Roma, anno 797 ab Urbe condita (anno 44 dopo Cristo, inverno)
Publio Aurelio si levò dalla sella con la schiena che gli doleva, sfinito da due ore trascorse in ieratica immobilità sul seggio d’onore, con le spalle drittissime, il volto impassibile e il braccio che si levava rigido ad accogliere le suppliche.
«Grazie ai Numi, è finita!» esclamò con un sospiro di sollievo, vedendo l’ultimo dei clientes scomparire nel vestibolo. Aveva appena cominciato a srotolarsi di dosso la toga, che l’intendente Paride tossicchiò con discrezione, come era solito fare quando aveva da comunicargli una notizia spiacevole.
«Ci sarebbe qualcun altro, domine...»
«Per Giove Ottimo e Massimo, non ne posso più; fallo tornare domani!» sbottò il senatore, seccato.
«È una signora, domine, e ha aspettato tutta la mattina. L’ho ospitata nei quartieri della servitù, per non costringerla a una lunga attesa in mezzo agli uomini» precisò il verecondo amministratore. L’uso, infatti, voleva che alla salutatio mattutina del patrono convenissero i maschi più anziani delle famiglie protette; qualche volta, però, si presentavano anche vedove e orfane, forzate dal bisogno a sopportare l’imbarazzante contatto promiscuo.
Aurelio esitò: non vedeva l’ora di liberarsi dei calcei curiali, indossare un paio di morbide soleae e stendersi comodamente su un triclinio.
«Ho dato un’occhiata alla matrona in questione, domine. Forse varrebbe la pena di riceverla» intervenne il fido segretario Castore, esprimendo il suo giudizio – positivo ma non entusiastico – sull’avvenenza della supplice.
«Fatela passare in biblioteca; non ho alcuna intenzione di appollaiarmi di nuovo su quel trespolo!» cedette Aurelio, allontanando da sé l’austera sella di gala. Paride obbedì, senza nascondere il suo disappunto per quella grave deroga all’etichetta.
Poco dopo i servi introducevano una donna piuttosto giovane, con gli occhi bassi e il capo pudicamente coperto da una modesta palla color ruggine. Non appena rimasta sola col patrizio, sciolse il velo, rivelando il viso piacente dai tratti un po’ marcati e la bocca piena, che le dava un’aria imbronciata e sensuale a un tempo. Una ragazza del popolo, belloccia ma non troppo fine, di condizione libera e poco agiata, si disse Aurelio, valutandone rapidamente aspetto e abbigliamento.
«Grazie per avermi concesso un po’ del tuo tempo, nobile senatore. Sono Priscilla, figlia del defunto Vipsanio Prisco» si presentò la supplice, con un accento che ne denunciava la provenienza dai quartieri più umili.
«Hai marito?» chiese Aurelio, mentre osservava di sottecchi l’acconciatura della ragazza.
«Ero fidanzata...» esitò Priscilla, mordendosi le labbra, come se cercasse le parole più adatte per spiegarsi. «Con Papinio Postumio!» finì poi tutto d’un fiato.
Publio Aurelio trasecolò: l’unico Papinio Postumio che conosceva era un padre coscritto settantacinquenne, morto di vecchiaia proprio il giorno prima tra le braccia del figlio, della nuora e di uno stuolo di nipoti.
«Non il Papinio al quale sto pensando, vero?» domandò dunque il patrizio, non poco perplesso. L’anziano senatore era stato uno dei più tediosi campioni del mos maiorum, sempre pronto a tacciare chicchessia – e in particolare Aurelio – di mancanza di austerità e scarso rispetto verso l’antico costume dei padri. In breve, l’austero Papinio era l’ultimo degli uomini che Aurelio avrebbe immaginato tra le braccia della giovane e procace plebea.
«Proprio lui!» confermò invece Priscilla.
«Ma aveva già un figlio di quarant’anni, e poteva contare su ben nove nipoti!»
«Ciononostante stava per risposarsi.»
«Con te?» incalzò il senatore, sempre più incredulo.
«Con me» ribadì la ragazza. «Per questo l’hanno ucciso, perché non lo facesse!»
