everett, ignare delle preferenze sessuali dei loro idoli. (Natasha era rimasta scioccata quando alla fine del decennio aveva scoperto che Freddie Mercury non era da considerarsi fra i possibili candidati al matrimonio.)
E adesso, al ritorno dalle vacanze, Marcus non era più un moccioso rompiscatole, ma un bel ragazzo, allievo di una delle migliori scuole private del paese, che conosceva altri ragazzi di prestigiose scuole private e di conseguenza aveva la possibilità di farle invitare alle feste frequentate da studenti di scuole private, i quali – a differenza di quelli della Betterton, con la loro misera peluria e i loro brufoli – dovevano senz’altro assomigliare a Rupert Everett o a Nigel Havers in Momenti di gloria, quando si asciuga le labbra dagli spruzzi salati mentre corre sulla spiaggia, o ad Anthony Andrews (altro gay, ovvio, ma all’epoca non avevano fatto caso a quel piccolo particolare) nell’adattamento TV di Ritorno a Brideshead.
Marcus, a sua volta, era entusiasta di conoscere due ragazze che frequentavano altre ragazze, di dove non importava. Pian piano i tre erano diventati amici: chiusi in camera, si facevano mix di Vov e limonata in grado di resuscitare un morto, arrotolavano spinelli, che fumavano sotto il melo in fondo al giardino (Sophie e Marcus fumavano anche un sacco di sigarette, ma Natasha si era sempre rifiutata: non le avevano viste le foto di polmoni marci appesi ai muri del laboratorio di biologia?) e stavano su tutta la notte a guardare Birdy, Fuga di mezzanotte e Betty Blue.
Un giorno scoprirono un gioco che si chiamava “Se fossi in te” e per un certo periodo non fecero altro che quello, come dei veri drogati. Ciascuno scriveva il proprio nome su un bigliettino che poi mettevano in un cappello. Dopodiché tutti e tre ne pescavano uno a caso. Uno faceva una domanda tipo: “Se io fossi un colore, che colore sarei?”, e tu dovevi rispondere come secondo te avrebbe risposto quello del bigliettino. Poi gli altri dovevano indovinare chi stavi impersonando. Per degli adolescenti narcisisti era un passatempo perfetto: un’occhiata introspettiva al modo in cui gli altri ti vedono, su cui discuterne poi per ore sino allo sfinimento, sdraiati sul letto a schiacciarsi i brufoli.
«Che tipo di matrimonio mi piacerebbe?» fu la domanda che propose Sophie mentre stavano seduti in camera di Marcus una sera tardi ad ascoltare i Cure e a respirare bastoncini d’incenso.
Natasha aveva estratto il bigliettino con il proprio nome. «Per quanto mi riguarda, nessun tipo di matrimonio» dichiarò con fermezza. «Secondo me il matrimonio è un’istituzione sorpassata. Io ho intenzione di convivere con la mia anima gemella.»
Risatine generali: era evidente che Natasha parlava per se stessa.
Marcus si raschiò la gola. «Io intendo sposarmi senza tanto clamore, solo io e mia moglie… mmh, cioè, la mia anima gemella… magari in Toscana. Molto intimo, molto romantico, noi due soli e tutt’al più l’anziana proprietaria della trattoria in piazza a farci da testimone.»
«Aaah» mormorarono le ragazze. Anche Marcus impersonava se stesso, era ovvio: adorava la Toscana, dove suo padre possedeva una villa abbarbicata al fianco di una collina dalle parti di Pisa, con una splendida vista a perdita d’occhio sulla campagna ondulata. Era talmente romantico da essere commovente. Tutt’e due erano sicure che un giorno avrebbero incontrato un uomo come lui tutto per loro.
«Bene, visto che è più che evidente che Tash era Tash e Markie era Markie, avrete capito che invece io vorrei un matrimonio sfarzoso, di sera, d’estate, nella chiesa di Betterton, seguito da un ricevimento esagerato nel giardino botanico di Betterton» disse Sophie. «Più gente verrà, e meglio sarà. Un’orchestrina. Montagne di roba da mangiare. Tutti sbronzi. E un fotografo del “Tatler”.» E scoppiarono tutti a ridere dei progetti ambiziosi di Sophie.
