
- 208 pagine
- Italian
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eBook - ePub
I ragazzi della via Pál
Informazioni su questo libro
La storia dolce-amara di un gruppo di ragazzi che si contendono uno spazio libero dove poter giocare. Un intramontabile classico per la gioventù, capolavoro dell'ungherese Molnár (1878-1952).
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Informazioni
Print ISBN
9788804480495eBook ISBN
97888520475341
Mancava un quarto all’una quando, dopo ripetuti e infruttuosi tentativi, quasi premio all’impaziente attesa, la fiamma incolore del becco Bunsen posto sulla cattedra dell’aula di scienze fu attraversata da una splendida striscia verde smeraldo, dando così la prova che, come il professore voleva dimostrare, la sostanza usata per l’esperimento effettivamente coloriva la fiamma in verde. Mancava un quarto all’una: e proprio in quel momento solenne, provenienti dal cortile della casa accanto, si udirono le note di un organetto che distrassero l’intera scolaresca, sino ad allora attentissima all’esperimento. Era una bella giornata di marzo e dalle finestre spalancate, sulle ali del fresco venticello primaverile, la musica volava nell’aula. Era un’allegra canzone ungherese che l’organetto suonava a tempo di marcia viennese, con un ritmo che fece venire a tutta la classe il desiderio di sorridere: anzi, qualcuno sorrise senz’altro. Qualche ragazzo dei primi banchi ammirava ancora la striscia verde smeraldo che brillava nella lampada Bunsen; ma gli altri guardavano fuori della finestra i tetti delle case vicine e, più lontano, indorato dai raggi del sole, il campanile della chiesa con il suo orologio, sul quale la lancetta maggiore avanzava consolante verso il numero 12. E dalla finestra, insieme con il suono dell’organetto, entravano nell’aula anche altri suoni, che con l’organetto non avevano nulla a che fare. I cocchieri dei tram a cavalli suonavano la tromba; in un cortile una domestica cantava una canzone diversa da quella dell’organetto: e la scolaresca cominciò ad agitarsi. Alcuni presero a frugare sotto il banco, tra i libri; i più ordinati pulivano il proprio pennino; Boka chiuse il suo calamaio da tasca in pelle rossa, tanto ben congegnato da non lasciar mai gocciolare l’inchiostro, tranne quando lo si metteva in tasca. Csele raccoglieva i foglietti volanti che erano i suoi testi, perché Csele era un gagà e non si portava a scuola i libri interi, come facevano gli altri, ma soltanto le pagine occorrenti giorno per giorno, ben distribuite tra le varie tasche interne ed esterne della giacca. Csónakos, dall’ultimo banco, emise uno sbadiglio simile a quello di un ippopotamo, tanto spalancò la bocca; Weisz si rovesciò le tasche, spargendo per terra tutte le briciole del panino che aveva sbocconcellato tra le dieci e l’una; Geréb prese a strisciare i piedi per terra, come chi vuole alzarsi e Barabás, spudoratamente, stese sulle ginocchia la tela cerata e vi dispose sopra i libri in ordine di larghezza, stringendo poi il pacco con la cinghia con tale sforzo che il banco scricchiolò ed egli arrossì tutto. Insomma, tutti si preparavano a uscire: soltanto il professore non voleva rendersi conto che tra cinque minuti la scuola sarebbe terminata.
«Che c’è?» chiese, alzando uno sguardo bonario sulle teste dei ragazzi.
Allora si fece un gran silenzio, un silenzio glaciale. Barabás dovette allentare la cinghia; Geréb rimise i piedi composti; Weisz riassettò le tasche; Csónakos finì lo sbadiglio dietro il palmo della mano; Csele lasciò stare i foglietti; Boka si affrettò a mettersi in tasca il calamaio rosso, da cui subito incominciò a gocciolare l’inchiostro.
«Che c’è?» ripeté il professore, ma tutti rimasero fermi e zitti. Poi egli guardò verso la finestra, da cui continuava a entrare allegramente la musica dell’organetto, che sembrava voler affermare di non essere soggetto alla disciplina della scuola. Lo sguardo del professore, però, era severo quando disse:
«Csengey, chiudi la finestra.»
Csengey, il piccolo Csengey, il più bravo della classe, che sedeva nel primo banco, si alzò con il suo visetto serio e si avvicinò alla finestra per chiuderla.
In quel momento Csónakos si sporse verso la corsia tra i banchi e sussurrò a un biondino:
«Attento, Nemecsek.»
Nemecsek sbirciò dietro di sé, poi guardò per terra. Una pallottolina di carta era rotolata ai suoi piedi; la raccattò e la svolse. Da una parte c’era scritto: “Passala a Boka”.
Nemecsek sapeva che sul retro vi era un messaggio, ma egli era un ragazzo di carattere e non pensò neppure di leggere una lettera indirizzata ad altri. Perciò rifece la pallottola, aspettò il momento adatto e poi, sporgendosi a sua volta verso la corsia tra i banchi, sussurrò:
«Attento, Boka.»
