Molly Bergman si trasferì in California, e a sua madre si spezzò il cuore. Ci sono figlie che passano la vita a cercare di sfuggire alle loro madri, che appena possono si trasferiscono nella loro California personale, che non smettono mai di trasferirsi in California. Molly non era decisamente una di queste. Il suo fu uno spostamento doloroso, anche prima che i suoi genitori diventassero così vecchi, così all’improvviso.
La madre di Molly si chiamava Joy, e la gente diceva: ah, quando l’hanno fatta hanno buttato via lo stampino. Lo dicevano quelli che le volevano bene, ma anche quelli che non gliene volevano, e per gli stessi motivi. La trovavano sconcertante, e avevano ragione. Era così affettuosa eppure così distante, a volte, come un pianeta lontano e senza nome; in altri momenti era tenera e comprensiva. Era loquace, ma sentiva tutto quello che dicevi o che pensava avresti potuto dire. Era saggia e profonda, intuitiva, il tipo a cui la gente confidava i propri segreti più oscuri; era sbadata e si distraeva facilmente, e spesso dimenticava i segreti più oscuri delle persone, il che, diceva sempre, era tanto di guadagnato.
Da piccola, Molly la vedeva come la madre più indaffarata e importante di New York. Il lavoro era la sua vocazione, diceva sempre Joy quando era felice. Quando era scoraggiata e stanca diceva che era una bara di velluto senza il velluto.
Era anche bella, di una bellezza radiosa. Delicata e agile e scattante. Era bionda, ma i suoi occhi erano castani come quelli di una cerbiatta. Quando sorrideva faceva sorridere tutti quelli che le stavano attorno, e Joy sorrideva molto, anche se spesso più per un concetto astratto che per un particolare momento di gioia. Amava New York perché, soleva dire, stava bene fra i disadattati.
Molly e suo fratello Daniel erano nati e cresciuti con Joy e il loro padre, Aaron, in un appartamento nel West Side di Manhattan con due camere da letto e un tinello convertito in terza camera. I vicini erano immigrati dell’Europa orientale, émigrés di Brooklyn, insegnanti e violinisti e cantanti d’opera. I cantanti li potevi sentire camminando per Broadway, le loro arie tra i clacson delle auto. C’erano negozi di abbigliamento a conduzione familiare, latterie e panetterie, e Molly ricordava le stanze quadrate, i soffitti alti, le persiane a soffietto, i davanzali ampi sui quali si sedeva per guardare fuori dalla finestra. Ma poi, quando Molly aveva otto anni e suo fratello sei, il padre aveva ereditato l’industria manifatturiera di famiglia e i Bergman avevano abbandonato la West 89th Street. Aaron sosteneva che il West Side stava andando in rovina.
Su Park Avenue c’erano meno immigrati dall’Europa orientale e fuggiaschi di Brooklyn, non c’erano latterie e c’erano meno ebrei. Era un quartiere tranquillo e civilizzato, almeno fino al tardo pomeriggio, quando si aprivano i portoni delle scuole private. Molly e Daniel continuavano a frequentare il loro istituto privato progressista sul West Side, ma appena scesa dall’autobus lei poteva udire il baccano dei bambini dell’East Side nell’emporio all’angolo. Aspettava sempre che loro se ne andassero prima di entrare a comprare i suoi dolcetti, e invidiava in segreto la loro chiassosa congrega, e ancora più segretamente le loro uniformi scolastiche.
“Al massimo dall’altra parte del parco” aveva decretato Joy. “Più in là non andremo, Aaron.”
In realtà, da adulto Daniel sarebbe andato un po’ più in là. Lui, sua moglie Coco e le loro due bambine abitavano nel Lower East Side. Joy e Aaron lo trovavano inspiegabile, traslocare nei caseggiati popolari che i loro nonni si erano lasciati alle spalle. Inspiegabile, certo, ma “raggiungibile in metropolitana”, come diceva Joy a Molly. I Bergman erano newyorkesi, proseguiva, lo erano da sempre. Era un dato di fatto, cosa che il trasferimento di Molly a Los Angeles non avrebbe potuto mai essere.
