Lacrime di sale
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Lacrime di sale

La mia storia quotidiana di medico di Lampedusa fra dolore e speranza

  1. 156 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Lacrime di sale

La mia storia quotidiana di medico di Lampedusa fra dolore e speranza

Informazioni su questo libro

«È gelida l'acqua. Mi entra nelle ossa. Non riesco a liberare la stazza dall'acqua. Uso tutta la mia forza e la mia agilità ma la lancia resta piena. E cado. Ho paura. È notte fonda e fa freddo.

Siamo a quaranta miglia da Lampedusa e, se non riesco a farmi sentire subito, mi lasceranno qui e sarà la fine. Non voglio morire così. Non a sedici anni.

Il panico sta per impadronirsi di me e comincio a urlare con quanto fiato ho in gola, cercando di rimanere a galla e di non farmi trascinare giù da questo mare che ci consente di sopravvivere ma che può anche decidere di abbandonarci per sempre. " Patri " urlo. " Patri." Lui è al timone e non mi sente. La fine si avvicina, penso. Poi qualcosa accade...

Ciò che non potevo sapere allora è che non solo quella notte sarebbe rimasta per sempre impressa nella mia mente ma che la mia esistenza sarebbe stata segnata da un mare che restituisce corpi e vite e che sarebbe toccato proprio a me salvare quelle vite e toccare per ultimo quei corpi.» Pietro Bartolo è il medico che da oltre venticinque anni accoglie i migranti a Lampedusa. Li accoglie, li cura e, soprattutto, li ascolta.

Queste pagine raccontano la sua storia: la storia di un ragazzo mingherlino e timido, cresciuto in una famiglia di pescatori, che si è duramente battuto per cambiare il proprio destino e quello della sua isola. E che, non dimenticando le difficoltà passate, ha deciso di vivere in prima persona quella che è stata definita la più grande emergenza umanitaria del nostro tempo.

Alla sua storia si intrecciano quelle disperate e struggenti di alcuni dei tanti migranti scappati dalle guerre o dalla fame, sopravvissuti non si sa come a un viaggio terribile nel deserto, fra violenze e sopraffazioni inimmaginabili, che in mare hanno spesso visto morire i loro famigliari e, nonostante ciò, non si arrendono, determinati a iniziare una nuova esistenza in Europa. O che sull'«isola degli sbarchi» sono arrivati dentro orribili sacchi verdi, corpi inanimati, di chi fra le onde ha perso la propria vita, dei piccoli che non hanno nemmeno fatto in tempo a vedere la luce.

Yasmin, che partorisce Gift circondata dall'affetto delle donne di Lampedusa; Hassan, che per tutto il viaggio porta sulle spalle il fratello paralizzato; Omar, che non riesce a dimenticare; Faduma che, per crescerli, ha dovuto separarsi dai suoi sette figli; Jerusalem, a cui i trafficanti di uomini hanno rubato la spensieratezza; Kebrat, miracolosamente strappata alla morte; e poi Sama e il suo gatto, Mustafà e la piccola Favour.

Lacrime di sale è un pugno nello stomaco, narra cose che nessun articolo di giornale e immagine televisiva potrà mai narrare, e ti inchioda alla tua coscienza. Le sofferenze del medico Pietro Bartolo, il suo senso di impotenza (qualche volta), la sua rabbia (sempre), il suo smarrimento sono così autentici da diventare i tuoi. Come la sua gioia e il suo stupore di fronte all'invincibile forza della vita.

Un grande esempio di coraggio e impegno civile. Uno straordinario monito contro l'indifferenza di chi non vuol vedere.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2016
Print ISBN
9788804669739
eBook ISBN
9788852076039

