Prendiamo l’ascensore per fare i tre piani che ci separano dalla terrazza del club e ci osserviamo allo specchio. Siamo tirati a lucido: lui in abito scuro e camicia bianca, io con un vestitino blu di Armani scollato sulla schiena e una sciarpa di seta bianca in tinta con i sandali. Anche se l’ho comprato almeno dieci anni fa per un battesimo, mi sta ancora e spero che nessuno si accorga che non si tratta proprio dell’ultima collezione. Una coppia piacente, direbbe nonna Felicia. Giorgio mi cinge la vita, mi stringe a sé e in un orecchio giura di amarmi. Le porte si riaprono senza che abbia il tempo di rispondere e ringrazio il tempismo dell’ascensore. Vorrei dirgli tante cose, ma preferisco il silenzio.
La terrazza del Club Guerrini è gremita di persone in eleganti abiti da sera che si salutano e veniamo subito fermati da un inserviente in divisa: «Il tableau è da quella parte».
Sento indurirsi i muscoli addominali e quando ci avviciniamo al cartellone non riesco a mettere a fuoco le lettere di tutti i nomi scritti intorno alla mappa dei tavoli. Ho scelto un paio di sandali con la zeppa che mi regalano quasi dieci centimetri, ma il tacco su cui poggia il calcagno ora sembra troppo sottile e mi sento instabile. Non so cosa sperare e mi aggrappo a Giorgio. Appena vedo spuntare i ricci rossi di Lucia in mezzo a qualche zazzera bianca, mi stacco dall’avambraccio di mio marito e cammino già più disinvolta. Ci sono una trentina di tavoli apparecchiati e imbanditi, ma sia lei che Marco ci fanno segno di andare verso di loro.
«Abbiamo occupato questo tavolo vicino alla balaustra, così è un po’ più fresco.»
Appoggio la borsetta delle occasioni speciali sullo schienale della sedia in vimini.
«E poi siamo a debita distanza dal tavolo del presidente e possiamo sparlare quanto vogliamo!»
Lucia mi fa sempre ridere, e quando ha insistito perché andassi anch’io alla cena del club non ho potuto dirle di no.
Sento Giorgio che dietro alle mie spalle esclama entusiasta: «Ciao Edoardo! Qui c’è posto anche per voi! Tessa, finalmente posso presentarti gli altri miei compagni di doppio!».
Mi volto e vengo percorsa da una scossa elettrica. Accanto a un uomo slanciato c’è lei, avvolta in un tubino piuttosto appariscente. Pensavo di essere preparata, ma non lo sono affatto.
Clara sbatte più volte le palpebre incredula e mi sorride. Ricambio l’espressione stupita, che di nascosto ho provato nel bagno un attimo prima di uscire di casa, e prima ancora di porgere la mano a suo marito ci salutiamo come due vecchie clienti che frequentano lo stesso parrucchiere. Lei mi stringe la mano e dalla bocca mi esce un flebile: «Ciao». Mi manca l’aria, come se non entrasse nei polmoni.
È proprio lei. Tra decine di emeriti sconosciuti vestiti a festa accanto a un tavolo impreziosito da fiorellini di campo. Clara in carne e ossa.
Poi l’ondata di entusiasmo svanisce e mi sento svuotata.
Non è la mia migliore amica, non è nemmeno una delle mie tante amiche a cui non ho voluto raccontare nulla di quello che è successo con Giorgio. Lei è solo quella che mi ha buttato via come un cerino finito. Per un istante immagino di rifarle la stessa domanda di quella sera al discopub. “Perché non hai risposto alla mia lettera?” Ma la tentazione sparisce in fretta, l’aria calda della terrazza ricomincia a ossigenarmi il cervello.
Nel brusio generale è Giorgio che rompe gli indugi: «Ricapitoliamo! Voi vi siete già presentate». Sorride, è felice ed è talmente su di giri che mi fa tenerezza. «Edoardo, ecco Tessa.»
«Piacere! Allora sei tu la famosa moglie del nostro Boom Boom?»
«Boom Boom?» Questa espressione manca al mio vocabolario.
«Certo, Boom Boom Boris Giorgio Becker!»
«Lascialo stare!» fa Giorgio scuotendo la testa. «Edoardo ama prendermi in giro e dice che assomiglio a Boris Becker.»
«Quando ancora non aveva imparato a giocare, eh?» interviene Marco spostando, per fortuna, l’attenzione.
Lucia si avvicina sorridente e mi prende sottobraccio: «Vedi il numero tre?». Indica un campo sulla nostra destra facendo tintinnare i suoi vistosi bracciali, poi con un gesto velocissimo prende sottobraccio anche Clara: «È lì che capitano le cose peggiori di tutto il Guerrini!». E inizia a raccontare di quanto si impegnino Marco e Giorgio quando sfidano al doppio Clara e Edoardo.
«Ma tu non giochi?» Cerco di concentrarmi sul tennis e non guardo la mia vecchia amica.
«No, cara. Io mi diverto abbastanza a guardare loro, poi d’inverno gioco a burraco con i vecchietti o con Clara, e d’estate prendo il sole in solarium e mi tuffo in piscina.»
Mi è sembrato di avere gli occhi di Clara addosso quando Lucia ha nominato il burraco. In tanti anni abbiamo giocato a tutto, siamo state anche a un corso di bridge, ma il burraco mai.
«Sediamoci, dài, che ora iniziano a portare gli antipasti.» Non so chi lo dica, ma ho un po’ di imbarazzo. Riprendo subito la borsa che avevo appoggiato e chiedo: «Dove devo sedermi?».
«Dove vuoi!» risponde per tutti Marco, che mi sorride in modo ingenuo. Non sa che in questo momento vorrei essere ovunque, ma non qui.
