Lo notò di colpo. Era un piccolo neo, così tondo e intrigante che pareva dipinto. Il volto della ragazza splendeva a pochi passi da lui e, ogni volta che si apriva al sorriso, il neo andava su e giù, spuntando solitario come una stella mattutina.
Il giovane Jon Leto la fissava a bocca aperta, incapace di distogliere lo sguardo da tutta quella luce misteriosa. Ne avvertiva il calore sulla pelle e aveva la sensazione che, se si fosse avvicinato a lei, avrebbe subìto la sorte di una falena, si sarebbe squagliato ai suoi piedi in un battito d’ali. Non si mosse, non poteva, gli mancavano le forze, anche se la cosa che più desiderava in quel momento era di colmare con uno slancio la distanza che li separava e baciarle prima il neo, poi le labbra, mille volte, fino ad acquietarsi e guarire la febbre che già lo stava divorando.
Chiuse gli occhi con l’ingenua speranza di liberarsi dalle vampate che gli provocava la vista della ragazza. E invece ottenne il contrario: l’immagine non si cancellava dalla sua retina, anzi era diventata più luminosa e addirittura sprigionava ondate di calore come se ci fosse un incendio a un respiro da lui. Il rumore della sala gli esplodeva addosso con il ritmo allegro di un fuoco d’artificio: risate, voci baritonali e stridule, americane e straniere, musica dal vivo, un canto corale che più stonato e felice non poteva essere.
Era una notte d’estate del 1946, la gente continuava a festeggiare la fine della guerra come se da allora fosse passato al massimo un mese e non un anno. I più casinisti erano gli stranieri, in particolare gli italiani, che cercavano di affogare i lutti nell’ebbrezza dell’alcol e del ballo. Andy Varipapa, il suo grande amico, stava raccontando una barzelletta e tutta la tavolata rideva prima ancora che l’avesse terminata. E anche Jon rideva, a occhi chiusi, non tanto per la barzelletta già sentita cento volte ma perché s’immaginava la mimica claunesca di Andy, che festeggiava l’ennesima vittoria a un torneo di bowling assieme agli amici di Los Angeles.
Aprì gli occhi e per poco non svenne: lei gli era di fronte, ora. Aveva labbra color rosso vermiglio, denti bianchissimi, pupille accese di un verdazzurro, lunghi capelli a onde castano chiaro, un corpo snello e prosperoso nei punti giusti. Sorrise divertita, poi liberò una voce frivola e sensuale, chiedendogli di dove fosse. Non lo aveva mai visto in quel posto.
Lui le rispose che veniva dall’Italia e viveva negli Stati Uniti da nove mesi: «I’m Italian, I’ve been in the US for nine months».
Lei gli tese la mano. Il contatto dei polpastrelli provocò a entrambi una scossa elettrica sotto pelle. Jon, per la prima volta da quando era partito, fu felice ed ebbe la sensazione di essere arrivato nella Merica non tanto per vendicare il padre, ma per incontrare lei, la ragazza più affascinante del mondo. Il pensiero gli scombussolò i piani e finalmente si sentì quello che era: un giovane ventenne in balia dei capricci della vita, aperto alla bellezza del mondo, senza il peso delle responsabilità familiari che gli incurvavano le spalle e lo avevano condotto fin lì.
«My name is Jonathan Leto, Jon for friends» si presentò stringendole la mano con un ardore che poteva sembrare sfrontato, se lui non fosse arrossito.
«Hi» rispose lei. «I’m Norma Jeane.» E le fece tenerezza quel rossore, gli avrebbe confessato in seguito, perché nella sua vita aveva dovuto combattere spesso contro uomini che, come minimo, le mettevano le mani addosso; soprattutto le piacquero il baffo sottile e lo sguardo brillante da sognatore che lo facevano somigliare a Clark Gable, il suo attore preferito. Perciò fu lei a prendere l’iniziativa: lo spinse sulla pista e lo invitò a ballare.
Da quel momento fecero coppia fissa. Jon, che dapprima si muoveva goffo, poi sempre più sciolto, durante le pause rispondeva alle domande curiose di Norma, come cominciò a chiamarla, convinto che Jeane fosse il suo cognome.
Sì, l’America gli piaceva abbastanza, le disse, sorvolando però sul fatto che all’arrivo, se non avesse avuto l’appoggio di Andy Varipapa, se ne sarebbe ritornato indietro, in Italia: New York lo aveva accolto con l’indifferenza della gente che affollava il molo. Il caos nelle strade su cui sfrecciavano macchine di ogni tipo, il frastuono da manicomio con gli acuti dei clacson, quegli odori a lui sconosciuti e sgradevoli, e soprattutto gli edifici così enormi e alti che rimpicciolivano il cielo, lo soffocavano, facendolo sentire come un bambino smarrito in un fitto e puzzolente bosco di alberi giganti. Non era stato facile i primi tempi, le confessò, per un giovane cresciuto in un piccolo paese, dove conosceva tutto e tutti.