Favour dagli occhi grandi

25 maggio 2016. Due di notte. L’allarme arriva da un mercantile. A bordo ci sono tanti migranti soccorsi nel Canale di Sicilia. Venti di loro sono ustionati e fortemente debilitati. Non possono continuare il viaggio in tali condizioni. Una motovedetta va a prenderli. Intanto allertiamo le ambulanze e gli elicotteri, il nostro e quello di Pantelleria. Quando la motovedetta rientra, sono ormai le otto del mattino. A bordo, soprattutto donne. Vittime di quella che ormai chiamo la «malattia dei gommoni».
In venticinque anni di soccorsi non mi era mai capitato di dover curare ustioni di questo tipo. Succede da quando è iniziata la missione europea, Mare Nostrum prima e Frontex poi. Più i salvataggi avvengono al largo e più i trafficanti di uomini utilizzano imbarcazioni provvisorie e fatiscenti. Gommoni, soprattutto, alimentati a benzina invece che a gasolio.
Gli scafisti rabboccano i serbatoi durante il tragitto e il carburante, inevitabilmente, fuoriesce dalle taniche. Come una serpe che scivola lentamente, la benzina si combina con l’acqua salata e la miscela è devastante.
Nei gommoni gli uomini siedono sui tubolari. Le donne, invece, stanno sul fondo con i bambini in braccio. La miscela micidiale inzuppa i vestiti. E, mentre inonda i corpi delle donne, dando loro una gradevole e apparentemente benefica sensazione di calore, inizia a corrodere la pelle dei piedi, delle gambe, delle natiche. Divora, piano piano, ogni centimetro di tessuto, provocando delle piaghe profondissime. Ustioni chimiche terribili.
In banchina, il disastro. La prima donna che vedo è sdraiata su una barella. Ha addosso la «metallina», la coperta isotermica gialla. Non ha la forza di mettersi in piedi. La seconda cammina a stento, appoggiandosi a me e a un volontario, che la aiutiamo a salire sull’ambulanza. Una terza donna è adagiata sul fondo della motovedetta, avvolta in un lenzuolo bianco. Sembra un angelo nero. Un angelo che sta soffrendo maledettamente. La sosteniamo per farla scendere in banchina. «Fate piano» raccomando ai soccorritori. «State attenti a come la toccate.» È in condizioni pietose e non riesce quasi a muoversi.
Sistemo con delicatezza il suo braccio attorno al mio collo e proviamo a camminare, a piccoli passi. Intanto sollevo leggermente il lenzuolo. Ha il sedere ridotto a carne viva e, nonostante questo, si fa forza, sopporta senza emettere un solo gemito, ma il suo viso è contratto per gli spasmi. Scendono così, a una a una. Tutte con la pelle martoriata da quella miscela mortale.
Poi dalla motovedetta una volontaria mi passa una bimba molto piccola. È bellissima. Due enormi occhi neri in un viso tondo dolcissimo. È frastornata. Chiedo dove sia la madre ma nessuno sa rispondere. Porgo la bimba a Elena, la mediatrice culturale che, anche stavolta, è con me. «Non la mollare nemmeno un secondo» le dico, con un tono più che perentorio. «Non la dare a nessuno, manco se viene il papa. Tienila con te fino a quando non arrivo io.» Poi, bacio sulla testa la piccola e torno a occuparmi delle donne.
Al poliambulatorio, cominciamo le medicazioni. È un delirio: corpi neri con enormi chiazze bianche. Ungiamo le piaghe e le fasciamo. Sotto le garze le ferite bruciano. È straziante assistere al dolore di queste povere donne. L’odore della benzina è fortissimo.
Intorno a me è un viavai di infermieri, medici, assistenti, addetti alle ambulanze. Come sempre, ogni istante è prezioso. Non possiamo perdere tempo.
Dopo la medicazione, i barellieri riprendono in consegna le povere vittime della benzina killer e poi, di corsa in ambulanza, verso gli elicotteri che aspettano in pista, pronti a decollare.
Non ci sono parole per descrivere la generosità e l’abnegazione di chi lavora nella nostra struttura. Siamo una squadra in cui il ruolo di ognuno è determinante e fondamentale. L’emergenza è la normalità, è la nostra quotidianità. In venticinque anni abbiamo visitato, soccorso, medicato, quasi trecentomila persone.
