Ho sempre pensato che in ognuno di noi esista una capacità cosmica, universale, di realizzare la propria unicità. I due termini sembrano essere in contraddizione: come può l’unico essere il tutto? La risposta è nella fioritura. Fiorisce la rosa o in lei sta fiorendo il mondo? E la rosa è solo un singolo individuo o un’intera cosmologia? Ci avevano avvisato i vecchi chassidici: “Se nell’universo c’è un altro come te, tanto vale che tu non ci sia”; eppure Hashem, il creatore, è anche il signore dei volti, del tuo volto e del volto dell’umanità intera.
Troviamo sul nostro cammino la frase di Silesius, mistico del XVI secolo:
Una rosa è senza perché, fiorisce senza perché, non bada a se stessa, non si cura di chi la guarda.1
Questa frase contiene le quattro leggi fondamentali per la realizzazione di ciascuno di noi.
La prima legge è: “Una rosa è senza perché”, vale a dire che nessun pensiero può spiegare la nostra natura, ciò che siamo.
La seconda legge è: “Fiorisce senza perché”, cioè, di nuovo, anche la fioritura è senza perché. È un atto, una funzione costituita dal nostro essere nel mondo. Fioriamo senza che lo sappiamo e nessuna spiegazione genera la creazione del nostro fiore.
La terza legge è: “Non bada a se stessa”, vale a dire che lo sguardo non deve essere centrato sul proprio Io, sui ricordi, sul passato, sulle proprie aspirazioni. Il farsi della rosa non è di pertinenza del nostro Io, non appartiene all’idea che ci siamo fatti di noi stessi. È un inno all’estraneità e alla presenza interiore così come al pensiero zen.
La quarta legge è: “Non si cura di chi la guarda”; è una legge che riguarda il mondo esterno, le opinioni dominanti, il giudizio degli altri: non sono loro i riferimenti della nostra evoluzione.
Nella legge del “fiorire dei fiori così come fioriscono”2 abita un altro modo di concepire e vivere la vita.
Mentre noi continuiamo a farci domande e adottiamo un atteggiamento valutativo e critico verso noi stessi, il nostro seme sta fiorendo... L’attenzione va spostata sul seme, invece di fissarsi sulle ferite inflitte all’albero. La soluzione, la cura, il benessere vengono solo dal seme, che lavora nella totale oscurità, immerso nella terra in cui pian piano si radica. La rosa non bada a se stessa, perché sa che la realtà è mutevole e sconosciuta, mentre le radici, ben riparate e nascoste alla vista, provvedono a nutrirla in vista della fioritura. Non badare a se stessi e non curarsi degli altri è la via delle radici che sanno sempre cosa fare e come prendersi cura della pianta. Fiorire non dipende da noi: è già scritto nella nostra semenza...
La semplicità del tramonto
Tutto si svolge e si sviluppa come il seme, con la stessa semplicità. Ma Jung dirà: “Come è difficile essere semplici”. Lui lo scopre quando la sua vita sta raggiungendo il suo punto più alto, il tramonto. Lo sguardo del tramonto sa cose che la giovinezza e la maturità non vedono. Ci vuole uno sguardo eccentrico, come avrebbe detto Hillman, lo sguardo dei vecchi che vedono da un’altra prospettiva, dove le cose sono sempre più percepite come sono, senza i pensieri che le fanno deviare dalla loro strada, dal loro essere radicate nel reale. Le cose sono come sono: come la rosa, che non è dotata di perché. Riposa in se stessa e fiorisce quando fiorisce.
“Senza perché” riassume, secondo Silesius, le prime due leggi di ciò che siamo: vuoi conoscere il tuo fiore? Niente domande, niente perché. Vuoi portare a compimento la tua fioritura? Niente perché. Silesius ci dice che le spiegazioni, le analisi, sono lontane dalla rosa e dalla sua “azione”: la fioritura. Occorre costruire una mente che non si interroga sulla vita, su noi stessi, sui nostri disagi, sulle nostre aspirazioni, sulle nostre intenzioni, come quella che i bambini possiedono spontaneamente.