«La tua è un’accusa grave, per di più rivolta a una famiglia al di sopra di ogni sospetto» le fece notare il patrizio. Papinio il Giovane, erede del defunto, si stava rivelando un bacchettone peggiore del padre, e la moglie Annia era celebre in tutta l’Urbe per il rigore ottuso, prima ancora che per la straordinaria prolificità.
«Puah!» fece Priscilla con una smorfia. «Mistificatori, falsi come un sesterzio greco! Una genia di ipocriti senza cuore!»
E così, con poche, impietose parole, la ragazza liquidava una delle stirpi più illustri di Roma...
«Hai qualche prova per convincermi che Papinio si era davvero deciso a convolare a nuove nozze?» chiese Aurelio, scettico.
«Ecco il contratto di matrimonio!» rispose Priscilla, traendo da sotto la palla un papiro arrotolato. Il senatore vi dette una rapida occhiata: era tutto in regola... salvo un particolare non irrilevante.
«Manca il sigillo» obiettò.
«Non ha fatto in tempo ad apporlo!» ribatté la fanciulla, imperterrita.
«E allora?» domandò il patrizio, ben poco convinto.
«Papinio mi disse che avrei dovuto rivolgermi a te, se gli fosse successo qualcosa.»
«A me?» si meravigliò Aurelio. «Strano, credevo che mi tenesse in scarsissima considerazione...»
«Appunto!» spiegò trionfalmente Priscilla. «“Vai da Publio Aurelio” mi ha suggerito. “Soltanto uno scriteriato come lui ti presterà ascolto. Qualunque onesto cittadino si affretterebbe a metterti alla porta, ma Stazio, se ben lo conosco, non si farà sfuggire l’occasione di dar fastidio a una famiglia dabbene e timorata dei Numi come la mia!”»
«Ha detto proprio così?» mugugnò il senatore.
«Te lo giuro!» affermò la ragazza sputando in terra, in un gesto che avrebbe fatto inorridire qualunque matrona di nobili natali.
«È bello godere della fiducia dei colleghi» considerò Aurelio, sarcastico. «Ma che dovrei fare?»
«Dimostrare che Papinio è stato ammazzato e restituirmi l’eredità» replicò tranquillamente Priscilla. «Tutto qui.»
«Non lo pensare nemmeno, ragazza!» scosse la testa il patrizio. «Anche se, ammesso e non concesso, questo contratto portasse in calce una firma; anche se, ammesso e non concesso, Papinio Postumio avesse avuto intenzione di sposarti; anche se, ammesso e non concesso, fosse giunto a spezzare con te la focaccia di farro davanti al Flamine di Giove, non avresti ugualmente diritto a niente, in assenza di un testamento valido.»
«Per Ercole e tutte le sue fatiche!» inveì Priscilla. «Non possono cavarsela così, lasciandomi nei guai fino al collo!»
«Che intendi dire?» volle sapere Aurelio, incuriosito.
«Mio padre» spiegò la fanciulla «era un cliente dei Papinii e alla sua morte, qualche mese fa, mi presentai dal patrono per chiedere soccorso. Aspettavo buona buona nell’atrio, quando è passata la domina Annia, squadrandomi come se avesse visto un topo da fogna uscire dal forno della sua cucina. Rifiutava persino di annunciarmi, ma io ho insistito tanto che alla fine Papinio mi ha ricevuto, giusto per fare un dispetto alla nuora. Dopo avermi ascoltato distrattamente, ha promesso di trovarmi uno sposo tra i suoi clientes: un operaio stagionale, un disoccupato o qualcosa di simile... Io, però, sapevo bene come sarei finita, con il marito in giro tutto il giorno a mendicare inviti a cena, e i soli avanzi di qualche sportula da mettere in pentola!»
«Comincio a capire» sorrise Aurelio. «La soluzione che Papinio ti prospettava non era adeguata alle tue esigenze... così ti sei adoperata per suggerirgliene un’altra.»
«Oh, se è per questo, si è fatto convincere facilmente...» ammise Priscilla. «Difatti sono incinta.»
