
- 640 pagine
- Italian
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eBook - ePub
I racconti
Informazioni su questo libro
"Il libro di racconti cui avrete la bontà di prestare la vostra attenzione non vuol essere altro che la testimonianza di come uno tra coloro che iniziavano nel 1945 i propri esperimenti di letteratura, abbia inseguito, da allora fino ad oggi, il miraggio di cogliere un sapore, un barbaglio, un cigolìo, una cadenza della vita. Questi sono tempi poco propizi alle grandi spiegazioni del mondo come ai grandi romanzi; il segreto dell'universo abbiamo cercato di coglierlo come nelle innumerevoli sfaccettature d'un occhio di formica, come nella vertebra fossile da cui si cerca di ricostruire l'intero scheletro dell'immensurabile dinosauro." Italo Calvino
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Informazioni
Libro primo
GLI IDILLI DIFFICILI
Pesci grossi, pesci piccoli
Il padre di Zeffirino non si metteva mai in costume da bagno. Stava in calzoni rimboccati e maglietta, con in capo il berretto di tela bianca, e non si staccava mai dalla scogliera. La sua passione erano le patelle, i piatti molluschi che stanno appiccicati allo scoglio, e fanno col loro durissimo guscio quasi tutt’uno con la pietra. Per staccarle il padre di Zeffirino adoperava un coltello, e ogni domenica col suo sguardo occhialuto passava in rassegna una per una le rocce della punta. Continuava finché la sua piccola cesta non era piena di patelle; qualcuna la mangiava appena colta, succhiandone la polpa umida ed agra come da un cucchiaio; le altre le metteva in una cesta. Ogni tanto alzava gli occhi, li girava un po’ spersi sul mare liscio e chiamava: – Zeffirino! Dove sei?
Zeffirino passava in acqua pomeriggi interi. Venivano alla punta tutti e due, e il padre lo lasciava lì e subito si metteva dietro ai suoi molluschi. Così ferme e testarde, le patelle non potevano attirare Zeffirino; furono dapprima i granchi, a interessarlo, poi i polpi, le meduse, e poi via via tutte le qualità di pesci. D’estate le sue cacce erano sempre più difficili e ingegnose: e adesso non c’era ragazzetto della sua età che col fucile subacqueo andasse così bene come lui. In acqua chi va meglio sono i tipi un po’ tracagnotti, tutti fiato e muscolo; e Zeffirino veniva su così. Visto a terra, per mano a suo padre, era uno di quei ragazzi rapati e a bocca aperta da far andare avanti a scappellotti; invece in acqua dava punti a tutti; sott’acqua meglio ancora.
Quel giorno Zeffirino era riuscito a mettere insieme tutto l’armamento per la caccia subacquea. La maschera l’aveva già dall’anno scorso, regalo di sua nonna; una cugina che aveva i piedi piccoli gli prestò le pinne; il fucile lo prese a casa di suo zio senza dir niente e al padre disse che gliel’avevano prestato. D’altronde era un bambino attento, che sapeva usare e tener di conto tutto, e ci si poteva fidare a dargli roba in prestito.
Il mare era una bellezza, così limpido. Zeffirino disse: – Sì, papà , – a tutte le raccomandazioni e andò in acqua. Con quel muso di vetro e l’antenna per respirare, le gambe che finivano da pesce, e in mano quell’arnese un po’ lancia un po’ fucile e un po’ forchetta, non somigliava più a un essere umano. Invece, appena in mare, benché filasse via mezzo sommerso, subito si riconosceva che era lui: dal colpo che dava con le pinne, dal modo in cui il fucile gli sporgeva sottobraccio, dall’impegno che metteva ad andare avanti con la testa giù a fior d’acqua.
Il fondo dapprincipio era di sassi, poi di rocce, alcune nude e corrose, altre barbute di fitte alghe brune. Da ogni piega di scoglio, o tra le tremule barbe librate alla corrente, poteva a un tratto apparire un grosso pesce; dietro il vetro della maschera Zeffirino muoveva attento intorno gli occhi ansiosi.
