MONTANA
Il cavallo era una giumenta Appaloosa grigia di quattro anni di nome Tico Chiz, ma il master chief Gil Shannon la chiamava semplicemente Tico. Shannon trascorreva molto tempo con la moglie, Marie, e la suocera nel loro ranch a Bozeman, nel Montana, ma la sua vera casa era la marina. Passava gran parte della vita o al Centro di addestramento navale di Hampton Roads a Virginia Beach, in Virginia, o in missione in qualche remoto angolo del globo, occupato in quello che Marie definiva – in tono di scherno, e un po’ troppo spesso per i suoi gusti – “servire i padroni della sua azienda”.
La vita dei civili al seguito dell’esercito è difficile, ma essere la moglie di un Navy SEAL a volte può essere tremendo, e Marie provava un’amarezza che Gil vedeva aumentare di anno in anno. La dura verità era che loro due avevano solo poche cose in comune: entrambi amavano il Montana con tutto il cuore, avevano i cavalli nel sangue e provavano un’attrazione reciproca abbastanza forte da rivaleggiare con la forza di gravità.
Gil infilò un piede nella staffa e si issò in sella, mentre Marie entrava nella stalla in jeans, stivali e una giacca Carhartt rosso scuro; lui le scoccò un’occhiata di approvazione, toccandosi la tesa del cappello. «Signora» la apostrofò, con gli occhi azzurri che sorridevano.
Marie contraccambiò il sorriso con la stessa timidezza che mostrava dopo che avevano fatto l’amore, gli occhi castani che brillavano e i lunghi capelli, castani anch’essi, raccolti in una treccia scomposta. Aveva trentasei anni, uno più del marito, e un’intelligenza come minimo pari alla sua. Incrociando le braccia, si appoggiò a un palo di sostegno ingombro di finimenti. «Sai che probabilmente quella cavalla ha dimenticato il tuo nome l’ultima volta che te ne sei andato?»
Gil sogghignò, portando Tico verso la parete dalla quale staccò un Browning .300 Winchester Magnum con mirino telescopico Nightforce da 3 a 24x. «Non sono nemmeno sicuro che l’abbia mai saputo.» Infilò il fucile a ritroso nel fodero della sella. «Bestia egocentrica che non è altro.»
«Lo sai, vero, che là fuori non ci sono pericoli?»
«Be’, mi piace averlo con me lo stesso» rispose lui tranquillamente, riluttante a discutere con sua moglie, visto che il tempo che passavano insieme era sempre troppo poco.
Marie inarcò un sopracciglio e lo avvertì: «Sarà meglio che lasci in pace i miei cervi, Gil Shannon».
Sapendo di essere stato scoperto, Gil rise, tirò fuori una presa di tabacco dalla giacca Carhartt marrone chiaro e si arrotolò una sigaretta. In quel gesto c’era un che di zen che lo aiutava a rimanere concentrato ogni volta che sentiva salire le ondate di ansia. La triste realtà era che la vita al ranch era troppo lenta per lui, troppo ordinata e sicura, e Gil talvolta cominciava a sentirsi irrequieto, ad avere la sensazione di non stare bene nemmeno nella propria pelle. Ovviamente capiva il motivo di tutto questo: era stato cresciuto come erede di un combattente e portava su di sé buona parte del bagaglio emotivo che spesso deriva dall’essere figlio di un Berretto verde che aveva servito in diversi turni durante la guerra del Vietnam. Tuttavia era estremamente orgoglioso della propria eredità e aveva scelto con consapevolezza una forma di servizio che lo avrebbe portato a trascorrere gran parte della vita adulta lontano dal Montana della sua giovinezza. Il Montana sarebbe sempre stato là, diceva a se stesso. E quando lui sarebbe diventato troppo vecchio per correre, saltare e nuotare per la marina, si sarebbe ritirato proprio lì e finalmente si sarebbe sistemato con Marie, nella certezza di aver fatto quant’era in suo potere per difendere la sua grande patria.
Con la sigaretta fra le labbra, sorrise alla moglie. «Niente paura, il vecchio Spencer ha detto che posso cacciare da lui tutte le volte che voglio.»
Marie capiva che il marito nascondeva dei demoni dentro di sé: li vedeva nelle ombre che gli attraversavano lo sguardo in quei dolorosi momenti in cui credeva di non essere osservato.
«Capisco» disse pensierosa. «Quindi te ne vai sulle alture.»
Gil diede un tiro alla sigaretta ed espirò il fumo dal naso. «Rimarrò sotto il limite delle nevi perenni, non preoccuparti.»
«Quando sei a casa, non mi preoccupo mai» replicò la moglie staccandosi dal palo per toccargli la gamba. «Ti ho già detto che là fuori non ci sono pericoli. Il Montana è la sorgente della tua forza.»