Respiro a fatica per la stanchezza. Ho la nausea, una sensazione di oppressione al petto. Non ce la faccio più. Mi metterei a urlare. Puoi cercare quanto vuoi di tenere addosso la corazza che ti consente di andare avanti, ma la tua anima viene comunque travolta, inevitabilmente. È come se fossimo in guerra. Una guerra che non abbiamo scelto noi di combattere e che stiamo affrontando ad armi impari. Che ci consegna ogni giorno decine di feriti. E non possiamo fare altro che stare in trincea, nel senso più letterale del termine.
Quando finisco di medicare anche l’ultima donna, torno da Elena e dall’unica, straordinaria, sorpresa che questa mattinata infernale ci ha riservato.
«Si chiama Favour,» mi dice la mia collaboratrice «ha nove mesi ed è nigeriana. Il suo nome vuol dire “privilegiata”. La madre, incinta di un altro bimbo, è morta durante la traversata. A prendersi cura di Favour è stata una delle compagne di viaggio. Ha raccontato che sul gommone erano in centoventi.»
Provo a immaginare la scena di una mamma disperata che sa di dover morire da un momento all’altro. Che non ha alternative se non quella di adagiare la sua bimba tra le braccia di un’altra donna. Una donna che nemmeno conosce, un’estranea, con la quale ha condiviso solo quella porzione di viaggio e alla quale sta affidando ciò che ha di più prezioso. Con la speranza che la compagna di traversata possa proteggere la sua creatura e fare in modo che almeno lei si salvi.
Io credo che tutto ciò non sia umano. Eppure accade ogni giorno, continuamente, e noi ce ne accorgiamo solo quando diventa «notizia», e poi facciamo presto a dimenticare, a tornare alla nostra routine.
Favour mi guarda con i suoi occhioni. È una bambina stupenda. L’hanno lavata, le hanno messo addosso un vestitino che la rende, se possibile, ancora più bella. Ha bevuto il latte in un istante. Era affamata. Adesso gioca con una bambolina. La tengo in braccio per ore. È come se stesse con me da sempre. La nostra foto insieme in poche ore fa il giro del mondo. Lei che guarda l’obiettivo come se fosse abituata, quasi in posa.
La porto al centro di accoglienza. È lì che, momentaneamente, devo lasciarla. Così vuole la legge. Ma non riesco a distaccarmene. Ho un nodo alla gola.
Corro a casa da Rita. Le parlo e subito dopo telefono ai miei figli. Voglio chiedere l’affidamento di Favour. Rita è paziente, conosce bene la mia impulsività. Stavolta non mi dice di no, come invece aveva fatto con Anuar. Però mi avverte: «Pietro, non vorrei che tu avessi una delusione. La bambina non ce l’affideranno... Sarà il tribunale a decidere chi dovrà prendersene cura».
Io non mi arrendo. Chiamo la prefettura, i funzionari del ministero. Tutti coloro che conosco e con i quali ho lavorato in questi lunghi anni. Lo so, forse non è corretto, ma quella bambina mi è entrata nel cuore e so per certo che con noi starebbe bene, avrebbe le cure e le attenzioni che merita.
Il mattino seguente, poco dopo l’alba, Cristina, l’assistente sociale, mi aiuta a compilare la richiesta formale da inviare al Tribunale dei minori. Spero di essere il primo a presentarla. Per tutta la mattina controllo continuamente lo schermo del telefono cellulare, sperando in una chiamata dalla prefettura.
Ancora una volta, però, Rita ha ragione. La telefonata non arriva. Non saremo noi a occuparci della bambina.
Intanto predispongono il trasferimento di Favour a Palermo. Io non trovo il coraggio di andare all’aeroporto e, anche se so che non è giusto pensarlo, mi fa male vedere la piccola in braccio alla poliziotta che ha il compito di accompagnarla durante il viaggio e che l’abbraccia sorridente.
Almeno, però, la nostra foto e il mio appello pubblico per ottenere la custodia di Favour hanno permesso di raggiungere in breve un risultato. Centinaia e centinaia di famiglie in tutta Italia hanno dato la propria disponibilità a ospitarla. La bellissima bimba dai grandi occhi neri non ha dovuto aspettare: a Palermo è stata affidata a coloro che, forse, diventeranno i suoi nuovi genitori. Una coppia che ha atteso per anni un bimbo, e non importava loro il colore della pelle, il sesso o l’età. Hanno ricevuto un dono bellissimo, ma sanno anche che corrono il rischio di perderlo. L’adozione, infatti, non è scontata. Le autorità dovranno accertare che Favour non abbia parenti in vita e la trafila burocratica da compiere, a partire dal suo Paese d’origine, non è semplice. In Europa potrebbe avere familiari che, forse, la sua mamma voleva raggiungere.