Un fondo marino è bello la prima volta, quando lo si scopre: ma il più bello, come in ogni cosa, viene dopo, a impararlo tutto, bracciata per bracciata. Pare di berli, i paesaggi acquatici: si va si va e non si finirebbe mai. Il vetro della maschera è un enorme unico occhio per ingoiare le ombre e i colori. Ora lo scuro finiva e s’era fuori da quel mar di scoglio; sulla sabbia del fondo si distinguevano le sottili crespe disegnate dal muoversi del mare. I raggi del sole arrivavano fin giù con luminelli occhieggianti e luccichii di branchi di rincorri-gli-ami: minutissimi pescetti che filano dritti dritti e a un tratto svoltano ad angolo retto tutti insieme.
Si levò una piccola nuvola di sabbia ed era il colpo di coda di un sarago sul fondo. Non s’era accorto d’avere puntata contro quella fiocina. Zeffirino già nuotava immerso; e il sarago, dopo poche mosse distratte dei fianchi striati, di soprassalto filò via a mezz’acqua. Tra scogli irti di ricci il pesce e il pescatore nuotarono fino a una cala di roccia porosa e quasi nuda. «Qui non mi scappa», pensò Zeffirino; e in quel momento il sarago sparì. Da buchi e incavi si levava un filo di bollicine d’aria, poi subito smetteva e riprendeva altrove; gli anemoni marini brillavano in attesa. Il sarago fece capolino da una tana, sparì in un’altra e sbucò subito da un pertugio distantissimo. Bordeggiò uno sperone di roccia, puntò in basso e Zeffirino vide verso il fondo una zona d’un verde luminoso. Il pesce si perdette in quella luce, e Zeffirino gli andò dietro.
Traversò un basso arco al piede della roccia e riebbe sopra di sé l’acqua alta e il cielo. Ombre di pietra chiara circondavano il fondo tutt’intorno e verso il largo s’abbassavano in una scogliera mezzo sommersa. Con un colpo di reni ed una spinta delle pinne Zeffirino riemerse a respirare. Il tubo dell’aria affiorò, soffiò via qualche goccia infiltrata nella maschera, ma la testa del ragazzo restò in acqua. Aveva ritrovato il sarago; anzi: due! Già lui mirava quando ne vide tutta una squadra navigare tranquilla alla sinistra, ed a destra brillare un altro branco. Era un posto ricchissimo di pesca, quasi uno specchio chiuso, e dovunque Zeffirino guardasse incontrava un guizzare di pinne sottili, luccichii di squame, tanto che dallo stupore e dalla gioia non gli venne di far partire neanche un colpo.
Bisognava non aver fretta e studiare le botte migliori senza seminare intorno lo spavento. Zeffirino sempre a testa sotto si diresse verso lo scoglio più vicino; e nell’acqua, lungo la parete, vide una bianca mano penzolante. Il mare era immobile; sulla superficie tesa e tersa s’allargavano circoli concentrici come a un gocciolio di pioggia. Il ragazzo alzò il capo e guardò. Bocconi sull’orlo dello scoglio, una donna grassa in costume da bagno stava prendendo il sole. E piangeva. Le lagrime scendevano una dopo l’altra per le guance e cadevano nel mare.
Zeffirino alzò la maschera sulla fronte e disse: – Scusi.
La donna grassa disse: – Figurati, ragazzo, – e continuava a piangere. – Pesca pure.
– È un posto pieno di pesci, – spiegò lui. – Ha visto quanti?
La donna grassa restava col viso sollevato, gli occhi fissi davanti a sé pieni di lagrime. – Non ho visto proprio. Come faccio? Non riesco a smettere di piangere.