Com’è ovvio, nessuno di loro pensava neanche lontanamente al matrimonio, all’epoca. Sophie usciva con alcuni amici di Marcus, Marcus usciva con alcune amiche di Sophie e Natasha… be’, Natasha non si può proprio dire che fosse il tipo che piaceva ai liceali, con quelle sue lenti spesse e l’aria un po’ troppo seriosa, ma alla fine anche lei ebbe la sua storia d’amore con Steven, il ragazzo della porta accanto, che andava all’istituto superiore di tecnologia di Guildford; così poté almeno salvare la faccia.
Vissero giorni molto felici finché ebbero diciassette anni, poi Steven spezzò il cuore a Natasha, e quasi lo stesso giorno la mamma di Sophie annunciò che fra lei e John c’erano dei problemi e che aveva intenzione di andare da sua madre all’Exeter per Natale – “O per tutto il tempo che mi ci vuole a chiarirmi le idee” – e Sophie con lei.
Sophie non ci voleva credere. Sua madre l’aveva strappata da Newcastle e aveva più o meno preteso che accogliesse a braccia aperte la sua nuova famiglia. E lei aveva ubbidito, per poi sentirsi ordinare, al successivo colpo di testa, di cancellarla dalla mente. Aveva supplicato sua madre di lasciarla con John e al Betterton College, ma Rita aveva ribattuto che era sua figlia e che dovevano stare insieme. E di lì a poco, quando Jimmy, il barman del pub di Betterton che si rifiutava sempre di servire da bere alla combriccola di Sophie, cominciò ad andare a trovarla tutti i weekend e anche qualche sera durante la settimana, fu chiaro che Rita non sarebbe mai più tornata con John.
In ogni caso, si era tenuta in contatto con lunghe lettere e telefonate (niente posta elettronica a quei tempi, per quanto incredibile) e qualche visita. Quando, dopo l’università, approdarono tutti a Londra – o nel caso di Sophie dopo la scuola per segretarie – andarono ad abitare nella casa di Shepherd’s Bush Road che John aveva comprato per Marcus come regalo di laurea.
Sophie fu la prima a rompere il sodalizio quando si trasferì a Clapham dal suo ragazzo, Charlie. Poi Natasha si comprò un appartamentino con il contributo finanziario dei suoi genitori. In seguito Sophie mollò Charlie per Andy e si trasferì subito da lui. Per un paio di mesi sparì completamente dalla circolazione, tutta presa dalla sua nuova storia d’amore. Ma Andy cominciò ad andare sempre più spesso all’estero per lavoro, e Sophie ricomparve nella loro vita.
E poi alcuni mesi prima Marcus aveva conosciuto Lainey e se n’era innamorato pazzamente, e d’un tratto non si era fatto più vedere, perché correva da lei ogni momento e restavano a letto per interi weekend e preparavano la lista nozze al Conran Shop e così riecco Sophie e Natasha di nuovo sole.
Natasha Green guardò l’orologio da polso, un Georg Jensen, e si sentì ancora più in ansia. Erano le 15.53 di un sabato di aprile e il suo taxi arrancava in Park Lane. Nonostante il vento freddo che entrava dal finestrino aperto dell’autista, era lo stesso accaldata per l’agitazione. Di lì a sette minuti Marcus e Lainey si sarebbero sposati. Natasha non arrivava mai in ritardo, ma questa volta sì.
Squillò il cellulare. Rovistò nella borsa e lo tirò fuori. Come previsto: Sophie.
«Soph, sto arrivando.»
«Dove sei?» urlò Sophie sovrastando il suono delle campane in festa.
«Arrivo» promise Natasha. «Il mio aereo è atterrato in ritardo. Sto venendo direttamente dall’aeroporto, ma il traffico è quasi bloccato.»
«Oh, Tash.» Sophie sospirò. «Non so che cosa fare. Tu non ci sei, e nemmeno Andy, dannazione, e neanche la mamma. Sto cercando di tenere occupata un’intera fila di sedie e i parenti di Marcus si stanno innervosendo.»
«Be’, non ci posso fare niente.»
«Non puoi prendere la metro?»
«No, figurati. Ho una valigia enorme e il portatile.»
«Resta lì un attimo» sibilò Sophie. La sua voce si allontanò un poco. «Lavinia! Come stai? Benissimo, grazie! No, non è ancora arrivato. Sta lavorando.» Tornò a parlare al telefono. «Scusa, Tashie, ti devo lasciare. Ci vediamo fra poco.»
«Ci sono quasi. Come sta Marcus?»
Ma ormai la linea era andata.
