Una seducente sospensione del buon senso
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Una seducente sospensione del buon senso

Viaggio alla scoperta di ciò che devi lasciare

  1. 312 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Una seducente sospensione del buon senso

Viaggio alla scoperta di ciò che devi lasciare

Informazioni su questo libro

Cosa unisce un cinquantenne in crisi e un vecchio mago? Cosa lega il destino di due donne nate a migliaia di chilometri di distanza? E perché è necessario partire per fare chiarezza? Gilberto, un uomo come tanti, con un presente incerto – un lavoro che ha smesso di piacergli, figli grandi, una moglie nel frattempo divenuta ex – e un futuro che si stringe in un nodo scorsoio decide di «sottrarsi all'obbligo di avere un destino» e parte per un viaggio tanto lungo quanto lento. A fargli compagnia le domande che si pone in modo assillante e un compito che si è dato per mettersi in movimento: consegnare un pacchetto, ritrovato per caso, alla persona cui era stato spedito anni prima. La sfida più grande in ogni viaggio è scoprire e accettare se stessi, ma Gilberto è fortunato: a far da controcanto alle sue cervellotiche riflessioni c'è la praticità e la simpatia di un compagno d'avventure eccezionale e inaspettato. Una presenza capitata per caso nella vita di Gilberto e diventata il polo intorno a cui ruotano le sue giornate. A piedi e su una chiatta, a cavallo e in bici, sul cassone di un furgoncino malmesso, lungo gli antichi sentieri dei viandanti, i due amici incontreranno uomini e donne ospitali, generosità inattese e delusioni sferzanti e, tra peripezie e colpi di scena, scopriranno passo dopo passo il senso della loro avventura. Fino a quando, a sparigliare le carte, Gilberto incontrerà l'amore. Giovanni e Franz raccontano un viaggio e un punto d'arrivo che, come sempre accade, è solo e sempre un nuovo inizio.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2015
Print ISBN
9788804658139
eBook ISBN
9788852069819