Fu ora la volta di Boka. Guardò sul pavimento, dove abitualmente si svolgeva il traffico dei messaggi, e vide la pallottola rotolare fino a lui. Sul lato che il biondo e onesto Nemecsek non aveva voluto leggere, c’era scritto:
“Alle tre del pomeriggio riunione generale per l’elezione del presidente. Avvisare tutti.”
Boka si mise in tasca il foglietto e diede l’ultimo strattone alla cinghia dei libri. Era l’una. Il campanello suonò, e così anche il professore si rese conto che la lezione era finita. Allora spense il becco Bunsen, assegnò il compito e rientrò nel gabinetto di scienze dove, ogni volta che si apriva la porta, sembravano spiare, con i loro stupidi occhi di vetro, uccelli e altri animali impagliati mentre in un angolo, nel più dignitoso dei silenzi, c’era persino un ingiallito scheletro umano.
La scolaresca uscì dall’aula in un istante, riversandosi sullo scalone dalla balaustrata a colonne. Tutti correvano all’impazzata, frenandosi un po’ soltanto quando tra gli scolari appariva l’alta figura di un professore. Allora essi rallentavano l’andatura e riducevano il tono di voce, ma appena il professore scompariva riprendevano a correre e schiamazzare.
I ragazzi uscivano a frotte dal portone, svoltando poi parte a destra e parte a sinistra, togliendosi rapidi il cappello quando in mezzo a loro si infilava un professore. Tutti erano affamati e un po’ storditi; come prigionieri appena rimessi in libertà, l’intontimento svaniva pian piano a contatto con l’allegro movimento della strada. Camminavano un po’ barcollando nella città rumorosa e vivace, che per loro altro non era se non un intrico di carrozze, tram a cavalli, strade e negozi, attraverso cui bisognava trovare la via di casa.
Sotto un portone, Csele stava contrattando di nascosto l’acquisto di un pezzo di torrone. Il venditore aveva aumentato i prezzi in maniera vergognosa. Tutti sanno che il prezzo del torrone è un soldo, da intendersi così: costa un soldo il pezzo che il venditore riesce a staccare con un sol colpo di coltello dalla massa farcita di nocciole. Del resto a quel banco sotto il portone tutto costa un soldo: un soldo le tre pere, o i tre mezzi fichi, o le tre prugne, o le tre mezze noci, tutti canditi e infilati in un bastoncino; un soldo un gran pezzo di liquerizia, un soldo lo zucchero d’orzo. Non più di un soldo costa anche la cosiddetta “delizia degli studenti”, che si vende a piccoli cartocci ed è un gustosissimo miscuglio di nocciole, uva passa, pezzetti di zucchero, mandorle, polvere, frammenti di carrube e mosche. Per un soldo, la “delizia degli studenti” offre molti prodotti dell’industria e dei regni vegetale e animale.
Csele contrattava: vale a dire che il venditore di torrone aveva alzato i prezzi. Gli studiosi di economia sanno bene che i prezzi crescono quando il commercio presenta dei rischi. Per questa ragione sono cari i tè asiatici, che le carovane ci portano attraversando paesi infestati da banditi: e i pericoli che esse affrontano li dobbiamo pagare noi che viviamo nell’Europa occidentale. Il venditore di torrone aveva senz’altro il senso degli affari perché, poveretto, non volevano più che stazionasse nelle vicinanze della scuola ed egli sapeva che prima o poi l’avrebbero allontanato da quel luogo; ai professori che passavano di là, malgrado tutti i suoi dolci, egli non sapeva mai sorridere tanto dolcemente da convincerli che non era un nemico dei ragazzi.
«Gli alunni spendono tutto il loro denaro da quel pasticciere italiano» dicevano i professori; e il pasticciere italiano prevedeva che ormai avrebbe fatto ben pochi affari lì presso il ginnasio. Per questa ragione aumentò i prezzi: poiché doveva andarsene, pensò di guadagnarci almeno qualcosa. Diceva infatti a Csele:
«Sinora tutto costava un soldo; d’ora in poi tutto costerà due soldi.»
Mentre pronunciava a fatica queste parole in un cattivo ungherese, gesticolava animatamente con il coltello in mano. Geréb sussurrò a Csele:
«Gettagli il cappello tra i dolci.»
A Csele la proposta piacque molto. Che bella idea! I vari dolcetti sarebbero volati da ogni parte, con grande spasso per i ragazzi.
Geréb, come un demonietto tentatore, continuava a bisbigliargli all’orecchio quelle parole.
«Gettagli il cappello. È uno strozzino.»
Csele si tolse il cappello.
«Questo bel cappello?» chiese.
Fu uno sbaglio: Geréb non aveva scelto la persona giusta per un simile suggerimento. Csele, sappiamo, era l’elegantone che dei libri portava a scuola soltanto pagine volanti.
