Chiunque vi dica che avere diciannove anni sia una cosa fantastica è un imbecille.
E lo dice perché non si ricorda com’era avere quell’età.
Non si ricorda come ci si sente a essere costantemente arrabbiati, confusi e diversi.
Sbagliati, sfigati, soli e sempre con qualcosa in meno rispetto agli altri.
No, non se lo ricorda perché dopo va anche peggio.
Dopo ci sono gli impegni, le responsabilità, il lavoro, la casa, la famiglia, persone di cui occuparsi...
Il tanto desiderato pacchetto completo del “diventare adulti”.
Peccato che io una parte del pacchetto l’avessi già ricevuta prima del tempo.
E senza nemmeno chiederla.
Alcuni di noi giungono a questo mondo a bordo di carrozze dorate trainate da cavalli bianchi, atterrando delicatamente su una morbida coperta di cashmere, e il loro cammino sarà per sempre disseminato di profumati petali di rosa, altri invece ci arrivano trascinati da una mareggiata, sbattuti dalle onde contro gli scogli, e raggiungono la riva boccheggiando, coi capelli pieni di alghe e sabbia.
Devo specificare di quale gruppo facessi parte?
Non era stato sempre così.
O almeno, non era andato sempre tutto così male.
C’era stato un momento in cui mi ero sentita protetta e all’asciutto sulla spiaggia, avvolta in un poncho di spugna a fiori gialli e rossi, con una ciambella fritta in mano che mangiavo col mio sorriso sdentato.
Un momento in cui mi era permesso essere semplicemente una bambina felice e non un indefinito “qualcos’altro”.
Un momento fatto di compiti delle vacanze, di giochi in cortile, di sonnellini pomeridiani e “finisci quello che hai nel piatto”.
Poi, da un giorno all’altro era cambiato tutto.
Mia mamma aveva smesso di cantare e di ritagliare ricette dalle riviste e mio padre si era trasformato, dal mio eroe col mantello rosso che chiamavo “papà”, in un imprevedibile estraneo.
Uno che, se mancavano i tovaglioli a tavola, era capace di scatenare l’inferno.
E io me ne sentivo orrendamente responsabile.
Perché ero straconvinta che il fatto che stessi crescendo c’entrasse qualcosa.
Non ero più quella bambina maneggevole che bastava mettere seduta per terra con un libro da colorare e avrebbe finto di non accorgersi degli insulti e delle porte sbattute, ero diventata la piccola paladina degli oppressi che si aggrappava alle sue gambe per impedirgli di picchiarla ancora una volta.
O di andarsene di casa ancora una volta.
Per questo avevo sviluppato un sistema di sopravvivenza che mi permetteva di muovermi con cautela in una realtà delimitata da un filo dell’alta tensione dove, se non stavi più che attento, rischiavi di rimanere folgorato.
Il perché del suo cambiamento non l’ho mai capito del tutto.
Ma credo fosse un insieme di cose che d’improvviso gli erano sfuggite di mano, deludendo le alte aspettative che nutriva rispetto ai suoi progetti.
La ditta non rendeva più come prima, i clienti preferivano la concorrenza, mia madre non era all’altezza della sua intensa vita sociale, e noi figli non facevamo che “pretendere” affetto da lui.
Evidentemente si era sentito travolto da quegli eventi che sfuggivano al suo controllo. E la sua reazione era stata quella di punirci tutti, per non essere come voleva lui.
Per non essere “vincenti”, per non essere ambiziosi, per essere solo, banalmente, normali, e da quel giorno aveva cominciato a disprezzarci.
Di un disprezzo freddo, calcolato, assoluto.
E noi avevamo cominciato a muoverci su un terreno minato, dove un passo falso significava ritrovarsi una settimana in punizione o pieni di lividi.
Vivevamo una doppia vita: quella che cominciava quando lui usciva di casa al mattino, e quella che ci faceva accapponare la pelle quando sentivamo infilare la chiave nella toppa e il colpo di tosse secco che annunciava il suo rientro.
Nel primo caso c’era un sospiro di sollievo, la radio accesa con la mia musica preferita, la mamma al telefono con le amiche, aria fresca di primavera anche durante l’inverno più gelido, ma il suo ritorno ci trasformava in camerieri in livrea durante la visita ufficiale di sua maestà, che si affannano a controllare che sia tutto perfetto.
La cena era il momento peggiore.
Se aveva avuto una buona giornata sapeva essere divertente, ci raccontava tutto nei dettagli caricando i particolari delle scene in cui schiacciava il “nemico” senza pietà (quasi sempre un fornitore che voleva emettere fattura a novanta giorni), si complimentava con la mamma per il pollo ai peperoni, e mi raccontava qualche aneddoto sulla sua infanzia disastrata, giusto per sottolineare quanto fossi fortunata a non essere nata povera e ad avere un pasto caldo tutte le sere.