Qui comincia il grande mistero: c’è un’azione nascosta nei semi, per cui una ghianda può diventare solo una quercia. La ghianda, come tutti i semi, chiama l’unicità: vive per fare la quercia, dotata com’è di un’azione innata che sa fare l’albero, il “suo” albero. Se la rosa è una rosa senza un perché, le domande sono bandite dal piano dell’essere.
Come psicoterapeuta e psichiatra, ho imparato a non cercare mai spiegazioni degli attacchi di panico, dell’ansia, della depressione. Non voglio saperne la causa, mi limito a constatarne la presenza: il seme è la causa della rosa, o meglio la rosa si autoestrae dal seme, da quel se stesso che è.
Il seme è la foglia, i rami, le spine, le radici, i germogli, i fiori: è tutta la pianta in uno spazio dove non ci sono perché, dove non c’è il tempo. Hillman cita il rabbino: “Dio ha inventato il tempo, perché le cose non accadano tutte insieme”.3
La ghianda è la quercia, in uno spazio nascosto, come il cervello nel cranio, in un tabernacolo dove, senza perché, le cose avvengono da sé. Le cose che avvengono da sé sono il perno del mio modo di concepire la psicoterapia.
Fa fatica la rosa a fiorire? E perché tu dovresti far fatica per stare bene, per guarire? Nessuna fatica per essere se stessi, ovviamente. Senza perché, la rosa fiorisce e non sbaglia: il suo seme fa, tra l’altro, il suo fiore.
L’identità è veleno per la tua unicità
Il grande problema, soprattutto nei nostri tempi in preda a un’ipertrofia dei ragionamenti, sono gli ostacoli che opponiamo allo svolgimento della nostra fioritura.
L’identità, vale a dire ciò che crediamo di essere, è il veleno che iniettiamo nel nostro albero. Non si tratta di nient’altro che opinioni comuni che abbiamo assimilato. Di unico, di veramente nostro, c’è solo la nostra rosa che, senza perché, fiorisce... E, qualsiasi cosa ci sia accaduta, continua a fiorire, con le sue caratteristiche e secondo i suoi tempi. Spesso passiamo la vita in attesa di cose che non avvengono, semplicemente perché le desideriamo nel momento sbagliato.
La nostra epoca cerebrale ha perso il contatto con la natura e crede che la mente dell’autunno sia identica a quella primaverile. Ma noi siamo diversi e cambiamo con le stagioni: l’albero d’inverno vive realtà che sono ben lontane da quelle primaverili, mentre le nostre credenze, le nostre opinioni rimangono sempre uguali.
L’unicità che vale per la rosa, vale ancor di più per l’uomo. Forse viviamo solo per riconoscerci, per trovare nel nostro volto l’essere unico che siamo.
Che sciocchezza pensare che vi sia un meccanismo terapeutico comune, che vale per tutti! È lo stesso errore che si commette nell’educazione, se non si fa differenza tra i bambini introversi, che amano il buio, e quelli estroversi, che vivono nella luce, e si stabiliscono per tutti le stesse regole e gli stessi esercizi.
Una pianta con le spine come il pungitopo detesta essere toccata, non come il giglio che ha petali che cercano il contatto, che vogliono essere accarezzati, o sentire il naso che si inebria quando li annusa. Sanno più cose i contadini delle loro piante che gli psichiatri dei loro pazienti: conoscono i semi e vedono l’albero che verrà. I disturbi dei nostri pazienti sono come semi che contengono il loro percorso...
Nessuna visione omologata del mondo può servire per riconoscersi e la rugiada che bagna il fiore al mattino piace alla rosa, ma è detestata dall’ibiscus.
A volte, i disagi servono a farci accorgere che stiamo “sbagliando fiore”, pretendendo di essere quello che non siamo.
“Che pianta è?” Questo mi domando per ciascuna persona che vedo nel mio studio. Ormai ho imparato a non chiedermi mai quale trauma ha avuto.
Spesso i pazienti mi dicono: “L’altra volta con lei è stata una seduta strana. Dagli altri psichiatri io invece parlo dei miei problemi: ‘Non va questo, non va quello...’”. Parlare dei problemi, del passato, cercare spiegazioni dei disagi è quanto di più distante esista dall’immagine della rosa di Silesius.