Come mai parlava così bene inglese? Perché la madre era americana. E questo per lui era stato un grande vantaggio rispetto agli altri emigranti, che arrivavano senza sapere nulla dell’America, ammise Jon, e difficilmente ne imparavano bene la lingua.
Dove lavorava? A Brooklyn, in un ristorante italiano a conduzione familiare, gente del suo paese che lo trattava come un figlio, e quando occorreva seguiva Andy Varipapa nei suoi tour. Era venuto a Los Angeles grazie a lui. Lo conosceva di fama, Norma? No? Ma come, era il più grande campione di bowling del mondo, soprannominato “Andy The Greek”. Uno che aveva girato tanti film sul bowling proprio a Hollywood. Un grande amico di famiglia, pure parente alla lontana da parte di padre.
Jon non era proprio crudo nei balli perché al suo paese si esercitava a ogni festa, ma di fronte a una provetta ballerina come Norma pareva un pivellino e non gli restava che imitarne i passi disinvolti e perfetti. I musicisti erano instancabili e molto bravi, in particolare il clarinettista, disse Jon con competenza e svelò che anche lui suonava il clarinetto nella banda musicale del suo paese e, a ben pensarci, era una delle cose che più gli mancavano da quando era partito. Nessun accenno al vero motivo che lo aveva spinto in America, perché sarebbe stato troppo complicato e forse compromettente.
Più tardi, quando si sedettero per bere un drink, Norma gli chiese addirittura della sua famiglia. Jon le sorrise sorpreso: fino a quella sera nessuno, a parte Andy e qualche paesano, si era interessato alla sua vita. E raccontò in breve del padre Carmine Leto, emigrato tre volte a New York finché aveva deciso di rientrare in Italia con Shirley, la moglie americana, e avevano avuto tre figli. «Insomma, una famiglia felice» concluse con un velo di tristezza negli occhi, «almeno fino alla scomparsa di mio padre giovane, quando io avevo cinque anni.»
Il bel volto di Norma non era più sorridente, ora, e pure la sua voce cambiò tono e divenne commossa: «A me è andata peggio. Dalla mia nascita la mamma soffre di disturbi, qui nella testa. Il mio vero padre non l’ho mai conosciuto e so cosa vuol dire crescere senza».
Fu sopra quel dolore dell’assenza che si posarono le loro mani, una sull’altra, per tenerlo a bada, soffocarlo insieme. Poi si guardarono negli occhi e a entrambi parve di conoscersi da sempre.
Dalla pedana, dove suonava la band, partì una musica struggente, uno slow fox lo chiamò Norma, che si mise a canticchiarne le parole: «Blue Moon... You saw me standing alone... Without a dream in my heart... Without a love of my own... Blue Moon».
Stavolta fu Jon a invitarla a ballare. Per molto tempo non parlarono, e non perché avessero esaurito le curiosità reciproche ma per concentrarsi a fondo sulle emozioni che stavano provando. Lui la stringeva cauto, ne sentiva a sprazzi la turgidezza del seno, la teneva prigioniera nella morsa delle sue braccia affamate, e intanto sudava, fissandole da vicino il neo rapace sulla guancia sinistra, perfettamente incastonato come un prezioso gioiello nella linea del sorriso, a portata di bacio. Dunque non stava sognando, era vero quel calore che gli incendiava il corpo e, per tutto il tempo del ballo, ripeté mentalmente una frase profetica: «Dio, che bella, pare un’attrice».
Quella notte Jon non riuscì a dormire, eccitato in tutti i sensi all’idea di rivedere Norma e magari di stringerla ancora tra le braccia. L’appuntamento era per il giorno dopo al Bowling Center, non molto distante dall’albergo dove lui alloggiava con Andy Varipapa. «Sarà uno spettacolo eccezionale» le aveva detto con entusiasmo per allettarla, salutandola con un bacio sulla guancia del neo.
Si addormentò all’alba per il tempo di un sogno mentre una debole luce cominciava a filtrare attraverso le imposte. Ma non sognò lei, come avrebbe desiderato, i sogni sono imprevedibili più della vita stessa e non si lasciano addomesticare dalla volontà di nessun sognatore.
Quando si svegliò aveva davanti agli occhi immagini confuse e scollegate che ancora aleggiavano nell’aria come sbuffi di nuvole nere: il padre che lo fissava dalla foto appesa alla parete della sua casa, lo sguardo febbricitante, le labbra bianche e screpolate, e il paese che s’intrufolava prepotente nel sogno, la piazza schiacciata dal cielo di nuvole basse, le rondini che cadevano morte sui tetti delle case o sull’acciottolato delle strade, poi di nuovo il padre che faceva la bocca a pesce, gli voleva parlare, voleva dirgli la verità sulla sua morte, ma la voce restava imprigionata nella bara, incapace di perforare i metri di terra su di sé e arrivare nella Merica. Il neo di Norma, le sue labbra rosso vermiglio, gli occhi luminosi fecero capolino pochi secondi dopo il risveglio, spazzando via gli ultimi brandelli di buio doloroso, e il sole inondò la camera d’albergo.