Soltanto se risultasse davvero sola potrà essere adottata, e allora sarà un’adozione nazionale. Perché Favour «è necessariamente italiana». Come ha affermato il presidente della Repubblica Mattarella, proprio a Lampedusa.
Dal letto dell’ospedale in cui sta combattendo per guarire dalle profonde ustioni, a chiedere della piccola è anche Sofii, la ragazza che l’ha salvata. Vuole sapere se sia riuscita a portare a termine la missione che la mamma di Favour le aveva affidato. I medici la tranquillizzano: adesso la bimba è in ottime mani.
Due giorni. Tanti ne sono bastati per riportarmi alla realtà. Quarantotto ore dopo, la storia si è ripetuta, ancora più drammatica.
A Lampedusa arriva un elicottero con a bordo un bambino. Anche lui salvato da un naufragio e caricato su una nave spagnola. Ma le sue condizioni sono troppo critiche per proseguire il viaggio. Vado a prenderlo sulla pista. Non è un neonato: ha cinque anni ed è eritreo. Si chiama Mustafà.
Sta molto male. Talmente male che sulla nave non sono riusciti nemmeno a trovare la vena per mettergli la flebo. La sua temperatura corporea ha raggiunto i ventisette gradi e ha rischiato di morire per ipotermia. Per questa ragione, i sanitari hanno dovuto praticare un’infusione intraossea. Cioè gli hanno inserito la flebo direttamente nell’osso della tibia: un’operazione dolorosa, soprattutto se a subirla è un bambino. Ma non avevano scelta. Era l’unico modo per strapparlo alla morte.
Prendo Mustafà in braccio e lo porto al poliambulatorio. Nei suoi occhi, un misto tra rassegnazione e terrore. È sconvolto. Ha perso, in mare, la mamma e la sorellina. Li ha visti morire. Al contrario di Favour, lui ha capito tutto. Ha visto le persone a lui più care scomparire tra le onde e non riemergere mai più.
Proviamo a infilargli le flebo riscaldate per stabilizzare la temperatura corporea. Ma il primo tentativo va a vuoto. Non riusciamo a prendere la vena. Poi, lui stesso ci porge l’altro braccio, quasi a volerci aiutare, a indicarci la strada. Non vuole rivivere l’incubo del catetere conficcato nell’osso.
Ha fame, Mustafà, e ce lo fa capire a gesti. Chiude la sua manina a cucchiaio e se la porta davanti alla bocca. Gli preparo una cioccolata calda e dei biscottini. Lo aiuto a bere a piccoli sorsi quel liquido che gli riscalda la gola e gli porgo minuscoli pezzettini di biscotto.
Non piange, ma a parlare sono i suoi occhi imploranti: «Aiutatemi». Anche lui è un bimbo dolcissimo. Elena gli dà un coniglietto di peluche e gli dice: «Questo è il coniglietto Bartolo. Si chiama coniglietto Bartolo». Lui lo prende, lo gira e lo rigira tra le sue mani, poi ripete: «Battolo», regalandoci un grande sorriso.
Nonostante le cure e le flebo le sue condizioni restano critiche. Non possiamo tenerlo a Lampedusa. Dobbiamo trasferirlo. Così lo accompagno all’elipista. Mustafà è di nuovo in volo, verso l’ospedale dei bambini di Palermo.
Mi rimetto in auto e riparto, pronto a percorrere la strada di ritorno, ma sento che ho bisogno di fermarmi. Posteggio in uno spiazzo e inizio a camminare a piedi. Devo smaltire la mia angoscia, la mia frustrazione, il mio senso di impotenza. Respiro, lentamente, poi mi volto a guardare il mare. Oggi è calmo, placido. Nessuna increspatura. È di un colore verde smeraldo.
Su uno scoglio c’è un gruppo di ragazzini. Ridono, scherzano. Fanno a gara a chi riesce a fare i tuffi più belli. Sono forti, sani, la pelle già dorata da questo sole primaverile. È il periodo più bello per loro. La scuola è praticamente terminata. Stanno per iniziare le vacanze.
In questi mesi l’isola diventa per loro un grande parco giochi. Non devono più stare infagottati in maglioni e giubbotti a ripararsi dal vento gelido. Non devono più trascorrere interi pomeriggi chiusi in casa a studiare o a fare finta di studiare. Possono, invece, godere di questa bellezza paradisiaca. Passare da una caletta all’altra, saltare da uno scoglio all’altro. Per un attimo ripenso a quando ero anche io bambino. A quanto aspettavo le calde giornate di sole per andare al mare con i miei amici.