Odiavo l’espressione “pasto caldo”.
Quando era di cattivo umore (nel 92 per cento dei casi) non potevamo fare altro che guardare fisso nel piatto e sperare che passasse.
Ma non passava mai così in fretta e mai in maniera indolore.
Ogni volta tentavamo di prevedere il pretesto.
Quale appiglio avrebbe scelto per ricordarci quanto fossimo stupidi, incapaci e inaffidabili?
Cosa si sarebbe inventato per scatenare di nuovo l’apocalisse? Quale immenso affronto alla sua persona era stato inflitto stavolta? La pasta scotta? Il mio 5 in matematica? La bolletta del telefono?
Aspettavamo lo scoppio della tempesta contando i lunghissimi minuti scanditi dal ticchettio dell’orologio della cucina.
E il sugo della pasta cambiava sapore. Sapeva di paura.
Un sacco di paura.
Perché lui era capace di farti davvero paura.
Era grosso, era forte, e ti urlava nelle orecchie cose orribili.
Ed era un vigliacco.
Perché era facile prendersela con noi.
Fossi stato un maschio grosso e cattivo non si sarebbe mai azzardato.
Ma ero solo io, piccola e insignificante.
Non era una vita possibile. Ma mia mamma non se ne sarebbe mai andata.
Non che non volesse, ma non sapeva come fare.
Non aveva idea di come organizzarsi, di come affrontare un divorzio, di come mantenere una ragazzina e un bambino piccolo.
Non avrebbe mai chiesto aiuto a nessuno, e comunque non era una soluzione che avrebbe mai considerato.
Le era stato insegnato che un matrimonio è per sempre, e questa era l’unica cosa che contava.
Poco male se era infelice, se era stata tradita e picchiata: un giuramento è un giuramento.
Se era stato fatto davanti a Dio, poi, non ne parliamo.
Quindi pregavo per arrivare a diciotto anni, andarmene di casa, iscrivermi all’Accademia di Belle Arti, diventare una grande artista e non tornare mai più.
Ma poi le cose si sono messe anche peggio e io sono rimasta qui, a prendermi cura del mio fratellino.
E a parte questo la mia vita andava a gonfie vele...
Non potevo non notare quanto la mia storia somigliasse a quella dell’odiosa Cenerentola.
Perché anche nel mio caso mio padre si era risposato con una stronza che mi odiava, e che gli aveva fatto il vuoto intorno senza che lui se ne rendesse nemmeno conto – fortunatamente per me però sua figlia (“la favolosa Susie”) viveva col papà negli Stati Uniti e dovevo sopportarla solo per Natale e una decina di giorni d’estate.
Che poi era la durata di tempo massima che riuscivano a sopportarsi madre e figlia.
La fata madrina però non era mai venuta da me a dirmi: “Piccola mia, che capelli orribili e che mani rovinate che hai e che vestiti tristi... adesso ci penso io!” e bidibi bodibi bù, mi trasformava in Chiara Ferragni.
No, perché quando le cose nascono storte lo fanno con grande coerenza e continuano così per il resto della vita.
E giuro che non mi piaceva per niente sentirmi così, negativa, musona e arrabbiata, ma quando sei abituato a vivere sempre come se ci fosse un allarme bomba, finisci col diventare diffidente.
Specialmente se l’allarme bomba suona in casa tua.
Avevo finito il liceo artistico da un anno e mi ero diplomata con una buona media, nonostante tutto.
Il mio professore di disegno mi aveva ripetuto novemila volte che avrei dovuto iscrivermi all’Accademia, ma alla fine non l’avevo fatto.
Ci ero passata davanti praticamente ogni giorno, cercando il coraggio di andarmi a iscrivere.
Ma ogni volta che raggiungevo la soglia mi prendeva il panico e trovavo una scusa per non farlo.
E di scuse ne avevo diverse.
Mio padre che insisteva nel dire che quella artistica non era una carriera, il commercialista era un lavoro, il dentista era un lavoro, l’avvocato anche, non certo dipingere Madonne col gessetto in via Calzaioli.
A forza di ripetermi che sarei sempre stata mediocre avevo finito per crederci. Forse alla fine aveva ragione lui che mi aveva messo al mondo e vedeva cose che io non riuscivo a vedere.
Se fossi riuscita a realizzare il mio sogno sarei dovuta andarmene di casa e Filippo sarebbe rimasto lì e con gli anni si sarebbe trasformato in uno di loro e non po...