“Continuerete a riempire la terra di storia e il tempo di vita” avevano detto i suoi genitori prima di morire. Lo avevano detto per consolarla. O forse per consolarsi. “E non lasciar svanire i ricordi. Mai. Anche quando saranno solo un filo di ragnatela. Ci siamo capiti?”
“Sì” aveva risposto lei.
“Promettilo.”
“Ve lo prometto.”
C’era stato un tempo, nel tempo del mondo, in cui il ricordo di chi restava durava anni, decine di anni; la vita intera di un uomo che lì in Europa, in Germania, a Berlino, era solita concludersi da vecchi, la pelle rugosa e i capelli bianchi.
Nell’aprile del 1978 quell’epoca era solo una leggenda, qualcosa da raccontare attorno al fuoco, di sera, stretti gli uni agli altri.
Christa si passò tra i capelli le dita luride che sbucavano dai mezzi guanti di lana: avevano il colore delle castagne e pensò che bianchi non sarebbero diventati mai, non avrebbero fatto in tempo. Aveva compiuto da poco quattordici anni e Nora, per l’occasione, le aveva regalato un braccialetto di pietre azzurre trovato in un appartamento di Zehlendorf, pietre simili a quella incastonata nel ciondolo che Christa portava sempre al collo e che era appartenuto a sua madre.
Era una notte di quelle che il freddo brucia ancora le labbra e le guance, e ci si chiede se l’inverno durerà per sempre. Avvolta in coperte che puzzavano di cane bagnato e sudore e terra e brace, Christa spulciava le ciocche per tenere ancora un po’ con sé quei pensieri: il ricordo dei genitori, la vita di prima, il tempo che non esisteva più.
Il palazzo era immerso nel silenzio. Si sentiva il respiro delle ragazze addormentate, lo scricchiolio dell’edificio come ossa d’un vecchio animale, e tutt’attorno il buio della Pfaueninsel, l’isola che le ragazze dell’Havel avevano trasformato in casa nei primi mesi del 1976, quando le violenze per le strade si erano fatte insostenibili e i ragazzi sfogavano la loro disperazione in modo incontrollato. Nora, che aveva da poco compiuto quindici anni, e alcune compagne della sua squadra di pallavolo, avevano deciso di cercare un luogo isolato e facile da difendere. Ed erano arrivate sulla Pfaueninsel.
Christa si girò su un fianco, infilò la mano tra le coperte che le facevano da materasso, trovò quello che cercava e lo alzò davanti agli occhi, scrutandolo alla tenue luce della luna: la custodia di un disco in vinile. Al centro, su sfondo nero, c’era il disegno di un prisma che rifrangeva un raggio di luce trasformandolo in un arcobaleno. Nell’angolo in alto un adesivo tondo con il nome del gruppo, Pink Floyd, e il titolo dell’album, The Dark Side of the Moon.
Angela, la figlia dei vicini di casa che andava a tenerle compagnia quando suo padre e sua madre rientravano tardi dall’ospedale, glielo faceva ascoltare di continuo cercando di convincerla a mettere via il violino, Bach e tutta quella roba lagnosa che invece, per Christa, era la prova stessa dell’esistenza di Dio. Il disco glielo aveva regalato poco prima che il virus se la prendesse.
Christa tirò fuori il vinile dalla custodia e passò i polpastrelli sui solchi; pensò che sarebbe stato grandioso se fosse bastato quel tocco a far scaturire la musica, visto che ormai, senza elettricità, non c’era più modo di ascoltarli, i dischi. Conosceva alcune strofe a memoria. Come quella di Time quando Richard Wright canta: Sono stanco di stare sdraiato al sole, sto a casa a guardare la pioggia, tu sei giovane e la vita è lunga e oggi c’è molto tempo da ammazzare.
La canticchiò nel buio.
In quel momento, in quel piccolo castello costruito da Federico Guglielmo II di Prussia sulla punta meridionale di un’isoletta sull’Havel chiamata Pfaueninsel, l’Isola dei pavoni; le parole della canzone sulle labbra; i corpi caldi di Nora e del piccolo Theo accanto a lei; ecco, in quel momento, per un attimo, Christa sognò di potersi alzare e di andare a spiare attraverso la porta della camera da letto i corpi addormentati dei suoi genitori, immersi in un sonno gentile.
Ma solo per un attimo.
Perché poi l’urlo di un animale notturno attraversò la notte e le stanze del palazzo. Facendole stringere il disco al petto. Come uno scudo.
«Cos’è stato?» chiese Wolfrun.
«Qualunque cosa fosse, spero di non incontrarla» disse Caspar. Quindi si voltò verso i due ragazzini che stavano perlustrando il tratto di bosco che li separava dall’acqua: «Allora, li avete trovati?».
«Perché non viene lei a cercarli visto che li ha nascosti lei?» rispose quello magro e dinoccolato che si chiamava Bartholomäus e aveva dodici anni, indicando Wolfrun, l’unica ragazza del gruppo.