Gil si protese per baciarla, poi si raddrizzò di nuovo sulla sella. «Hai visto Oso stamattina?»
«È fuori a guardare i puledri, come sempre. Pensa che siano suoi.»
Gil le fece l’occhiolino e premette i talloni nei fianchi della cavalla per farla uscire al passo. Quando girò l’angolo, vide il Chesapeake Bay retriever seduto vicino al paddock dove due puledri pezzati erano tenuti insieme alle madri.
«Oso!» chiamò, e il cane arrivò trotterellando. Il suo nome completo era Oso Cazador – cacciatore di orsi – e gli era stato dato dall’amico di Gil, Miguel, il primo proprietario dell’animale che lo aveva addestrato alla caccia all’orso sulle montagne intorno a Yellowstone. Miguel era morto di cancro l’anno precedente e sua figlia, Carmen, si era presentata con Oso al funerale, chiedendo a Gil se fosse disposto a adottarlo, visto che il suo appartamento a Los Angeles era troppo piccolo per un cane di sessanta chili. Prima che Gil avesse il tempo di pensarci, Marie aveva afferrato il guinzaglio e accolto Oso in famiglia. La soluzione aveva funzionato: il cane teneva i coyote lontani dai puledri, faceva la guardia a Marie e a sua madre quando Gil era in missione ed era capace di individuare la selvaggina a grande distanza.
A dire il vero, Oso era anche lui una specie di SEAL, un “cane infernale”: iperprotettivo nei confronti di Marie ogni volta che Gil non era a casa, quando era felice aveva l’abitudine di mostrare i denti in una sorta di minaccioso sorriso canino difficile da interpretare. Per certi versi a Gil ricordava i giovani SEAL con cui lavorava: fieramente leali, intelligenti, atletici e impavidi, sebbene a volte caparbi. E, proprio come quei ragazzi, Oso in alcune circostanze aveva sfidato Gil in fatto di gerarchia. Comunque, era solo con la pura forza di volontà che Gil era stato in grado di stabilire il proprio status di maschio alfa sugli uomini e sugli animali; una volontà di ferro che aveva ereditato dal padre, e per la quale gli era grato più che per ogni altra cosa. Nelle squadre del DEVGRU – lo United States Naval Special Warfare Development Group (il Gruppo speciale di sperimentazione tecniche di guerra navale degli Stati Uniti), altrimenti noto come SEAL Team Six – non era il più grosso né il più veloce, e nemmeno il migliore a sparare, ma in diverse prove sul campo era stato soltanto grazie alla forza di volontà che era riuscito là dove uomini dalle doti fisiche apparentemente superiori alle sue avevano fallito.
Questa era la ragione per cui era spesso considerato la persona su cui fare affidamento.
Fece girare la cavalla con le redini e si diresse al trotto verso le alture. Oso tendeva a viaggiare accanto a lui all’ombra del cavallo anche quando faceva fresco e, benché non potesse esserne sicuro, Gil riteneva che lo facesse per ripararsi gli occhi dal sole.
Nel giro di venti minuti uscirono dal cancello al confine occidentale del ranch, dove Gil si fermò per arrotolare un’altra sigaretta. Seduto in sella a fumare, prese un Milk-Bone dalla tasca e lo lanciò a Oso, che scavò immediatamente un piccolo buco nel terreno, vi lasciò cadere l’osso e lo ricoprì con il muso. Poi si sedette e abbaiò per chiederne un altro.
Gil sorrise, diede un lungo tiro alla sigaretta e lanciò un secondo osso al cane, che lo mangiò immediatamente.
Due ore dopo raggiunsero la cima di un alto crinale dove Gil smontò da cavallo e rimase con le redini in mano ad ammirare la valle di Spencer sotto di lui. Sapeva che laggiù, nascosti nella boscaglia, c’erano i cervi. Presto sarebbe iniziata la stagione degli amori, quando gli animali avrebbero abbandonato il loro consueto atteggiamento circospetto, ma per ora tenevano ancora un profilo basso, ed era proprio quello il momento in cui Gil preferiva cacciarli. Per lui non c’era gusto a sparare a una bestia in preda agli ormoni, che saltellava da tutte le parti, quasi sfidandoti a premere il grilletto.
Un grosso cervo maschio uscì dagli alberi alla sua sinistra, a circa cento metri lungo la collina, e Oso si abbassò sul terreno per segnalare che aveva individuato la preda.