Ogni volta che Molly lasciava New York dopo una visita, per Joy era come se l’aria venisse risucchiata via dalla città.
“Sei troppo attaccata a lei” le diceva una delle sue amiche. “Mia figlia vive in Australia.”
Joy rabbrividiva. Una figlia in Australia era come una figlia morta. Il divorzio era una cosa terribile, e le dispiaceva che Molly avesse rinunciato a un buon marito per poter essere una lesbica in California. Era strano, avere una figlia lesbica, malgrado Joy avesse scoperto che era capitato anche ad altre sue amiche. Ma il mondo era pieno di stranezze, e Joy aveva superato il suo disagio con Freddie. Ora la chiamava addirittura “mia nuora”. Freddie era molto simpatica, affettuosa, gentile, aveva un lavoro retribuito e non creava problemi, e una suocera non poteva chiedere di meglio. Joy non le rinfacciava di essere donna, o cercava di non farlo. Molly era felice, lo si vedeva, e questo le scaldava il cuore.
Ma a cosa serve un cuore caldo, quando è anche spezzato? E il cuore di Joy era spezzato. Dalla California.
“California”: perfino il nome le era diventato sgradevole, alla stessa stregua di “Lee Harvey Oswald” o “Sirhan Sirhan”.
Durante la Depressione i genitori di Joy si erano trasferiti spesso, dapprima in luoghi dove qualcuno avrebbe potuto accoglierli, poi in posti in cui loro stessi avevano accolto altri. Per Joy ogni singolo spostamento era stato uno shock, un colpo quasi fisico. Quante persone lasciate alle spalle: negozianti, vicini, il poliziotto di quartiere, le donne sedute sui gradini degli ingressi. Erano loro a rendere un luogo casa tua. C’erano già troppe cose a cui bisognava rinunciare, a questo mondo. Perché scegliere di lasciare casa propria? Per la California?
Forse avrebbe dovuto trasferirvisi anche lei. Forse Aaron non si sarebbe accorto della differenza.
«Ti piacerebbe andare a vivere in California, Aaron?»
«Come if you dare, our trumpets sound» cantò lui. «Come if you dare, the foes rebound…»
Non era in grado di dire che giorno fosse, ma Purcell se lo ricordava.
Era domenica, e per cena Joy gli aveva ordinato un French toast al bar. New York era conveniente per gli anziani, in fatto di consegne a domicilio. Si rese conto con una stretta al cuore che si era ormai abituata a includere Aaron nella categoria degli “anziani”. E io cosa sono? si domandò confusamente. Comunque fosse, a volte era troppo difficile far uscire di casa Aaron e il suo deambulatore e condurli fino alla tavola calda in fondo alla via. Forse avrebbe potuto prepararlo lei, il French toast. Se avessero avuto in casa delle uova. O del pane. Se fosse stata ancora attiva in cucina.
«Non c’è una battuta che fa: potremmo prepararci delle uova al prosciutto se avessimo il prosciutto…»
«… e se avessimo le uova!»
Risero e la ripeterono: «Potremmo prepararci delle uova al prosciutto…».
Aaron prese un boccone di French toast e fece una smorfia.
«Smettila, Aaron, tu adori il French toast.»
«Davvero?»
Era chino sul tavolo da pranzo. Sulla sua sedia c’erano un tappetino da bagno e un pannolone azzurro. Joy si sporse in avanti e li raddrizzò.
«Oggi lavori?» chiese lui.
«No, caro, è domenica.»
«Ah, sì?»
Lui prese un altro boccone e fece un’altra smorfia.
«Smettila» disse Joy. «Fra l’altro, bisognerà proprio tagliarti quei capelli.»
«Oggi vai al lavoro?» chiese lui.
A volte le sembrava che lo facesse apposta. «No, oggi no. Oggi è domenica.»
«Ah, sì? E questa che roba è?» domandò lui toccando il cibo con la forchetta.
«La tua cena.»
«Non ho fame.»
Joy gli ritirò il piatto, lo portò in cucina e ne gettò il contenuto nella pattumiera.
«Joy! Joy!»
Si riaffacciò in sala da pranzo.
«Oggi lavori?» chiese lui.