Percepisco le gocce di sudore che scivolano pianissimo sotto le ascelle e ringrazio in silenzio la mia saggia amica Monica: «Se pensi che potresti sudare, evita colori chiari perché gli aloni non si possono vedere. Meglio il blu, il nero o l’antracite». Quando sono in crisi di fronte all’armadio la chiamo, lei si precipita di sotto e in tre minuti trova l’abbinamento giusto, come quello di stasera.
Marco e Lucia iniziano a intrattenere la tavolata con aneddoti divertenti sul loro ultimo viaggio in Cambogia, mentre Giorgio e Edoardo si scambiano battute in continuazione. Il feeling è evidente e la serata trascorre in modo piacevole. Sono io che mi sento fuori posto. Fatico a capire la situazione e le emozioni. Se guardo oltre il mio tavolo vedo persone con cui non ho niente da condividere. Le donne sono quasi tutte sopra i cinquanta e sono molto curate: orecchini pendenti, anelli vistosi, trucco perfetto e di sicuro qualche filler di acido ialuronico o botulino qua e là. Scommetto che la maggior parte ha vissuto aspettando che i mariti finissero di lavorare. Ora sono quasi tutti in pensione.
Quando poi lo sguardo torna al mio tavolo, passa sempre a destra, dove poco più in là c’è lei, Clara. Parla con voce allegra e sbatte di frequente le ciglia perfette e piegate all’insù.
«Lo sai che se una persona non sbatte le palpebre mentre ti ascolta vuol dire che non è attenta? Me lo ha detto il papà di un mio compagno che fa lo psicologo.»
Me lo disse il giorno in cui mi aveva convinto a comprare il “piegaciglia”, un groviglio di asticelle in metallo dotate di una pinza e un meccanismo a molla che stringeva nella morsa l’arco cigliare.
«Non esiste diva al mondo che prima del mascara non usi questo!»
L’avevo comprato ma poi nascosto in fretta in fondo al cassetto. Chissà se ora è attenta alla curvatura delle mie ciglia o se, proprio come me, sta osservando le mani della sua amica di un tempo. È la Clara che ricordavo, ma di diverso ci sono le dita: anche se le unghie sono smaltate di fresco, la pelle è rugosa, segnata in anticipo.
I capelli sono fissati in un carré perfetto, sempre biondi e lisci come spaghetti crudi. Da quando avevo iniziato a frequentarla, lottavo quotidianamente con la massa informe di riccioli castani che si muoveva sulla mia testa. E pensare che lei li avrebbe voluti, i miei ricci. Mentre io, naturalmente, bramavo i suoi spaghetti. E così tutti i giorni rimanevo davanti allo specchio brandendo la spazzola lisciante, con il risultato che quando uscivo i capelli erano ancora più ispidi. Una specie di porcospino.
Sul viso di Clara compare un trucco leggero ma perfetto, sui toni del beige e del marrone. Da giovane osava di più: si stendeva l’ombretto bianco e perlato sulla superficie delle palpebre e sotto gli occhi color nocciola e sempre lucidi. Un trucchetto per ingrandirne la forma. Attentissima all’estetica, si curava con prodotti di qualità e non lasciava nulla al caso.
«Hai una bella pelle, ma devi metterti più crema idratante» partiva in quinta con i suoi consigli dopo avermi squadrata. «Quella con il fattore di protezione solare… Per le doppie punte devi fare gli impacchi… Non puoi non fare la pedicure, siamo in primavera e i piedi devono essere in ordine…»
Quando mia madre scopriva che avevo comprato un prodotto di bellezza, storceva il naso: «Le creme sono tutte uguali, cosa spendi i tuoi risparmi in cavolate prese in profumeria?». Quattro trucchi presi al supermercato in offerta e un siero antirughe valido per il giorno e la notte in un cestino di vimini: ecco l’esiguo tesoro di mamma dentro al mobiletto del bagno. E se l’esempio in casa era questo, accompagnato da massime come: «La bellezza è effimera, stampatelo in testa», fuori mi divertiva l’idea di avere a disposizione un’autorevole consulente di immagine armata di pennelli, smalti, spugnette, matite e immancabile pinzetta.
«È un attrezzo di tortura medievale!»
«Ebbene sì, cara turca. Tu sei una strega e ora estirperò anche quei quattro baffetti che hai sotto il naso!»
Si prendeva cura di me, mi voleva bella e io seguivo ammirata tutti i suoi consigli. Quando ero sola in cameretta c’erano giorni in cui infilavo le dita nel beauty case strapieno di ombretti, lucidalabbra e campioncini di profumo. Mi piaceva sentire il rumore dei flaconcini uno contro l’altro e mentre ci giocavo ne pesavo l’inconsistenza. Mi addormentavo struccata con un libro ancora tra le mani, combattuta tra l’ammirazione verso chi aveva così tanta cura di sé e la presunzione di essere migliore.
Allungo una mano per prendere un pomodoro ripieno e inavvertitamente faccio cadere il calice di vino, che crea la prima macchia della serata sulla tovaglia.
«Scusate!»
Lo dico piano, sperando che nessuno si accorga di nulla, e tento di tamponare il danno con il tovagliolo di stoffa. La macchia si allarga lenta e Giorgio, con una risatina a denti stretti, interviene: «La solita goffaggine di mia moglie!».
Pensa di far ridere, oppure non pensa nulla. Nessuno gli ha chiesto un commento però si sente in dovere di giustificare il mio gesto.
Non lo sopporto.
Mi volto di scatto e lo fulmino, ma lui sfugge con gli occhi e riprende a parlare dell’ul...