«Santi Numi!» gemette il senatore.
«Papinio» continuò la ragazza «voleva essere sicuro che fossi prolifica, prima di sposarmi. Dovevi vederlo, allorché ha saputo della gravidanza! Lui, sempre tanto severo, è scoppiato a ridere di gusto, immaginando la faccia che avrebbero fatto figlio e nuora nell’apprendere la notizia. E nessuno poteva trovar da ridire sul nostro matrimonio, mi ha spiegato, perché rientrava a pieno titolo nella tradizione degli antichi padri.»
«Vecchio astuto libidinoso...» commentò Aurelio, ricordando tra sé e sé un illustre precedente: Catone, il più severo campione del mos maiorum, rimproverato dalla nuora di bazzicare le serve, aveva reagito impalmando una giovane plebea, che gli aveva subito scodellato un marmocchio, erede del patrimonio paterno alla pari dei nobili fratellastri.
«Papinio, dunque, aveva preso bene la notizia.»
«Eccome! Avant’ieri si è messo a redigere il contratto nuziale, dichiarando che l’avrebbe fatto leggere ai suoi la sera stessa. La mattina dopo è stato trovato morto.»
«Dov’è la sua copia del documento?»
«Ovviamente l’hanno fatta sparire. Ma io non me ne starò zitta e cheta a subire questo sopruso: intendo far causa agli assassini e costringerli a riconoscere i miei diritti!» dichiarò Priscilla con voce perentoria.
«Impossibile, mia cara» la deluse Aurelio. «A Roma nessun figlio, legittimo o illegittimo, può avanzare pretese sul patrimonio paterno. I cittadini dell’Urbe decidono per testamento a chi lasciare i propri beni e hanno la facoltà di commetterli anche a un perfetto estraneo, diseredando la loro stessa discendenza. Quindi, anche se riuscissi a ottenere un riconoscimento di paternità – del che dubito fortemente –, non metteresti le mani su un solo sesterzio...»
«Voglio che quella gentaglia paghi per ciò che ha fatto!» insistette la ragazza.
«Intendi forse in senso letterale?» replicò il senatore, in tono palesemente sarcastico. «Certo, è increscioso che i parenti del vecchio caprone l’abbiano sottratto alle tue grazie con un efferato delitto; tuttavia, scucendoti un po’ di soldi, potrebbero evitare un’accusa di parricidio...»
«L’idea era proprio questa» ammise Priscilla con sfacciato candore. «Sono venuta da te perché Papinio era convinto...»
«Che io fossi abbastanza dissennato da prestare aiuto a una graziosa ricattatrice» concluse Publio Aurelio. «E invece si sbagliava: se scoprissi chi ha ucciso il mio collega, mi affretterei a denunciarlo, e tu rimarresti comunque a becco asciutto. Adesso che sai come la penso, vuoi ugualmente che mi occupi di questo affare?»
«Sì» affermò la fanciulla, decisa.
«D’accordo» ribatté il senatore. «Prima di tutto, allora, sarà bene chiarire una cosa: io non ho settant’anni, né una nuora da far schiattare di rabbia, e non sono il tipo che si fa mettere in testa idee matrimoniali da una piccola sfrontata... Capisci cosa intendo?»
«Oh, ti giuro che non ci pensavo per niente, nobile Stazio!» si affrettò a rassicurarlo Priscilla, coprendosi all’istante le spalle da cui, solo un attimo prima, aveva sapientemente fatto scivolare la palla.
«Mi compiaccio del tuo acume, ragazza mia. E ora» la accomiatò Aurelio «torna a casa, mentre io mi recherò a porgere le condoglianze ai parenti del tuo promesso.»
«Non ho nessun posto dove andare» si lamentò tuttavia Priscilla. «Il cenaculum della Suburra, dove vivevo con mio padre, appartiene ai Papinii e stamattina uno schiavo della famiglia è venuto a cacciarmi fuori...»
«Be’, qui non puoi certo rimanere» escluse Aurelio.
«Perché no?» chiese lei, facendosi più vicina.
«Lo sai benissimo, i...