Zeffirino finché si trattava di mare e di pesci era il più in gamba; invece, in presenza di persone, riprendeva quella sua aria a bocca aperta e balbuziente. – Mi dispiace, signora… – e avrebbe voluto tornarsene ai suoi saraghi, ma una donna grassa piangente era una vista così insolita che lui restava incantato a guardarla suo malgrado.
– Non sono signora, ragazzo, – disse la donna grassa con quella sua voce nobile e un po’ nasale. – Chiamami signorina. Signorina De Magistris. E tu come ti chiami?
– Zeffirino.
– Bravo, Zeffirino. Hai fatto buona pesca? O buona caccia, come si dice?
– Non so come si dica. Non ho ancora preso niente. Qui però è un buon posto.
– Sta’ attento con quel fucile, però. Non per me, poveretta me. Ma per te, a non farti male.
Zeffirino la assicurò che poteva star tranquilla. Si sedette sullo scoglio accanto a lei e la guardò un po’ piangere. C’erano momenti in cui sembrava che smettesse, e allora aspirava dal naso arrossato, alzando e scotendo il capo. Ma intanto agli angoli degli occhi e sotto le palpebre era come si gonfiasse una bolla di lagrime e l’occhio subito ne traboccava.
Zeffirino non sapeva bene che pensare. Vedere una signorina che piangeva era una cosa che stringeva il cuore. Ma come si faceva ad essere tristi davanti a quel recinto marino colmo di tutte le varietà di pesci, che riempiva il cuore di gioia e di voglia? E a tuffarsi in quel verde e ad andare dietro ai pesci, come si faceva con vicino una persona grande tutta in lagrime? Nello stesso momento, nello stesso posto esistevano insieme due struggimenti così opposti e inconciliabili. Zeffirino non riusciva a pensarli entrambi insieme; né a lasciarsi andare all’uno o all’altro.
– Signorina, – chiese.
– Dimmi.
– Perché piange?
– Perché sono sfortunata in amore.
– Ah!
– Tu non puoi capire, sei un ragazzo.
– Vuol provare a nuotare con la maschera?
– Grazie, volentieri. È bello?
– È la cosa più bella che ci sia.
La signorina De Magistris si alzò e s’abbottonò le bretelline del costume sulla schiena. Zeffirino le diede la maschera e le spiegò bene come metterla. Lei mosse un po’ il capo tra scherzosa e vergognosa con la maschera sul viso, ma in trasparenza si vedevano gli occhi che non smettevano di piangere. Scese in mare senza grazia, come una foca, e prese ad annaspare tenendo il viso giù.
Zeffirino col fucile sottobraccio si buttò a nuoto anche lui.
– Quando vede un pesce m’avverta, – gridò alla De Magistris. In acqua lui non scherzava; e il privilegio di venire a pescare con lui lo concedeva raramente.
Ma la signorina alzava il capo e faceva segno di no. Il vetro era diventato opaco e non si vedevano più i tratti del suo viso. Si tolse la maschera. – Non vedo niente, – disse, – le lagrime mi appannano il vetro. Non posso. Mi dispiace –. E restava lì, piangente, in acqua.
– È un guaio, – disse Zeffirino. Non aveva con sé la mezza patata da sfregare sul vetro per farlo ritornare limpido, ma s’arrangiò alla meglio con un po’ di saliva e indossò lui la maschera. – Guardi come faccio io, – disse alla grassa. E avanzarono insieme per quel mare, lui tutto di pinne con la testa giù, lei nuotando su un fianco, con un braccio disteso e l’altro piegato, e il capo amaramente eretto e inconsolabile.
Nuotava male, la signorina De Magistris, tutto di fianco, con un goffo slancio di bracciate. E sotto di lei per metri e metri i pesci correvano il mare, navigavano stelle marine e seppie, s’aprivano le bocche delle attinie. Ecco che allo sguardo di Zeffirino si facevano incontro paesaggi da lasciarcisi smarrire. L’acqua era alta e il fondo sabbioso era cosparso di piccoli scogli tra i quali dondolavano matasse d’alghe al moto appena sensibile del mare. Ma a guardare di lassù, sulla distesa uniforme della sabbia sembrava fossero gli scogli ad ondeggiare in mezzo all’acqua ferma e densa d’alghe.