Gil estrasse il fucile dal fodero, tolse il copriobiettivo e imbracciò l’arma per vedere meglio attraverso il mirino. Il cervo era adulto e provvisto di corna ben sviluppate a dieci punte; masticava l’erba senza una preoccupazione al mondo. Gil tappò l’obiettivo e ripose il fucile. A cento metri di distanza, avrebbe quasi potuto colpirlo con una pietra; lui non sprecava mai pallottole su prede a meno di cinquecento metri: la sfida gli interessava più della caccia stessa.
Legò Tico a un albero morto nelle vicinanze e le tolse la sella. Poi versò in una gavetta un po’ di acqua per Oso e sgombrò uno spazio a terra dove sistemarsi dietro la sella. Quando la postazione di tiro fu pronta, recuperò il fucile e si predispose all’attesa. Passò il tempo valutando la brezza e facendo inconsci calcoli mentali delle diverse zone obiettivo nella valle. Non usava quasi più numeri reali, perché ormai il suo cervello contava in automatico, come due più due fa quattro.
Dopo quaranta minuti Oso si alzò e guardò dritto nella valle.
Gil prese il fucile e perlustrò in lontananza, sotto la loro postazione, mettendo a fuoco un giovane cervo con le corna a sedici punte che stava in piedi di traverso, sul confine della linea degli alberi circa mille metri più in basso, in fondo a un declivio con una pendenza di trenta gradi. Il mirino del fucile era tarato per compensare l’angolo di caduta della pallottola sul terreno pianeggiante, quindi Gil non aveva nemmeno bisogno di riflettere troppo per sapere che doveva mirare leggermente più in basso, compensando in realtà l’angolo di caduta preimpostato. Questo concetto era spesso uno dei più difficili da capire per le giovani reclute del SEAL.
Posizionò il reticolo del mirino sulla cresta della colonna vertebrale del cervo, subito dietro le scapole, dove voleva che la pallottola da 7,62 mm arrivasse. Poi abbassò leggermente la mira, come se stesse per colpire un bersaglio a poco più di ottocento metri, anziché agli effettivi mille. Non c’era un vero modo per insegnare questo stile di tiro: era il genere di precisione che si sviluppava dopo migliaia di colpi sparati in missione. Se Gil avesse temuto anche solo per un attimo che il colpo potesse mutilare l’animale o causargli dolore, si sarebbe limitato a mirare al cuore, un obiettivo di gran lunga più facile da colpire.
Mentre inspirava, preparandosi a premere il grilletto, successe di nuovo: il ricordo della sua prima uccisione in combattimento gli tornò alla mente in tutti i più vividi dettagli…
La seconda guerra del Golfo era iniziata da appena un mese. Gil e il suo partner Tony erano stati mandati in una cittadina non lontana da Baghdad per allentare la pressione su due compagnie di marines che stavano subendo gravi perdite a causa del fuoco dei cecchini nemici. Uno dei cecchini dei marines era già caduto e il morale del gruppo era crollato come solo in queste situazioni può accadere. Il loro comandante aveva quindi richiesto supporto tattico, e mezz’ora più tardi un elicottero Cayuse aveva scaricato Gil e Tony nelle retrovie dei marines. Era stato durante l’avanzata lungo cinque isolati di inferno che i due SEAL avevano raccolto informazioni in tempo reale dai soldati sul campo.
Quand’erano arrivati alla testa della colonna, Tony si era già segnato sulla mappa la posizione di tutti e tredici i marines feriti e defunti. Aveva preso Gil per il gomito e l’aveva trascinato in un garage di cemento che offriva una buona copertura.
«Allora, guarda qui» disse piegandosi su un ginocchio e aprendo la mappa. «Vedi lo schema delle uccisioni? Non è casuale. Qui c’è un tizio, Gil, qualcuno che sta retrocedendo a zigzag. Vedi…?» chiese passando il dito avanti e indietro sulla griglia per sottolineare il punto. «Si sta spostando da un angolo all’altro per trovare un campo di fuoco sgombro… e tutti i nostri marines che si sono presi una pallottola in testa sono all’interno della stessa zona di ingaggio, la cui ampiezza sta diminuendo. Quello stronzo li sta massacrando e, prima che riescano a raggiungere il confine della città, saranno decimati. E poi quel fottuto haji sparirà per sempre, solo che noi non glielo permetteremo, cazzo!» Ripiegò in fretta la mappa e se la infilò nel giubbotto antiproiettile. «Quindi adesso andiamo a cercare il comandante dei marines e gli faremo fermare questa avanzata del cazzo prima che il sole inizi a tramontare o, ancora meglio, gli chiederemo di far retrocedere i ragazzi di uno o due isolati. Questo attirerà il coglione haji, che però troverà noi due ad aspettarlo: tu gli strappi le palle, e io gliele faccio mangiare!»
Mentre loro due uscivano dal garage, un paramedico e un paio di barellieri...