Lo facevamo anche quando le vacanze non erano ancora iniziate. Uscivamo da scuola, andavamo direttamente al mare, ci spogliavamo e ci tuffavamo indossando solo le mutande. Niente poteva spaventarci o scoraggiarci. E, anche se eravamo poco più che bambini, i nostri genitori non si preoccupavano. Sapevamo nuotare tutti benissimo. E come ci tuffavamo! Cercavamo gli scogli più alti e volavamo leggeri nell’aria, entrando in acqua con movimenti perfetti del corpo.
Per un attimo il mio mare mi ha restituito serenità. Poi, però, ripenso a Mustafà. Alla sua infanzia negata. E al fatto che non ho nemmeno avuto il tempo di consolarlo.
Il mattino successivo esco di casa, compro i giornali e mi siedo a un tavolino del bar per leggerli. E scopro, immediatamente, di essere diventato un complice. Complice di un mondo pervaso dall’apparenza.
Favour è stata per giorni protagonista di tutti i media, dalla carta stampata alla televisione, ai siti on line. Su Mustafà, invece, pochissime righe, solo per dire che un altro bambino ha perso i genitori in mare ed è stato salvato e trasferito in ospedale a Palermo. Leggendole mi sono sentito uno strumento, seppure inconsapevole, nelle mani di chi decide cosa abbia la dignità di diventare notizia, caso, emblema, simbolo. E non importava che anche questa volta fossi stato io a prendermi cura di Mustafà... Non c’era una sola foto di lui in braccio a me. Non era dato risalto a un bambino che, fra l’altro, aveva capito che la sua mamma era stata inghiottita dal mare.
Anche in questo il destino riesce a essere cinico e ingiusto. E chissà, mi sono chiesto, se Mustafà troverà subito una famiglia pronta ad accoglierlo o se invece sarà costretto a trascorrere mesi, anni, in cerca di nuovi affetti, di un padre e una madre disposti a prendersi cura di lui.
L’isola, in quei giorni, era piena di giornalisti. Uno di loro mi ha visto turbato e mi ha chiesto cosa stesse accadendo. Abbiamo parlato, gli ho raccontato le sensazioni che stavo provando in quel momento e lui senza battere ciglio: «Dottore, lei lo sa quanti sono i bambini come Mustafà e Favour? Quelli che perdono i genitori in mare e quelli che li hanno già perduti nei loro Paesi e vivono in orfanotrofi, costretti a trovare rifugio in edifici non ancora distrutti dalla guerra e dalla devastazione?».
Quelle che stava dicendo sono cose più che sensate. Mi ricordai di un servizio che avevo visto su Rai3, nella trasmissione «Mediterraneo», una delle poche a mandare in onda servizi di questo genere. Raccontava di un orfanotrofio a Homs, cittadina siriana devastata dai bombardamenti, dove ogni giorno veniva portato almeno un bambino rimasto l’unico superstite della propria famiglia. In quel servizio mi colpì una bimba che, nonostante tutto, trovava la forza di ridere e scherzare. Che guardava la telecamera fiera di conoscere l’inglese, e di saper contare, in quella lingua straniera, da uno a dieci. E con lei tanti altri bimbi accuditi con fatica da operatrici terrorizzate dall’eventualità, più che probabile, di un ennesimo attacco.
Il giornalista accanto a me continuava a parlare, ma io non lo stavo più ascoltando. Poi, disse un numero: settemila, e la mia attenzione tornò su di lui. «Dottore, lo sa quanti bambini e ragazzi soli sono arrivati quest’anno in Italia? Settemila. Partiti senza familiari dalla loro terra, o che li hanno visti morire tutti in ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Lacrime di sale
  4. Mare nostrum
  5. Una scarpetta rossa
  6. Non ci si può abituare
  7. Le ferite dell’anima
  8. La saggezza del piccolo Anuar
  9. Il destino in un sorteggio
  10. Una scelta definitiva
  11. L’orgoglio del riscatto
  12. Ritorno a Lampedusa
  13. Ciò che capisce un sindaco e non i «grandi» della terra
  14. «Te la sei cercata»
  15. Omar che non si ferma mai
  16. La crudeltà dell’uomo
  17. Il profumo di casa
  18. Il cimitero delle barche
  19. La generosità delle onde
  20. Il turista fuori stagione
  21. Il regalo più bello
  22. Braccia di giganti
  23. Persone «perbene»
  24. Il problema è l’uomo, non è Dio
  25. «L’erba tinta un mori mai»
  26. Favour dagli occhi grandi
  27. Donne in cammino
  28. 3 ottobre 2013
  29. Figli dello stesso mare
  30. Copyright