A un tratto la De Magistris se lo vide sparire a testa in giù, affiorare un istante col sedere, poi con le pinne e poi la sua ombra chiara era sott’acqua, che calava verso il fondo. Fu troppo tardi quando il lupaccio s’accorse del pericolo: la fiocina scattata già l’aveva colto di sbieco e il dente di mezzo gli si conficcò verso la coda e lo passò da parte a parte. Il lupaccio drizzò le pinne spinose e s’avventò battendo l’acqua, gli altri denti della fiocina non l’avevano preso e lui sperava ancora di fuggire a costo di scodarsi. Ma quel che ci guadagnò fu di infiggersi una pinna su uno dei denti liberi, e fu perso. Il rocchetto ritirava già il filo e l’ombra rosea e contenta di Zeffirino gli era sopra.
La fiocina apparve fuori dall’acqua col lupaccio infilzato, poi il braccio del ragazzo, poi la testa mascherata e un gorgoglio d’acqua dalla canna. E Zeffirino si scoperse il viso: – Visto che bello? Visto, signorina? – Era un grosso lupaccio argenteo e nero. Però la donna continuava a piangere.
Zeffirino si arrampicò sulla punta di uno scoglio; la De Magistris lo seguì a fatica. Per posare il pesce in fresco il ragazzo scelse una piccola conca piena d’acqua. E ci si accoccolarono vicino. Zeffirino contemplava i cangianti colori del lupaccio, carezzava le scaglie e voleva che la De Magistris lo imitasse.
– Vede che bello? Vede come punge? – Quando gli parve che un filo d’interessamento per il pesce si facesse largo nello sconforto della donna grassa, disse: – Io vado a vedere un momentino se ne piglio un altro, – e, bardato di tutto punto, si tuffò.
La donna restò col pesce. E scoperse che non v’era mai stato pesce più infelice. Ora lei passava le dita sulla bocca ad anello, sulle branchie, sulla coda; ecco vedeva aprirsi, nel bel corpo d’argento, mille fori minutissimi. Pulci acquatiche, minuscoli parassiti dei pesci, s’erano da tempo impadronite del lupaccio e rodevano le loro vie nella sua carne.
Ignaro di queste cose, Zeffirino già riemergeva con sulla forchetta un’ombrina dorata, e la porgeva alla signorina De Magistris. Così già i due si erano divisi i compiti: la donna toglieva il pesce dalla fiocina e lo metteva in fresco nella conca; e Zeffirino si ficcava di nuovo a testa in acqua per cacciarne un altro. Ma prima guardava ogni volta se la De Magistris aveva smesso di piangere: se non smetteva a vedere un lupaccio, un’ombrina, cosa mai avrebbe potuto consolarla?
Strie dorate traversavano i fianchi dell’ombrina. Due pinne in fila percorrevano il suo dorso. E nell’intervallo tra queste pinne, la signorina vide una ferita stretta e profonda più antica di quelle della fiocina. Un colpo di becco di gabbiano doveva aver picchiato sul dorso del pesce con tanta forza che non si capiva come non l’avesse ucciso. Chissà da quando l’ombrina portava con sé questo dolore.
Più veloce della fiocina di Zeffiri...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- Presentazione
- Cronologia
- Bibliografia essenziale
- I racconti
- Libro primo. GLI IDILLI DIFFICILI
- Libro secondo. LE MEMORIE DIFFICILI
- Libro terzo. GLI AMORI DIFFICILI
- Libro quarto. LA VITA DIFFICILE
- Postfazione. di Francesca Serra
- Copyright