«Se me lo domandi un’altra volta, ti ficco la testa in un sacchetto» rispose lei dolcemente.
Aaron abbassò il volto verso la tazza di tè e ne bevve un sorso, poi guardò sua moglie con affetto. Indicò il liquido quasi incolore nella tazza. «Mi fai compagnia, tesoro?»
Poi si mise a cantare nella sua voce un tempo limpida, ma ormai grave e rauca. «Tea for two, me for you…»
Continuò a canticchiare soddisfatto mentre Joy si versava il tè e si sedeva accanto a lui a guardare le luci rosse dei freni delle auto nel traffico, cosa che avevano sempre trovato allegra al calare della sera.
Da piccola, Molly era la cocca di papà. Suo padre era l’unico padre barbuto che conosceva, e la sua barba, una barba perfettamente curata che terminava quasi a punta, era per lei motivo di orgoglio. Lui la portava in braccio sotto il cappotto, davanti al petto come un canguro, e lei affondava la faccia nella sua, in quella sua barba straordinaria. Suo padre e la sua barba erano palesemente superiori a tutti gli altri padri, con le loro flaccide guance rosa. Suo padre era superiore anche in altezza. Era così alto che lei e Daniel lo usavano come unità di misura. Quanti papà era alto quell’albero nel parco? E gli elefanti al Museo di storia naturale? Era Aaron che li faceva addormentare leggendo quando erano piccoli. Spingitira e l’uomo del cibo per gatti, Winnie the Pooh che rotola giù dalle scale, libri che erano appartenuti a lui, che lui avrebbe voluto farsi leggere da suo padre. Infagottava lei e suo fratello e li faceva salire sul tetto a vedere le costellazioni. Li portava al parco a scalare le rocce e lungo il fiume fino al laghetto delle barche a giocare ai pirati e a varare barchette di carta che si inclinavano e affondavano mentre loro cantavano Blow the Man Down. Era stato Aaron a incoraggiarli, a spingerli a implorare Joy di prendere un cane, era stato lui a portarli al rifugio municipale per scegliere un gattino malgrado l’esplicito divieto di lei. Quando lui era bambino suo padre l’aveva trascurato, troppo impegnato a salvare i suoi affari dalla Depressione. Lui non avrebbe mai fatto lo stesso con i propri figli, diceva a Joy. E aveva mantenuto la parola, avrebbe commentato in seguito lei: erano stati gli affari che aveva trascurato.
Aaron e Joy erano così diversi che Molly e Daniel erano stati in grado di riconoscere quella distanza fin da piccoli: Aaron sentimentale e inaffidabile e traboccante d’amore e di fascino, un uomo che ti faceva credere che non sarebbe stato necessario sforzarsi troppo perché le cose sarebbero andate bene comunque; Joy distratta, smemorata, pensosa, anche lei piena d’amore e stranamente stimolante nel modo in cui aveva instillato in loro la voglia di impegnarsi perché lavorare sodo sembrava divertente. Molly non sapeva bene perché li mettesse a confronto in quel modo, come se dovesse scegliere, perché per quanto fossero diversi tra loro non c’era scelta, non c’era lo spazio per farla. Erano una cosa sola. Si tenevano per mano quando camminavano per strada, si scambiavano bocconcini come due parrocchetti. Per i bambini era imbarazzante avere due genitori così inseparabili. E rassicurante. Erano un tutt’uno, come i cantori e i trombettieri della Bibbia.
«È meglio che torni a casa» disse Joy al telefono. «Papà è qui per terra.»
«È caduto?» Molly cercò di mantenere la calma. «Ma come sta? Hai chiamato la guardia medica?»
«È scivolato giù dalla sedia. Non avrei dovuto prendergliela di pelle. Gli ho dato un cracker.»
«Mamma!»
«Sta venendo il custode. Lo tirerà su lui. Mai un momento di noia, vero, Aaron?»
Il ricevitore passò a lui. «Mai un momento di noia.»
«Stai bene, papà?»
«Tua madre mi ha dato un cracker.»
«Arrivo presto» disse Molly. Lo ripeté quando sua madre tornò al telefono. «Arrivo presto, mamma. Mi sono presa una settimana ...