1

Sono stanco. Cammino trascinando i piedi e le mie vecchie Timberland, cui sono così affezionato, sono ormai sformate. Tengo le mani sprofondate nelle tasche del giaccone e la testa sprofondata in un caos di pensieri che da mesi non mi lasciano dormire.
Arrivo alla solita fermata dell’autobus, dove aspetto il 19 che mi riporta a casa, ma decido d’impulso di continuare a camminare e di puntare verso le Rive.
Mi infilo in un portone per rollarmi una sigaretta. È da un po’ che preferisco farmele da solo. Considero quei pacchetti lucidi con scritto sopra IL FUMO UCCIDE un cedimento al vizio, invece comprando cartine e tabacco mi sembra di darmi un tono, un piccolo brivido di piacere extra al sapore di ribellione. Quando durante le riunioni mi preparo con calma una sigaretta, li vedo gli sguardi di quei miei colleghi salutisti, sempre a interrogarsi se è tabacco o erba. Piccoli borghesucci benpensanti.
Riprendo a camminare verso il mare. C’è un qualcosa di ipnotico nel lento respiro delle onde. Qualcosa che mi fa sentire meglio. Un ritmo antico, o magari solo i ricordi delle estati da bambino.
Dalla tasca estraggo lo Zippo, ultima reliquia della gioventù on the road quando giravo l’Italia sulla mia vecchia Guzzi, e accendo la sigaretta proprio prima di svoltare l’angolo. Una folata di vento mi coglie impreparato. Incasso la testa tra le spalle e proseguo spostando il peso in avanti per contrastare quella forza naturale.
D’improvviso vengo preso dalla smania di arrivare in cima al molo.
Osservo con invidia i gabbiani che stanno immobili nell’aria, senza sforzo apparente. Le penne delle ali tese e vibranti, il collo che ruota di pochi gradi e quell’occhio fisso, quasi cattivo, che ti scruta. Poi una leggera torsione e cabrano via potenti e leggeri. Come invidio quel loro volare liberi, quel non aver pensieri, quel dover preoccuparsi solo dell’istante. La loro fortuna è che non sanno che esiste il tempo. Per gli animali non ci sono ieri né domani.
Arrivato in cima al molo mi fermo, incurante degli spruzzi salmastri. In lontananza riconosco il pulsare del faro messo a guardia del grande golfo della città. Luce-pausa-luce-luce-pausa. Ho letto da qualche parte che ogni faro ha una sequenza unica al mondo, in modo che i marinai sappiano riconoscerlo misurando le alternanze luce-buio. È un po’ come le impronte digitali, che rendono le persone individui. Sarebbe bello se anche noi umani proiettassimo un segnale evidente che ci distingue dalla massa.
Mi piace moltissimo quest’ora tra la sera e la notte, quando il cielo cambia colore e dall’est il blu scuro sembra precipitare verso il mare assorbendo i profili della costa. Rimangono solo le luci degli uomini. Mi ha sempre infastidito questa mania che abbiamo di voler adattare ogni ambiente alle nostre esigenze. Cemento e strade, luci e aria condizionata, negozi e antenne, è tutto un allontanarsi dalle origini. Quando ero più giovane ci credevo veramente e mi ero anche dato da fare: avevo partecipato a sit-in di sensibilizzazione, avevo votato per i Verdi prima che sparissero definitivamente dall’elenco dei partiti, avevo parlato e parlato e parlato dell’importanza di vivere in modo bioetico. L’unico risultato pratico è stato che Maya, mia figlia, appena ventenne si è imbarcata su uno degli scafi di Greenpeace e adesso vive randagia e ha una storia con Rick o Dick o Nick, non ho mai imparato il suo nome, io lo chiamo il Vichingo un po’ per le sue origini scandinave e un po’ perché è uno dei pirati arcobaleno. A ben pensarci sono già passati cinque anni da quando se n’è andata e ci sentiamo solo di tanto in tanto. Se mi lamento lei se ne esce con un «Papà, non c’è la connessione a bordo, quando arrivo a terra ti mando un vocale su WhatsApp».