Natasha si guardò le scarpe e sospirò. Nere, scollate. Per nulla adatte a un matrimonio, ma che cosa poteva fare? L’aereo da Monaco sarebbe dovuto atterrare alle nove del mattino, dandole tutto il tempo di andare a casa, farsi un bel bagno caldo, agghindarsi con tutta la cura necessaria e recarsi in chiesa senza fretta. Ma c’erano stati “problemi tecnici” e, di conseguenza, il volo aveva subito ritardi vari per poi essere deviato via Parigi.
Alla fine era atterrata a Heathrow alle due e un quarto del pomeriggio, e prima che fosse fuori dall’aeroporto erano quasi le tre, e non aveva nemmeno avuto il tempo di passare dai negozi dell’aeroporto a comprarsi qualcosa da mettere al posto del tailleur blu scuro firmato Jil Sander, ideale per una riunione con gli executive della TV tedesca, ma non per un matrimonio londinese. Il suo vestito da cerimonia, scelto con tanta cura da Maeve, che si occupava personalmente dei suoi acquisti sempre nella stessa boutique, era appeso nell’armadio di casa sua accanto agli accessori. Perché non se l’era portato in Germania? Poteva andare a cambiarsi, ma così si sarebbe persa la cerimonia, per cui non se ne parlava neanche. Natasha era furibonda con se stessa. Le piaceva avere sotto controllo ogni aspetto della sua vita: come aveva fatto a sbagliare fino a quel punto stavolta?
Tirò fuori il portacipria per darsi una controllata. Capelli biondi tinti, corti e vaporosi, naso leggermente aquilino e carnagione chiara. Coprì con un po’ di cipria i punti lucidi, poi si passò il rossetto Dior di un rosso acceso sulle labbra carnose. Osservò corrucciata il risultato. “Piacente” era il massimo che si potesse dire; o “interessante”, forse. Ferma là: tanto nessuno l’avrebbe guardata. Quello era il giorno di Marcus e Lainey.
Di nuovo il cellulare. Questa volta lo afferrò seccata. «Sophie, sto arrivando!»
«Chi è Sophie?» chiese una voce divertita. Era Dom, il suo sostituto alla Rollercoaster TV. Dom era suo amico, naturalmente, ma fra loro vigeva una regola non scritta: durante i fine settimana non si chiamavano mai.
«Che cosa vuoi?»
«Gentile» rise lui. «Sono in ufficio e ho bisogno di accedere al file della riunione di lunedì con gli americani, ma non mi ricordo la password.»
«In ufficio di sabato? O poverino!»
«Lo so, ma devo dargli un’altra occhiata. Ho in programma una serata grandiosa, perciò voglio tenermi tutta la giornata di domani per smaltire la sbornia.»
«Aspetta un attimo, devo cercarla.» Natasha aprì l’agendina.
«Allora, chi è Sophie?» chiese Dom con indolenza.
«Lo sai, è una mia amica. L’hai conosciuta quella volta da Jamie.»
«Ah, lei! Quella che assomiglia a Catherine Zeta-Jones.»
«Esatto» disse stancamente Natasha. L’auto cominciò ad avanzare a passo di tartaruga invece che di lumaca. «Dom, ti devo lasciare. La password è “superstar”. Ci vediamo lunedì.»
«Ci vediamo.» Fine della conversazione.
Mentre l’auto oltrepassava Lanesborough e imboccava Knightsbridge, Natasha ripensò a quello che aveva appena detto Dom. Catherine Zeta-Jones. La gente lo diceva spesso di Sophie. Prima, quando CZJ era ancora una stellina di serie B della televisione, la paragonavano a Elizabeth Taylor, la versione giovane, ovvio, con gli occhi viola e i capelli corvini, non quella paffuta che indossava caffettani e viveva con Michael Jackson.
“Io a chi assomiglio?” aveva commesso l’errore di chiedere una volta Natasha, a cena, quando aveva tredici anni. C’erano lei, la mamma, il papà, sua sorella Lesley, che aveva sedici anni, un seno enorme, la permanente e un ragazzo che aveva già finito la scuola, e Sophie, che era andata là “a fare i compiti”.
“Tu sei una jolie-laide” aveva detto Lesley. “Posso prenderne ancora, mamma?”
“Che cosa vuol dire jolie-laide?” aveva chiesto Sophie.
“Significa carina-brutta” aveva risposto Lesley con aria compiaciuta. “Lo sapresti, se non fossi un asino in francese.”
“Non essere cattiva, Lesley” era intervenuto il padre. E ave...