Jon rimase a letto intontito, sforzandosi invano di riaddormentarsi. Si alzò verso le dodici e andò in bagno a radersi, curando con attenzione i baffi alla Clark Gable, che tanto piacevano a Norma. Quel giorno, mentre si guardava allo specchio, scorse nei propri occhi la felicità dell’attesa e per la prima volta da quando era partito alla ricerca dei micidianti del padre non gli dispiacque di trovarsi lontano da casa.
Sentì bussare alla porta della camera. «Jon, sei sveglio? Vieni che andiamo a mangiare un boccone.» Era la voce di Andy Varipapa.
«Arrivo subito, aspettami giù, per favore» rispose. Si infilò i pantaloni e una camicia bianca, i calzini e le scarpe di vernice, e raggiunse la sala da pranzo.
Andy lo aspettava a un tavolo accanto alla finestra. «Buongiorno, Jon. Dormito bene?»
«Inzomma» rispose il giovane, con un brillio negli occhi che a Andy non sfuggì.
«Il pensiero di quella ragazza non ti ha fatto dormire, eh? Comunque ti è servito. Non ti ho mai visto così felice da quando sei qua.»
«No, non ho dormito perché avevo un forte mal di testa. Ieri sera ho bevuto troppo.»
Andy fece un gesto repentino con la mano, come per scacciare una mosca dalla visuale di entrambi. «Non dire cioterìe» gli disse, e sorrise ironico. Poi ordinò il solito breakfast di cui entrambi erano ghiotti: due uova al tegamino e tre fette a testa di pane tostato, patate con salsicciotti, bacon fritto, spremuta d’arancia, pancakes e caffè.
Era impossibile mentire a Andy, capiva tutto al volo, coglieva la minima turbolenza dell’anima e, con un soffio di voce, a volte un’occhiata, faceva cadere come birilli le barriere di difesa che gli interlocutori tentavano invano di tenere in piedi con innocenti menzogne.
«È davvero bella. L’avevo notata pure io, che avrei ancora i denti per carne così fresca, ma mia moglie poi me li spaccherebbe con una boccia da bowling.» Risero entrambi. «Hai un appuntamento con lei, vero?»
«Sì, stasera. Al Bowling Center.»
«Ho capito: stasera mi toccherà dare il meglio per farti fare bella figura.» Aprì le narici a frogia di cavallo e inspirò vistosamente: «Profumi come un dandy. Anzi no: come una puttana!».
«È il tuo profumo, me lo hai regalato tu al compleanno; è la seconda volta che lo uso.»
Risero di nuovo, finché fu servito il breakfast e cominciarono a mangiare con gusto.
Andy finì per primo. «Io salgo a fare un’oretta di pennichella. Poi vado ad allenarmi. Ci vediamo al Bowling Center.» Si alzò da tavola. Era basso e tarchiato, un torello agile, un concentrato di muscoli e nervi. «Ti consiglio di andare a riposarti, se vuoi essere in forma stasera.» E se ne andò a passi leggeri, con il piglio di un ballerino di valzer zoppicante.
Jon sorrise, gli occhi ricolmi di gratitudine.
A quell’uomo doveva tutto. Era stato Andy a esaudire il suo desiderio del viaggio nella Merica: gli aveva spedito il biglietto della nave di seconda classe per evitargli le sofferenze patite in terza da lui ragazzino e da Carmine Leto. I primi tempi lo aveva ospitato a casa sua e poi era riuscito a trovargli una sistemazione come cameriere alla Family Tavern, un ristorante-bar sulla DeKalb Avenue di Brooklyn. Jon abitava in una stanza sopra il ristorante, non pagava l’affitto, mangiava gratis e, oltre a un minimo salario, riceveva la mancia dai clienti che serviva. Una pacchia, per uno abituato a zappare dalla mattina alla sera, rischiando a ogni annata di trovarsi con un pugno di mosche.
Il padrone era il marito di una prima cugina di Andy, Carmela Varipapa. Si chiamava Frank Alessio, un pezzo d’uomo alto e intraprendente, che da Hora era partito nel 1899, aveva faticato a lungo nell’edilizia e in una farm di proprietà, e nel 1941 aveva aperto la Family Tavern. Per ridurre al minimo le spese, Frank Alessio faceva lavorare cinque dei suoi undici figli, che gli ubbidivano a bacchetta e per giunta non venivano pagati. Anche la moglie, svelta e instancabile malgrado il fisico robusto, dava una mano alle due cameriere americane e alla coppia di cuochi sopraffini: il lucano Giorgio Sironni detto il Lucanese e la sua consorte napoletana, Ornella. Il personale era dunque più che sufficiente per il ristorante, ma Jon era stato assunto volentieri.
«Dovete trattarlo come un figlio mio» aveva raccomandato Andy ai coniugi Alessio. E così era stato. Si erano fidati di Jon. Più di tutti si era fidato Andy Varipapa. Eppure lo conosceva solo tramite una lettera accorata che Jon gli aveva scritto da Hora, non sapeva se fosse un farabutto o una brava persona o un vagabondo, sapeva però che era figlio di Carmine Leto, l’uomo che gli aveva fatto da padre durante la traversata e per qualche mese a...