«Ti dispiace?» gli chiese.
«Sì» rispose Csele. «Ma non pensare che io sia un vigliacco. Non sono un vigliacco: mi dispiace per il cappello. Per dimostrartelo, sono pronto a gettarci il tuo.»
Queste non erano cose da dire a Geréb: era come offenderlo. Egli infatti si irritò e disse:
«Poiché si tratta del mio cappello, posso buttarcelo io. Quell’uomo è uno strozzino; se hai paura, vattene.»
E con il gesto abituale prima della battaglia, si tolse il cappello per avvicinarsi al banco dalle gambe a X e spazzar via i dolciumi che vi erano ammonticchiati.
Ma qualcuno da dietro gli fermò la mano e una voce seria quasi quanto quella di un uomo gli chiese:
«Che cosa fai?»
Geréb si volse: alle spalle gli stava Boka.
«Che cosa fai?» Boka gli chiese ancora, con uno sguardo serio ma tranquillo. Geréb brontolò, come il leone quando il domatore lo fissa negli occhi; poi si calmò, e con una scrollata di spalle si rimise il cappello. Boka gli disse con calma:
«Lascia stare quest’uomo. Mi piacciono i coraggiosi, ma qui sono fuori posto. Vieni» e gli tese la mano, che era sporca di inchiostro.
Dal calamaio continuava a gocciolargli in tasca l’inchiostro turchino, ma Boka non se ne era accorto quando aveva tolto la mano di tasca. Nessuno se ne preoccupò; Boka si pulì la mano sul muro, col risultato di sporcare il muro e di avere la mano ancora macchiata. La questione dell’inchiostro fu risolta così. Boka prese Geréb sottobraccio, e insieme si allontanarono lungo la via. Csele, il gagà, rimase indietro, ma essi riuscirono a sentire quando, con il tono mesto del rivoluzionario domato, egli disse all’italiano:
«Se tutto costa due soldi, datemi due soldi di torrone.»
E tolse di tasca il bel borsellino verde. L’italiano sorrise al pensiero di riuscire da domani a vendere tutto per tre soldi: ma era un sogno, un sogno come quello che ogni lira ne valesse cento. Calò con forza il coltello sul torrone, incartando quindi il pezzetto che era riuscito a staccare.
Csele lo guardò con delusione:
«Ma è più piccolo delle altre volte!»
Il successo aveva reso maleducato il pasticciere, che disse con un sogghigno:
«È più caro; perciò ne do meno.» E si rivolse a un altro cliente, che ormai avvertito teneva in mano due soldi. Il pasticciere colpiva la massa del torrone con strani movimenti del coltello; sembrava il gigantesco carnefice delle fiabe medievali, intento a mozzare con una piccola mannaia le testoline dei nanetti, non più grosse di nocciole. Di quella massa di torrone fece una vera strage.
«Che vergogna!» disse Csele al nuovo acquirente. «Non comperare niente da lui. È uno strozzino.» E si mise in bocca tutto in una volta il pezzo di torrone, al quale era rimasta appiccicata metà della carta: la carta non la si poteva togliere, però la si poteva leccare.
«Aspettatemi!» gridò poi a Boka e al compagno, mettendosi a correre verso di loro.
Li raggiunse all’angolo, e svoltò con loro in via della Pipa, verso via Soroksári. Camminavano tutti e tre a braccetto; in mezzo era Boka, che spiegava agli altri qualcosa, serio e tranquillo come il solito. Aveva quattordici anni, eppure il viso era ancora imberbe; ma quando parlava, sembrava avere qualche anno di più. La sua voce era profonda, mite e posata; le sue azioni erano come la voce. Raramente diceva sciocchezze e non mostrava nessuna tendenza a far lo sbarazzino. Non accadeva mai che litigasse, e se lo invitavano a far da arbitro nei litigi altrui, rifiutava: aveva capito che, dopo il giudizio, una delle due parti contendenti si allontanava amareggiata verso l’arbitro. Ma se la contesa si faceva seria, rischiando di richiamare l’intervento dei professori, Boka allora interveniva come paciere: il paciere non urta la suscettibilità di nessuna delle due parti. Boka, insomma, sembrava un ragazzo intelligente, di quelli che da uomini, pur non salendo molto in alto, avrebbero occupato onorevolmente il loro posto nella vita.
Erano diretti a casa; perciò da via Soroksári imboccarono via Köztelek, una stradetta tranquilla su cui splendeva il tiepido sole primaverile. Dalla manifattura dei tabacchi, che si stendeva per tutto un lato, veniva un borbottio di macc...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- Introduzione. di Gianguido Manzelli
- Cronologia
- Nota bibliografica
- I ragazzi della via Pál
- 1
- 2
- 3
- 4
- 5
- 6
- 7
- 8
- 9
- 10
- Copyright