Per “fare” la rosa ci vuole un sapere innato, così per ciascuno di noi. Con “fiorisce senza perché” forse Silesius vuol dirci che i semi svolgono azioni invisibili, azioni che ci creano, che vengono dalla notte dei tempi. Forse di notte, quando non sappiamo di esistere, quando danzano le immagini dei sogni, siamo vicinissimi a “quella rosa che fiorisce senza perché”. Ecco la terza legge di Silesius: forse per questo la rosa non bada a se stessa, fiorire non dipende da te, ma da uno sguardo che si assenta dall’Io, dal protagonista che credi di essere. Così pensate a quanto terribili sono le parole che dicono coloro che sono stati a lungo in psicoterapia: “Ho lavorato su di me, per questo sto bene”. Lavorare su di sé significa domarsi, addomesticarsi sulla base di un modello estraneo alla nostra natura. Lavorare su di sé vuol dire perdere la spontaneità, l’autenticità che fa di una rosa quel fiore unico. Dopo aver “lavorato su di sé” abbiamo una maschera da esibire agli altri, che nasconde e soffoca la nostra fioritura. Questo è un vero disastro per l’anima.
La rosa fiorisce come ogni pianta, fiorisce perché fiorisce, ma fiorisce. Ognuno alla sua stagione fiorisce. Mi preoccupo per le persone che vengono da me e che non riescono a sbocciare, magari perché si impediscono di annaffiare la pianta che sono, o rinunciano senza saperlo alla luce: in queste condizioni, quale pianta riuscirebbe a fiorire? Così è anche per l’anima!
Lo psichiatra è come un contadino: ha il compito di riconoscere quale pianta ha di fronte, di non confondere il suo seme con quello di un’altra, di aiutare il paziente a realizzare la sua fioritura, a iniziare il percorso verso l’Immagine unica che ciascuno di noi è. I disagi vengono sempre per avvisarci che ci stiamo allontanando da questa Immagine.
Non “che cosa gli è successo”, ma “che cosa ha dimenticato di sé”: questo mi domando dei miei pazienti.
In questa chiave non si tratta mai di problemi esterni: separazioni da realizzare o meno, addii o abbandoni da cui difendersi, amori tormentati... Sono solo una fuga dalla propria Immagine innata. Il lavoro consiste nel lasciar fare al seme.
I disturbi ci parlano, ascoltali...
Ho sempre pensato che i disturbi fossero parole del proprio seme, non traumi da collegare alla propria storia. Qualsiasi famiglia, incontri, accidenti ci siano capitati, una rosa è una rosa. La vera malattia è dimenticarsene. Jung diceva che una tigre vegetariana è una pessima tigre. Difficile da capire, in un mondo che funziona per slogan.
E i disturbi? I disagi? Sono stati che annunciano la nascita della rosa? O si oppongono al suo fiorire? Non ho mai visto un attacco di panico che non fosse un autosoffocamento, il tentativo disperato di aderire alla mentalità comune soffocando la propria autenticità.
Elena mi dice che gli attacchi di panico se ne sono andati non in corrispondenza di scelte di vita, ma del ritrovamento del suo rapporto tattile con le stoffe. “Me ne ero dimenticata, ma da piccola passavo ore e ore a toccare il broccato delle tende di casa, del rivestimento del salotto. Mi piaceva, mi dava come un’estasi...” Aver riattivato quell’esperienza, se non ha determinato la guarigione, ha però aperto una via in direzione di quel modo unico di essere nel mondo che riguarda Elena come ciascuno di noi.
Il seme è quei rami, quelle foglie, quel tronco, quei fiori, quei frutti, è quel mondo. Ogni pianta ha il suo modo di stare nel mondo, come Elena ha il suo broccato.
La ricerca dei mondi affini al nostro, delle cose con cui ci sentiamo in sintonia, delle situazioni che ci riguardano nel profondo è ciò che dobbiamo guardare.
Guardare. Senza pensare. Senza perché. Nel suo mirabile lavoro sulla sincronicità, Jung ci ha segnalato che viviamo in un tempo e in uno spazio unico, dove le cose accadono simultaneamente, legate...