Fa freddo stasera. Il mare è ormai diventato nero, nel cielo brilla solitaria la prima stella, è ora di rientrare. Voltate le spalle all’acqua mi incammino. I cento metri del molo sono una passerella tra il buio della notte e le luci della città.
Ho di nuovo voglia di bere. Niente di impegnativo, solo una birra prima di andare a casa. Poi, una volta seduto al bar, le birre diventeranno due e le patatine al banco sostituiranno la mia cena, mentre i commenti degli altri avventori sulla partita di calcio saranno la mia compagnia. Non è esattamente la chiusura ideale di una giornata, e questa mia continua voglia di bere mi spaventa. Non avrei mai immaginato di diventare uno di quei tipi che passano le serate da soli al bancone di un bar. Come in quel romanzo di Bukowski. Barfly, la mosca da bar. Un’immagine spietata. Però non ho neppure voglia di andarmene a casa per trovare l’appartamento vuoto e la solita routine: cena sul divano, un occhio alla tv e uno allo smartphone, spiando la vita degli altri su Facebook.
«Non ci posso credere! Ma sei davvero tu?»
Una voce emerge dal buio. Una persona si è fermata davanti a me, ma le luci forti della piazza alle sue spalle mi abbagliano. Ne scorgo la sagoma però non vedo il volto.
«Sono Guido! Cazzo, qualche anno senza vedersi e tutte le nostre avventure all’università sono sparite?»
Guido Bonfanti, o Colasanti, o qualcosa che finiva in “anti”. L’ho incrociato nelle aule di Scienze Statistiche e Attuariali al secondo anno ed è stato un compagno (forse meglio usare il termine complice) di studio e di serate fino alla laurea, che abbiamo conquistato assieme, solo un paio d’anni fuori corso. Poi è sparito senza dare più segni di vita, e in una città così piccola era davvero strano.
«Guido, ma che fine avevi fatto?»
«Se sapessi, Gilberto, bisogna che troviamo il tempo per una rimpatriata e ti racconterò tutto.»
«Che ne dici di una birretta al volo, prima di cena?»
Lo so. È un modo come un altro di giustificare la mia sete nervosa, non ho poi così tanta voglia di parlare con questo ex compagno di studi, ma piuttosto che niente...
«Senti, io adesso mi devo incontrare con delle persone nella hall dell’Hotel Savoia, ma è una questione di tre quarti d’ora, un’oretta al massimo e poi ti offro la cena.»
«Andata. Ci vediamo tra un’ora fuori dal Savoia.»
Mentre Guido si allontana veloce, mi autoassolvo. È un disegno del destino. S’intende, io sarei sicuramente riuscito a resistere, ma così è molto meglio. Un’ora da ammazzare con un paio di birre e chiacchiere vuote con il barista di turno. Poi la cena a base di ricordi e nostalgie dei bei tempi dell’università. E quando arriverò a casa sarà ora di chiudere gli occhi anche su questa giornata.
Da queste parti dev’esserci quel piccolo pub stile irlandese dove andavo sempre con i colleghi quando eravamo tutti neoassunti e senza famiglia.
Appena entro mi sembra di fare un tuffo indietro nel tempo, stessi mobili, persino stesso barista, che però non mi riconosce. Chissà quante facce sono passate davanti ai suoi occhi dall’ultima volta in cui sono venuto qui.