Barth era vestito di nero. Erano tutti e quattro vestiti di nero: sciarpe, cappelli, scarpe. Fosse stato giorno si sarebbero viste incrostazioni di sudiciume sui pantaloni e sulle giacche, ma era notte, e la notte nasconde lo sporco pur non impedendo il male. «E fa pure un freddo pazzesco stanotte.» Si alitò tra le dita. «Non è che potremmo…»
«Potremmo gettarti nell’Havel, Bartholomäus. E farti scoprire quanto è fredda l’acqua del fiume.»
Wolfrun aveva parlato senza voltarsi, gli occhi rivolti alla sponda della Pfaueninsel, un chilometro quadrato di bosco, a forma di cavalluccio marino. Muoveva le dita con scatti nervosi, come stesse contando.
Bartholomäus sbuffò e bofonchiando tornò a immergere lo sguardo nella boscaglia che infradiciava le caviglie e graffiava le mani.
«Hai detto qualcosa?» chiese Wolfrun.
«No. Stavo…»
«Mi sembrava avessi detto qualcosa.»
«Volevo chiedere… dov’è che li hai lasciati? Di preciso, dico.»
«Tra gli alberi.»
Bartholomäus strabuzzò gli occhi e allargò le braccia. «Per tutte le fogne, è un bosco, Wolfrun, un bosco…» disse. «Ci sono alberi ovunque.»
Wolfrun sorrise scoprendo i denti bianchi, regolari; gli occhi stretti come due tagliole. «È un bosco, già, ci sono gli alberi…»
Caspar, il più vecchio del gruppo con i suoi sedici anni, iridi tanto chiare da sembrare bianche, stava in disparte, la schiena appoggiata a un tronco. Prese tra due dita una formica che gli stava camminando sull’orecchio e la spappolò. Cercava di tenere a bada il gelo con piccoli scatti elettrici della muscolatura. Scrutò con attenzione Wolfrun e si chiese cosa sarebbe successo se alla morte di Chloe fosse diventata lei, la guida di Tegel – l’aeroporto che, insieme a un centinaio di bambini e ragazzi di entrambi i sessi, avevano occupato dopo l’esplosione dell’epidemia. Per fortuna, pensò, Wolfrun aveva solo quattordici anni, e nessuno avrebbe voluto come guida una ragazzina di quattordici anni. Oltretutto matta da legare. Neppure quelli di Tegel.
Ricordava con assoluta precisione la prima volta che l’aveva vista: stava facendo a botte con un sedicenne sovrappeso per una scatola di fagioli. Alla fine lei che di anni ne aveva da poco compiuti dodici aveva perso i fagioli – il ragazzo mezzo orecchio.
«Eccoli!» urlò d’un tratto Gotz, il tipetto massiccio e con il viso straziato dall’acne che stava battendo il sottobosco insieme a Bartholomäus.
Tutti si voltarono.
Brandì i remi alzandoli sopra la testa. «Ma ce ne sono solo tre.»
«Il quarto ce l’hai sotto il piede, idiota» disse Bartholomäus raggiungendolo.
«Idiota? Io idiota? Chi li ha trovati i remi, eh? Vuoi che ti dimostri chi è più idiota tra noi due? Vuoi che lo dica a Wolfrun?»
«Piantatela» disse Caspar staccandosi dal tronco. «Ma che vi prende? Sembrate dei poppanti.» Storse la bocca e modulò una vocetta stridula. «Vuoi che lo dica a Wolfrun? Vuoi che faccia quello che ha detto Wolfrun? Portate qui i remi, invece di perder tempo. Non ho intenzione di passare la notte dietro a quest’accidenti di bambino. Prendiamolo e andiamocene. Tempo due ore e voglio essere al caldo accanto a un fuoco.»
«Avremmo dovuto venire in barca da Tegel» disse Bartholomäus. «Io lo sapevo che…»
«Così, Barth, sarebbe stato più semplice buttarti in acqua.» Wolfrun camminò verso di lui con passi rapidi. Bartholomäus scattò all’indietro, inciampò in una radice, cadde e batté il gomito; una scarica di dolore gli esplose lungo il braccio. Contrasse il viso in una smorfia. Wolfrun lo superò senza degnarlo di uno sguardo. Raggiunse Gotz e gli strappò i remi dalle mani. «Andiamo» disse.
Un uccello, pensò Christa. Dev’essere qualche tipo di uccello, forse un falco. Nascose il disco, infilò il cappello con il paraorecchie e si avvolse tra le coperte per proteggersi dal freddo. Mosse le dita dei piedi per scaldarle. La caviglia pulsava irradiando fitte di dolore: quella mattina s’era fatta male andando a raccogliere legna.
Oltre il vetro della finestra notò una costellazione; la riconobbe e sorrise: era la cintura di Orione. Pensò a suo padre. A quando una sera d’estate, al mare, di Orione le aveva raccontato la storia. Aveva detto che era un gigante. Aveva detto che era stato generato dalla pipì di tre Dei: Giove, Nettuno e Mercurio. (Lei aveva riso e si era rotolata sulla sabbia tenendosi la pancia.) Aveva detto che un giorno quei tre Dei – Giove, Nettuno e Mercurio – in viaggio per chissà dove, avevano chiesto ospitalità a un contadino che abitava in una misera capanna. Il contadino li aveva scambiati per normali viandanti e non solo li aveva ospitati, ma con grande generosità aveva condiviso il suo cibo e il suo vino.
A quel punto gli Dei si erano...