2

«E allora, Gil? Raccontami un po’ di te. Come ti vanno le cose?»
Seduti al tavolo di uno dei migliori ristoranti di pesce della città, mi sento a disagio. Forse non è stata così buona l’idea di accettare l’invito.
Sono arrivato puntuale davanti all’Hotel Savoia e Guido mi ha raggiunto allo scoccare dell’ora. Si era cambiato d’abito ed era decisamente su di giri. Mi ha spiegato che alloggiava lì e che aveva appena concluso un ottimo affare per la sua azienda. Poi ha insistito sulla scelta del ristorante e mi ha portato in uno di quei posti di cui io avevo solo sentito parlare. Alta cucina, servizio raffinato, camerieri in divisa. E adesso eccomi qui, con il mio vestito di tutti i giorni che s’intona con il grigiore del mio umore. Seduto dall’altro lato del tavolo, Guido, elegante e brillante. Sembriamo una di quelle pubblicità dei detersivi, quando confrontano i colori vivaci ottenuti con il prodotto di una certa marca rispetto al bucato normale.
«Non c’è tanto da raccontare. Solita vita, solito lavoro.»
«Ma subito dopo l’università non ti eri sposato con quella ragazza che faceva Giurisprudenza? Quella magra, vestita sempre come una suorina?»
«Ester. Sì. Ci siamo sposati e ci siamo separati.»
So che non dovrei racchiudere in una frase di nove parole vent’anni di vita. Ma non ho voglia di riaprire quel capitolo così doloroso con uno come Guido.
«Non ci credo, dài. Ma quanto siete rimasti insieme?»
«Be’, a natale sarebbero stati venticinque anni, però ci siamo separati quattro anni fa.»
«Venticinque anni? Praticamente una vita. Figli?»
«Sì, due.»
«Cazzo, Gilberto. Ma devo farti il terzo grado? Racconta, dài.»
«Ma niente, solite cose... Subito dopo la laurea ci sembrava di avere il mondo in tasca, credevamo che tutto fosse possibile. Poi lei è rimasta incinta e ci siamo dovuti sposare. È nata una bambina, Maya, e siamo andati a vivere in un piccolo appartamento dei suoi. Ester lavorava part time nello studio del padre avvocato e lui ci pagava le bollette. Io sono stato assunto in una compagnia di assicurazioni. Stavano cercando giovani laureati per creare un ufficio sinistri che valutasse le richieste di risarcimento provenienti dall’estero. Dei superspecializzati. E mi hanno preso. Poi è nato Corrado. Ho venduto la moto e con quella se n’è andata la possibilità di viaggiare. Abbiamo fatto un mutuo. Ci siamo comperati un appartamento ed Ester si è messa in proprio. Riceveva i clienti nel nostro salotto, mentre i bambini stavano con mia madre nell’altra stanza. Ma è stata brava, ha avuto successo. Dopo tre anni guadagnava più di me, dopo cinque si è comperata uno studio in centro, dopo dieci ha iniziato a lavorare come consulente esterno per tutte le più grandi società di qui. Avvocato d’affari, specializzata in acquisizioni di società estere, soprattutto nei Balcani. Viaggiava sempre e io restavo a casa, a crescere i ragazzi. Insomma, sai come vanno queste cose. Siamo cresciuti in modo diverso. Ci siamo allontanati. Maya a vent’anni se n’è andata seguendo un amore. E anche Corrado, compiuti i diciotto, ha deciso di cercare fortuna in Argentina. A casa eravamo rimasti noi due in compagnia di tutte le accuse che ci facevamo reciprocamente. Così anche lei se n’è andata, mi ha lasciato la casa e ha creato dei fondi per i nostri figli. Molto efficiente. Molto “avvocato”. E alla fine cosa mi resta?
La settimana scorsa è morto il mio vicino di casa del quarto piano. Io non lo vedevo mai, uscivo al mattino presto e rientravo tardi. Però, adesso che è morto, mi ha fatto pensare. Siamo tutti dei solitari, sconosciuti anche per chi vive a una rampa di scale da noi. Chissà chi era, cosa ha fatto nella vita, se c’era qualcuno che gli voleva bene... Ora non c’è più. Un altro treno del tempo è passato e io non sono riuscito a prenderlo...»
Le parole mi sono uscite come un fiume, da troppo tempo le tenevo dentro. E di certo il Riesling ghiacciato che ha accompagnato il pesce mi ha aiutato a rompere la diga.
Guido tace e tiene gli occhi bassi, sembra dedicare la sua attenzione alla coppa di gelato che ha concluso la cena.
«Scusa, non volevo ammorbarti la serata con le mie disgrazie.»
«Ma cosa dici? Sono io che te l’ho chiesto. E poi non mi sembrano grandi disgrazie. Chissà quante avventure avrai adesso. Quasi quasi ti invidio. Io sono sposato e non mi posso permettere nessuna distrazione...» aggiunge a bassa voce, ammiccando «salvo quando sono in trasferta per lavoro, si intende...»
Un senso di nausea mi sale dallo stomaco. In che situazione mi sono cacciato? Guido e le sue laide allusioni, il mio essermi lasciato andare, il destino che mi ha trasformato e la mia cronica incapacità di ribellarmi. Meglio indossare di nuovo la maschera e chiudere la serata in gloria.
«Hai ragione. Senti, chiediamo il conto e andiamo in un localino che conosco.»
«Così si ragiona. Al conto ci penso io, tanto metto tutto nella nota spese. Ma in questo locale di cui parlavi c’è movimento?»
«Non ti preoccupare, gnocca garantita e zero complicazioni... però quelle costano care, e non le puoi caricare sulla nota spese.»

3

Lo squillo si fa strada come un trapano nel cervello.
Apro gli occhi a fatica, la testa mi duole e ho la bocca impastata. Non sono più abituato a tirare così tardi la sera e, soprattutto, a bere così tanti Negroni.
Mi giro nel letto, allungo una mano per far tacere quel maledetto affare e scopro che non è la sveglia ma il t...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Una seducente sospensionedel buon senso
  4. Prologo
  5. 1
  6. 2
  7. 3
  8. 4
  9. 5
  10. 6
  11. 7
  12. 8
  13. 9
  14. 10
  15. 11
  16. 12
  17. 13
  18. 14
  19. 15
  20. 16
  21. 17
  22. 18
  23. 19
  24. 20
  25. 21
  26. 22
  27. 23
  28. 24
  29. 25
  30. 26
  31. 27
  32. 28
  33. 29
  34. 30
  35. 31
  36. 32
  37. 33
  38. 34
  39. 35
  40. 36
  41. 37
  42. 38
  43. Epilogo
  44. Nota degli autori
  45. Post scriptum
  46. Copyright